giovedì 31 gennaio 2008

Horror vacui

Quanta fretta nei palazzi romani. Un extraterrestre che atterrasse all’ombra del Cupolone penserebbe che la capitale sia stata invasa dai milanesi. Da una settimana esatta, dal giorno della fragorosa caduta del governo Prodi, sono tutti presi da un’inspiegabile frenesia: e nessuno perde occasione di ribadire che non c’è un secondo da perdere. La mancanza di un governo – è il grido unanime – è un lusso che il Paese non può sostenere in un momento così delicato. (Non più di altri, diremmo. La sensazione è che ogni momento sia delicato quando cade un governo.) Persino il Professore – forse nell’ingenua speranza che ciò bastasse a salvargli la poltrona – ha ammonito nel suo canto del cigno che l’Italia non potrebbe permettersi – in questo frangente di «turbolenze economiche» (!) – un esecutivo monco o, peggio, assente.

La credenza diffusa è, insomma, che il Paese – in mancanza di una guida illuminata – potrebbe rimanere vittima di chissà quali catastrofi. Certo, sulla legittimazione di questa guida le parti sono distanti. La ricompattata Casa delle Libertà è persuasa – e non a torto – che il presente sia il migliore degli scenari possibili per le eventuali elezioni, e che ogni minuto che passa equivalga ad un elettore perso. Dunque non solo spinge per il voto, ma lo vuole anche subito. Domani stesso, potendo. Quanto all’altra metà dell’arco costituzionale, PD e soci condividono – se non l’ansia da prestazione dei berlusconiani – certo la pressione dell’astinenza dal potere. Si giocano tutte le proprie carte su un governicchio a breve scadenza: dopodiché Dio vedrà e provvederà. È sulla tempistica che le divisioni miracolosamente svaniscono: anche questa è casta, verrebbe da dire, ed un governo (altrui) è pur sempre meglio di nessun governo.

Aldilà degl'interessi di retrobottega, le preoccupazioni sono giustificate? Prendiamo la Somalia, che ha sperimentato una crisi di governo… di oltre quindici anni. In questo periodo, il paese è cresciuto sorprendentemente, come certificato persino dalla Banca Mondiale. In mancanza di governo (e regolamentazioni), un numero sorprendente d'imprenditori (e tra questi una considerevole percentuale di donne) ha finanziato la costruzione di strade, scuole ed ospedali, e sviluppato il miglior sistema di telecomunicazioni di tutta l’Africa. Certo, i problemi non mancano, e la situazione è tutt’altro che pacifica – come peraltro ovvio, dato che l’ultimo governo è stato deposto da una guerra civile e non da un poeta ceppalonese. I cosiddetti “signori della guerra” costituiscono una seria minaccia. Ma la frammentazione del potere rappresente un argine tuttora piuttosto solido alle loro rivendicazioni, a dispetto delle sciagurate manovre della comunità internazionale per ristabilire un governo centrale – indovinate chi finirebbe per entrarvi?

La Somalia è un esempio troppo lontano dall’Italia, si dirà. Prendiamo allora un caso certo meno ambizioso, ma più facilmente comparabile: quello del Belgio. Le notizie dal paese di Re Alberto hanno riempito i giornali nella seconda metà del 2007, dopo che un voto combattuto ha portato alla luce le grandi contraddizioni di un paese spaccato. La crisi si è risolta, se così si può dire, con la nomina di un governo di quelli che piacerebbero a Veltroni, da consumarsi preferibilmente entro il prossimo 23 marzo. Cos’è accaduto ai belgi, in quei sei mesi di smarrimento? Sorpresa: nulla di nulla: il sole ha continuato a sorgere su Bruxelles, nessuna epidemia si è diffusa nel paese, ed i netturbini hanno continuato a raccogliere la spazzatura – quel che a Napoli non riescono ad assicurare quattro livelli di governo ben piantati.

Ora, non c’illudiamo certo che la ricreazione durerà più di cinque minuti: ma è chiedere troppo che la litania dell’indispensabilità di lorsignori ci sia risparmiata fino a che non suoneranno la campanella?

lunedì 28 gennaio 2008

Inferno postale

Poste italiane sembra essere al collasso. E se sul Times l’amministratore delegato sfoggia un’impresa dai profitti appetitosi, in realtà sono le pagine di cronaca ad ospitare meglio le performances di Poste. Un’impresa a cui l’onere del servizio universale garantisce una riserva monopolistica e cospicui trasferimenti statali, ma che a questi compiti, sistematicamente, disattende. I casi sono ovunque: dai paesini del leccese alla metropoli milanese. Le lettere non arrivano, e la società civile è in subbuglio. Oggi, il Coordinamento nazionale piccoli comuni italiani chiede “le immediate dimissioni dell'intero vertice di Poste Italiane”, per “la situazione di autentico disagio sociale provocato dai sevizi o disservizi di Poste Italiane” “dalle valli alpine ai monti siciliani il disagio prodotto da Poste Italiane ai cittadini e' notevole come dimostrano le migliaia di proteste che arrivano quotidianamente al Coordinamento Piccoli Comuni”.
I Piccoli Comuni fanno appello, giustamente, ad un minimo di senso di responsabilità, nel chiedere l’alternanza ai vertici: ma non servirà a nulla, se non vengono rimosse quelle condizioni che impediscono il dispiegarsi della libera concorrenza. E se non si ripensa il servizio universale in un ottica meno onerosa, ma più realistica ed adatta alle nuove esigenze dei consumatori.

Lettera aperta ai verdi...

Carlo Stagnaro pubblica, su sito di Lew Rockwell, un’interessantissima lettera aperta a nome di Ron Paul, candidato alle presidenziali americane dal programma rivoluzionario ed autenticamente liberale, indirizzata agli ambientalisti europei. Potete leggerla qui.

sabato 26 gennaio 2008

Più italiani che europei

"Altro che agenda Giavazzi". "Servono nuove politiche pubbliche". "Difendere il modello sociale europeo". "Rimettere al giusto posto il parossismo finanziario". "Quanta stupida ironia per l'Iri dei panettoni abbiamo avuto negli anni Novanta" (sottinteso: che lo Stato faccia il pasticcere è cosa buona e giusta).
Mi sono 'sintonizzato' su nessuno.tv per ascoltare il convegno di quella che mi sembrava essere la Fondazione dei più avvertiti ed adulti fra i componenti il Partito democratico, e ho sentito queste cose.
Sintetizzo uno dei discorsi più "economici": la politica degli ultimi anni è stata viziata da un bipolarismo "cattivo" e "personalistico", frutto (ovviamente) della presenza di Berlusconi ma anche (e soprattutto) dalla smania di voler trasformare l'Italia seguendo un modello "anglosassone". Ciò era dovuto ad una lettura "ideologica e distorta" della caduta del muro di Berlino. Di lì sarebbe venuto un "consenso" drogato, orientato alla "finanziarizzazione estrema", che sta a monte della crisi attuale, alle "illusioni dell'economia della conoscenza", della "economia del tempo libero", dimenticandosi quanto erano belle le fabbriche e la classe operaia. Tale "consenso" segnerebbe il provincialismo di una cultura politica italiana "provinciale perché subalterna al pensiero dei neo-conservatori". L'intervento si è concluso con un elogio del proporzionale (e della prima repubblica), contro le tentazioni "della democrazia che decide".
Così Roberto Gualtieri, uno dei "saggi" del Pd, che ha parlato subito primo di Massimo D'Alema (e, fra parentesi, ha anche rintracciato nella politica monetaria della Bce un bastione del "modello sociale europeo": interessante incrociare questo commento, con le facce di chi chiede a gran voce un abbassamento dei tassi).
Che dire? Leggendo i giornali, guardando la televisione, sentendo la radio, non mi pare vi sia questo "pensiero unico". Se c'è, non è certo un pensiero unico liberista. E' poi difficile confondere una "lettura ideologica" del crollo del muro con l'unica possibile, che pure agli eredi del pci evidentemente non fa comodo: cioè il crollo di un modello politico basato sulla pianificazione, che mostra le sue crepe pure laddove è applicata in ambiti più circostanziati ma con risultati parimenti fallimentari.
Massimo D'Alema, nel suo intervento conclusivo, parlava di cortocircuito delle classi dirigenti ed incapacità di interpretare i grandi fenomeni. Evidentemente sono realtà che riscontra pure nelle proprie vicinanze.

ps: non che D'Alema sia stato tanto meglio. Mondo "indifeso verso le crisi finanziarie" e "tramonto dell'acritica accettazione del modello neo-liberista". Ancora, come fa a tramontare qualcosa che non è mai sorto? (si riscatta, va detto, quando almeno ammette che "la globalizzazione non è un gioco a somma zero")

UPDATE: qui il discorso di Gualtieri.

giovedì 24 gennaio 2008

20-20-20: Il numero fatale delle liberalizzazioni

Ieri la Commissione Europea ha ufficialmente lanciato la strategia con cui dà seguito al triplice obiettivo fissato dal Consiglio di primavera, cioè il mitico 20-20-20: 20 per cento meno consumi, 20 per cento meno emissioni, 20 per cento rinnovabili. Quello che pochi hanno rilevato è come questi obiettivi siano incompatibili con un sistema di liberalizzazioni. Con atto politico e vincolante, infatti, Bruxelles fissa la quantità di energia prodotta (20 per cento meno del tendenziale al 2020, cioè all'incirca il consumo attuale): questo si chiama pianificazione della domanda. Analogamente, dice che il 20 per cento del consumo primario (cioè il 40-50 per cento dell'elettrico) dovrà essere generato da fonti rinnovabili: e siamo al command & control. Naturalmente, fonti rinnovabili voglion dire sussidi, preferibilmente nella forma di obbligo di ritiro e tariffe incentivate: e siamo alla fissazione dei prezzi.

A questo punto, è normale chiedersi che senso abbia continuare a spaccarsi la testa con la separazione delle reti, l'apertura del mercato vincolato e quant'altro. I compagni commissari hanno indicato la strada che il popolo lavoratore seguirà per vivere in un mondo migliore, senza inquinamento capitalistico. Dasvidania a tutti.

Quando la posta non è prioritaria

Il collasso nel recapito al quale stiamo assistendo in questi giorni è l’epilogo di un percorso di gestione dell’azienda pubblica che ha risanato i conti mettendo da parte la core mission.
Come è possibile che Poste Italiane abbia un Ebit pari al 16% dei ricavi contro il 13% di TNT e il 5% dell’azienda tedesca se gli italiani non ricevono corrispondenze (solo 100 pezzi all'anno pro capite, un terzo della media europea), mentre le altre aziende sono colossi internazionali? Il gruppo Poste, caso unico nel panorama europeo, non ha più il recapito come core business, (nel 2006 ha conseguito ricavi per 10,4 miliardi nei servizi assicurativi e di bancoposta e solo per 5,4 nei servizi postali) ma ai privati che lo desiderassero è vietato entrare nel mercato.
Nel 1999, recependo la direttiva europea che avviava la liberalizzazione, il mercato in Italia è stato totalmente monopolizzato in favore dell'azienda pubblica e le concessioni agli operatori privati revocate. La conseguenza è che Poste Italiane è ancora monopolista di fatto nei segmenti in cui non lo è più di diritto e dopo che il regolatore ministeriale ha trasformato (nel 2006) tutte le corrispondenze in prioritarie, abolendo il francobollo ordinario, oggi la posta… ha smesso di arrivare.
(Commento pubblicato sul Sole XXIV Ore del 23 gennaio, p. 16)

martedì 22 gennaio 2008

Come spendere i soldi degli italiani.

Una vetrina digitale è importante per un paese a vocazione turistica, avrà pensato il ministro ai Beni Culturali Francesco Rutelli. Tanto importante da programmare di spendere 45 milioni di euro vampirizzati ai contribuenti, di spenderne effettivamente 7 per la realizzazione del sito internet http://www.italia.it/ . No, non cliccate sul link: non si aprirà nulla. Il portale, infatti, è stato chiuso dopo polemiche, indagini ministeriali, indecisioni ed incertezze nel teatrino dell’assurdo dei nostri politicanti. Che cosa resta? Ancora 38 milioni, “le risorse per riprendere il lavoro”, secondo il Capo dipartimento per l’Innovazione tecnologica, Ciro Esposito. E per generare un nuovo, dispendioso mostro.
Ma soprattutto, una perla che è rimbalzata in tutto il web, il messaggio promozionale di Rutelli, che mette anche bene in chiaro, per gl’aspiranti turisti, qual è il livello della conoscenza dell’inglese che possono aspettarsi dal Bel paese.



Esilarante, vero? 7 milioni ben spesi.

venerdì 18 gennaio 2008

In Francia è illegale spedire i libri gratis

Che di follie il mondo fosse pieno, è cosa nota. Che i cugini d’oltralpe non si tirassero indietro nella gara a chi riesce ad ideare il modo più assurdo per imbrigliare il mercato e penalizzare gli operatori migliori, è cosa che a noi italiani, che pur non siamo da meno, piace pensare.

Ma la vicenda che ha negli ultimi giorni visto protagonista la filiale francese di Amazon.com ha davvero del surreale. La nota libreria online, si è vista recentemente comminare una sanzione di mille euro al giorno, per un mese, per aver offerto ai suoi clienti la spedizione gratuita dei libri acquistati per un importo superiore ai 20 euro. La legge Lang è stata approvata negli anni 80 per difendere le librerie dalla pressione concorrenziale dei reparti lettura dei supermercati e di nuove formule di vendita, ed impone una quota massima di sconto praticabile, pari al 5 per cento. Secondo il tribunale di Versailles, il free shipping costituisce uno sconto nascosto, superiore a quello concesso, e quindi ha violato le regole della sana concorrenza, che, com’è noto, servono a tutelare i competitore meno bravi a soddisfare i consumatori piuttosto che questi ultimi.

Amazon ha però preferito pagare la multa, che sembra destinata ad innalzarsi scaduti i primi trenta giorni, piuttosto che abolire una formula giustamente apprezzata dai suoi clienti. Jeff Bezos, fondatore e chief executive dell’impresa, si è rivolto a loro, spiegandogli che "as unbelievable as it appears, the free delivery of Amazon.fr is threatened … France would be the only country in the world where the free delivery practiced by Amazon would be declared illegal", ed invitandoli a firmare una petizione per fermare questa follia.

giovedì 17 gennaio 2008

Là, dove nessun Antitrust è mai giunto prima

La signora Kroes indaga sulla farmaceutica europea. Potrebbe esserci un cartello. Perché? Perché la ricerca non produce buoni risultati.
Aspettiamo i risultati dell'indagine, ma per ora mi sembra chiaro che ci sarà da ridere. La Kroes parla di "artificiali barriere all'entrata" - espressione perlomeno curiosa, se applicata ad un settore in cui l'entrata è controllata sia dai processi autorizzativi dei nuovi prodotti, sia dalle decisioni, in termini di rimborsabilità, del maggior consumatore: lo Stato.
Altrettanto curiosa è l'idea di un cartello che serva a restringere l'offerta, nel senso di limitare la scoperta di nuove molecole. Ci sono molte ragioni per cui la farmaceutica sembra in crisi, ma che vi sia un accordo fra produttori per non dire al mondo che hanno trovato nuove cure (fonti d'introiti), per giunta a fronte di mastodontici investimenti iniziali, non è un'ipotesi molto frequentata.
Vi sono stati, in passato, casi Antitrust in cui si contestava una cartellizzazione fra produttori di medicine: per esempio per le forniture ospedaliere (imprese titolari di prodotti simili si accordano per non pestarsi i calli). Ma in quel caso, eravamo ancora nell'ambito (che all'Antitrust sta stretto) della verosimiglianza.

domenica 13 gennaio 2008

Rule of law, o roulette?

Nel dicembre 2006, autorizzando l’acquisizione di Toro Assicurazioni da parte delle Generali, l’Autorità garante insisteva sulla necessità, per snellire la dominanza (parametrata su una quota di mercato del 35%) di Generali dopo l’incorporazione di Toro, della cessione di Nuova Tirrena.
Il verdetto dell’Autorità veniva poi smentito dal Tar, e subito dopo Generali vendeva Nuova Tirrena a Groupama. Tale operazione ha però di nuovo attirato gli strali dell’Agcm, a causa della presenza di Groupama nell’azionariato di Mediobanca. Ora Catricalà torna alla carica, e c'è un ricorso pendente al consiglio di Stato contro parte della sentenza del Tar.
Il tutto si snoda attorno all'intreccio fra Fondiaria Sai/ Generali/ Mediobanca. La cessione di Nuova Tirrena si è resa necessaria per quel motivo, a causa di sospetti di "dominanza collettiva" di Fondiaria e Generali nel ramo rc auto. La sentenza del Tar sosteneva che l'Antitrust non fosse riuscito a dimostrare l'esistenza di tale "dominanza collettiva".
Generali si è comunque disfatta di Nuova Tirrena, vendendo però a Groupama. Quale è il problema? Anche Groupama è azionista di Mediobanca, nei soci "del terzo tipo" (il "gruppo francese), e Mediobanca è azionista di Generali.
Non è bellissimo vedere che il capitalismo italiano è sostanzialmente un circolo chiuso, in cui il numero di players è abbastanza limitato. Ma l'Antitrust ha il diritto di "curarne" la fisiologia? E' quello che Catricalà cerca di fare su una varietà di fronti - a cominciare dal "problema", spesso ripreso (e con grande enfasi) dai giornali, degli interlocking boards.
Quello che ci rimane, guardando tanti interventi dell'Autorità, è l'impressione di una arbitrarietà assoluta. Pensiamo alle assicurazioni. Strategie cooperative fra imprese sono sanzionate: c'è il sospetto di un cartello. Allora le imprese pensano di dover "pagare di più", per ottenere i medesimi benefici: anziché coordinarsi, debbono fondersi e "comprarsi". Ma fusioni e acquisizioni sono autorizzate sino a prova contraria. Quando uno vede "autorizzato" il proprio proposito, può darsi che debba prendere qualche inziativa collaterale. Per esempio cedere un ramo d'azienda. Quando, obbedendo, lo fa - gli viene contestato il modo in cui lo ha fatto. Alle imprese non viene detto solo se possono acquistare, e neppure se debbono vendere: bensì anche a chi debbono vendere.
Non ha tutti i torti, forse, Edwin Rockefeller*, quando sostiene che l'antitrust più che con la rule of law, ha a che fare con la roulette.

* il libro di Rockefeller sarà presto tradotto dall'IBL.

sabato 12 gennaio 2008

Debito pubblico: il sorpasso italiano

Nelle ultime settimane si è parlato e discusso a lungo del sorpasso spagnolo ai danni dell’Italia per quanto riguarda il prodotto interno lordo pro capite a parità di potere d’acquisto.
Si è parlato poco invece di un importante sorpasso effettuato dall’Italia nei confronti della prima economia europea: la Germania.
Questo sorpasso tuttavia, non è motivo di vanto; stiamo parlando del debito pubblico.

Il debito pubblico è uno stock ed un è valore che deriva grossomodo dalla somma di tutti i deficit che ogni anno le Amministrazioni Statali accumulano; se esse hanno delle spese superiori alle entrate in un determinato anno, allora il bilancio sarà in deficit.

Ma quanto ammonta il debito italiano? Secondo le stime Eurostat, nel 2006, ha raggiunto la cifra di 1575 Miliardi di Euro, circa 26000 Euro per ogni cittadino italiano. Abbiamo superato la Germania, poiché il debito in questa Nazione ha raggiunto nello stesso anno i 1568 Miliardi di Euro.
Nessun altro Stato dell’Unione Europea ha uno stock di debito così elevato: triste primato.

Il debito chiaramente ha un costo che ammonta a circa il 5 per cento annuo. Questo significa che ogni cittadino deve versare ogni anno allo Stato Italiano circa 1300 Euro in tasse solamente per pagare il costo del debito.
I dati sono ancora più gravi se si considera che l’economia italiana conta per il 12,6 per cento dell’economia dell’Unione Europea a 27 Stati, ma ha il 22 per cento del debito totale.

Il debito è un freno tirato per tutta l’economia italiana; è necessario incrementare l’avanzo primario tramite la riduzione delle spese in modo che gli italiani abbiano la “tassa” sul debito ridotta.
La riduzione del deficit prevista per il 2007 va sicuramente nella giusta direzione; un rapporto deficit su PIL sotto il 2 per cento è una buona notizia; tuttavia il dato tendenziale, senza le spese dei “tesoretti”, avrebbe portato il rapporto per il 2007 probabilmente vicino all’uno per cento.

L’Italia, Paese con il debito più grande d’Europa, dovrebbe dunque porsi come unico obiettivo la riduzione del debito.

venerdì 11 gennaio 2008

Malpensa e Alitalia in pillole

Non si può richiedere a Malpensa e ad Alitalia di fare quello che non sono in grado di fare. Questa affermazione sembra essere scomparsa dal vocabolario di diversi uomini politici, governanti e sindacalisti, di qualunque colore politico essi siano.

Di seguito propongo dieci pillole, a volte amare ma realistiche, circa la questione Alitalia e Malpensa.

  1. Cannibalizzazione di Linate
    Nonostante abbia un bacino di clientela business non indifferente, le debolezze dell'aeroporto sono conosciute. Linate inoltre cannibalizza Malpensa. Gli ultimi dati di traffico aeroportuali del 2007 confermano ciò; circa 10 milioni di passeggeri (prevalentemente business) hanno utilizzato il comodo aeroporto cittadino piuttosto dello scalo varesino. Per fare un hub, è molto importante fare feederaggio, ma Linate limita in gran parte questa operazione.
  2. La Sea agisce da monopolista
    La SEA, gestore degli aeroporti di Milano,è un'azienda pubblica, che opera in un regime di monopolio naturale. Non è molto efficiente e ha come unica possibilità di sviluppo il saper offrire il proprio prodotto a dei costi inferiori. L'accettare Ryanair non è facile, poiché la compagnia irlandese, chiede meno servizi a dei costi inferiori e più efficienza. Le offerte per lo scalo varesino non mancano e la partenza di Alitalia già nel medio periodo può diventare un vantaggio competitivo. Il mercato offre delle possibilità di sviluppo all’aeroporto di Malpensa.
  3. Il mercato aereo: lo sviluppo recente
    Il mercato del trasporto aereo si sta sviluppando negli ultimi anni soprattutto per quanto riguarda il point to point, mentre l'hub and spoke sembra pressochè stagnante.
  4. Condizioni necessarie per un hub
    Per fare un hub, ci vuole una compagnia di riferimento che abbia le capacità di investire sullo scalo.
  5. La crisi Alitalia e il doppio hub
    A questo punto arriviamo ad Alitalia. I problemi della compagnia di bandiera sono anch'essi noti; i sindacati e i politici hanno voluto la compagnia morente, per difendere interessi propri.
    Alitalia non è mai stata in grado di sostenere un doppio hub. Ha 24 aerei a lungo raggio contro i 150 circa di AF-KLM. Il feederaggio su Malpensa e quindi l'alimentazione dell'hub provoca una perdita di circa 200 milioni di Euro l'anno.
  6. Concorrenza delle low cost e la scelta di mercato di Alitalia
    La concorrenza delle low cost ha aggravato la crisi di Alitalia, in quanto si è ritrovata a competere con operatori che propongono lo stesso servizio a dei costi molto inferiori (dura legge del mercato).
    Adesso, Prato ha fatto una scelta di mercato, Fiumicino, convinto che il turismo incoming (Roma è la meta principale) possa essere il traino del rilancio di Alitalia. Airfrance ha seguito il piano industriale dell’AD di Alitalia presentato ad inizio settembre.

    I due problemi sono dunque molto legati ed entrambi subiscono la scarsa capacità politica italiana di comprendere il mercato.

  7. Funzionamento degli slot e la situazione di Malpensa
    Venendo all'ultima questione, come funzionano gli slot. La normativa vigente a livello europeo (nè nazionale nè regionale) è quella dei grandfather's rights. Regione e Stato italiano possono quindi fare lobbying a livello europeo.
    Ad inizio stagione (invernale o estiva), la compagnia che possiede gli slot ne chiede il rinnovo. Se il vettore ha utilizzato almeno l'80 per cento dello spazio nella stagione antecedente, il rinnovo è automatico; nel caso lo slot non sia stato utilizzato per quella data percentuale, esso non rimane alla compagnia, ma ritorna sul mercato.
    Se Alitalia non utilizzerà gli slot tra aprile e ottobre 2008, teoricamente nel novembre 2008 questi rientreranno sul mercato. A chi vengono assegnati questi slot lasciati liberi? Al 50 per cento ad operatori che operano già sullo scalo e il restante 50 per cento a nuovi operatori.
  8. La congestione aeroportuale
    La congestione aeroportuale è uno dei problemi più gravi per la concorrenza nel settore del trasporto aereo. In particolare ad Heathrow non sono più disponbibili slot. Il problema è cosi grave nello scalo londinese che, Alitalia a corto di liquidità, a fine dicembre ha venduto alcuni slot per circa 60 milioni di Euro, una cifra esorbitante.
    Malpensa invece risulta essere inoltre un aeroporto dove la congestione è molto limitata e sono disponibili ancora 250 slot.
  9. Dove sorge il problema?
    Il problema è la mancata liberalizzazione del mercato intercontinentale. Ad eccezione del mercato nazionale, europeo e quello atlantico (USA e UE) che sono pienamente liberalizzati o lo saranno a partire da fine marzo 2008, le rotte tra due Paesi, ad esempio Italia e Cina, sono scelti tramite accordi bilaterali. L'accordo bilaterale non avviene però tra Italia e Cina, ma tra Unione Europea e Cina, poichè la competenza normativa è comunitaria.

    La liberalizzazione del mercato aereo mondiale è il nostro obiettivo (IBL), tenendo però conto che circa il 90 per cento del mercato è già liberalizzato o lo sarà a partire da fine marzo 2008.
  10. Malpensa e le opportunità del mercato
    Malpensa deve dunque cercare di conquistarsi sul mercato parte del traffico mondiale, cercando di attrarre le compagnie straniere.
    Ad esempio British Airways, grazie alla liberalizzazione Usa – Unione Europea ha affermato proprio ieri che vuole cominciare a partire dal 2009 un nuovo collegamento diretto tra Milano e New York.
    Il mercato del trasporto aereo in Italia verso tutte le destinazioni, è cresciuto del 90 per cento dal 1997, anno della liberalizzazione Europea, nonostante il tragico evento dell’11 Settembre.

Le opportunità per gli operatori aeroportuali e per le compagnie aeree sono ottime in un mercato in forte espansione.

Un voto ai ministri

Questa mattina Radio 3 Mondo mi ha chiesto, assieme ad altri rappresentanti di think tank, di dare un voto ai ministri del governo Prodi. Qui sotto incollo la mia lista. E' possibile inviare all'indirizzo email della trasmissione le valutazioni degli ascoltatori, che saranno aggregate domani per dare una pagella al governo. Fatevi sotto!

Ministro dell’Interno – Giuliano Amato – 6
E’ uno degli uomini più in gamba in forza al governo, ma all’atto pratico poteva fare meglio. Poteva fare anche molto peggio, e questo gli vale la sufficienza.

Ministro dello Sviluppo Economico – Pierluigi Bersani – 7
Bravissimo comunicatore, bravo nell’introdurre piccole liberalizzazioni negli interstizi corporativi, ma quanta confusione sotto il cielo.

Ministro dei Trasporti – Alessandro Bianchi – 2
La sua missione è affossare la rivoluzione low cost e fare dell’Italia un’immensa Alitalia.

Ministro della Famiglia – Rosy Bindi – 5
Già la famiglia non ha bisogno di ministri. Di questa, poi…

Ministro del Commercio Internazionale– Emma Bonino – 8
Per una volta, l’Italia è sistematicamente schierata a favore del free trade. Brava.

Ministro per i Rapporti con il Parlamento – Vannino Chiti – 6
E’ un voto di compassione. Poveraccio, non lo invidio.

Ministro degli Affari Esteri – Massimo D’Alema – 7
Ha una politica, e già è qualcosa. E, per quanto possibile, è una politica fatta di pragmatismo e apertura.

Ministro del Lavoro – Cesare Damiano – 5
Indossa delle bellissime cravatte, e questo tira su il voto.

Ministro dell’Agricoltura – Paolo De Castro – 4
Il suo comportamento sugli ogm è semplicemente inqualificabile.

Ministro delle Infrastrutture – Antonio Di Pietro – 5,5
Di Pietro ha fatto cose buone e cose assurde. E’ imprevedibile. L’imprevedibilità non è un pregio.

Ministro della Solidarietà Sociale – Paolo Ferrero – 4
Non ne azzecca una.

Ministro dell’Istruzione – Beppe Fioroni – 7
Dopo tante riforme assurde, finalmente uno che si sia reso conto che le tabelline non hanno colpe.

Ministro delle Comunicazioni – Paolo Gentiloni – 6,5
Male sulle tv, bravo sulle poste.

Ministro degli Affari Regionali – Linda Lanzillotta – 8
Ci ha provato e ci prova. Probabilmente, sui servizi pubblici locali perderà, ma combattendo. Quanti possono dire lo stesso?

Ministro della Giustizia – Clemente Mastella – 6
Sulle intercettazione ha ragione da vendere.

Ministro per le Politiche Giovanili e lo Sport – Giovanna Melandri – 5
La fiera delle banalità.

Ministro dell’Università – Fabio Mussi – 4
Vuole rispondere all’eccesso di burocrazia con ulteriori burocratizzazioni. Dasvidania tovarisch.

Ministro per le Riforme e Innovazioni nellla Pubblica Amministrazione – Luigi Nicolais – 5/6
Tante buone intenzioni, ma è l’equivalente politico del coitus interruptus.

Ministro dell’Economia – Tommaso Padoa Schioppa – 4
Ha deluso virtualmente tutti quelli che credevano fosse l’uomo giusto al posto giusto. Io non lo credevo e ora ne ho le prove.

Ministro della Difesa – Arturo Parisi – 6
Ha avviato il processo per mettere sul mercato il wi-max. Non è poco.

Ministro dell’Ambiente – Alfonso Pecoraro Scanio – 3
Devo giustificarlo?

Ministro per i Diritti e Pari Opportunità – Barbara Pollastrini – 5
Vedi alla voce: Melandri.

Ministro dei Beni e Attività Culturali – Francesco Rutelli – 5
Rutelli è ministro?

Ministro per l’Attuazione del programma – Giulio Santagata – 8
Il programma non è stato attuato, in larga misura. Bravo!

Ministro della Salute – Livia Turco – 3
Non solo ha fatto male nel suo, ma ha cercato di ostacolare la liberalizzazione dei farmaci da banco.

Metodologia e dintorni / 2

Anche La mia destra coglie a pretesto l'ormai famoso post di Carlo Lottieri per incalzare gli Austriaci sul terreno metodologico. Vale la pena di dissipare alcuni equivoci.

Il nostro amico pare, infatti, dare credito alla teoria che vede negli economisti austriaci dei poeti mancati che non sanno le tabelline. Non è davvero così: Murray Rothbard, per esempio, aveva brillantemente ottenuto la sua laurea alla Columbia University in matematica.

Come prezzare un'azione, si chiede La mia destra, sulla base del"paradigma tradizionale austriaco", e cioè "rifiutando sia l'uso della matematica sia l'uso dell'econometria tanto nella ricerca economica quanto nella sua applicazione pratica"?

In realtà, quello dipinto non è affatto il paradigma austriaco. Si pensi soltanto all'enfasi posta da un autore come Mises sul tema del calcolo economico. Quello che gli austriaci fanno è piuttosto distinguere nettamente tra teoria e pratica - tra teoria e storia, per ricorrere alle categorie misesiane.

Se la teoria consente "pattern predictions", e mai previsioni quantitative, è invece ben plausibile che la pratica imprenditoriale richieda l'utilizzo di strumenti matematici e l'elaborazione di dati numerici. Ma - sebbene vi siano certo delle relazioni - questo sforzo intellettuale non rientra nell'ambito della teoria economica. Così come di un cuoco che sperimenti tecniche di cottura innovative non diremmo che sta avanzando la scholarship dei chimici.

Pare dunque necessario chiarirsi le idee sui limiti della disciplina. Non è un caso che gli esempi suggeriti da Lamiadestra non riguardino nodi teorici della scienza economica, ma piuttosto problemi di politica economica o d'economia aziendale o ancora di finanza (sì, sono effettivamente due cose diverse: perché non dovrebbe valere come risposta?). Nessuna contraddizione esiste, insomma, tra l'epistemologia austriaca e l'agire concreto degli operatori del mercato.

La contraddizione esiste, evidentemente, con la pretesa che i modelli econometrici rivestano alcuna utilità per la speculazione teorica. Gli argomenti contrari sono invero tutt'altro che autoevidenti. Che la tendenza verso una matematizzazione ed un formalismo sempre più esasperati sia una evoluzione nel segno della scientificità è, ad esempio, una credenza confortante quanto apodittica dell'economia mainstream.

Evidentemente, l'approccio austriaco ha le proprie controindicazioni, ad esempio in termini di sociologia della scienza. Ma rigettarne frettolosamente le elaborazioni in virtù di un'opzione positivistica sulle cui premesse e conseguenze non si è riflettuto a sufficienza è un errore che potrebbe essere pagato a caro prezzo.

PS Una nota di colore. Thomas Carlyle diede dell'economia la definizione di "dismal science", che Lmd richiama nella sua conclusione, non in virtù dell'oggetto prosaico della disciplina, ma perché essa non era in grado di fornire fondamenta razionali al suo suprematismo razziale. Penso si possa convenire che la "scienza triste" non è così triste, dunque. Ma che per la generazione di Freakonomics l'economia sia poco più che statistica applicata... questo, un po' triste, ci sembra davvero.

giovedì 10 gennaio 2008

Più cinema e meno Stato!

Il 2007 si è chiuso con il botto per il cinema in Italia. I dati fatti registrare al botteghino parlano di una settima arte che gode di buona salute. Mai negli ultimi anni (se si eccettua il 1998) gli incassi delle sale e la quota di cinema italiano sul totale dei film giunti sul grande schermo sono stati così alti. Saremo degli ottusi ottimisti ma le cose si stanno mettendo veramente bene. Nonostante ancora in questi giorni su certa stampa si cerchi di aizzare i nostri Centautori, le misure adottate in finanziaria dovrebbero portare benefici al cinema anche per i prossimi anni. Se negli Stati Uniti la cerimonia dei Golden Globe sembra dover saltare a causa dello sciopero degli autori che hanno trovato il sostegno degli attori di Hollywood, qui da noi si spera che i grandi progetti di riforma del settore rimangano nei cassetti delle scrivanie dei loro proponenti. Tax shelter e tax credit saranno più che sufficienti per spingere i nostri registi e i nostri produttori a fare film. Anzi, se una cosa si può fare (e si deve fare) è quella di eliminare il sostegno diretto dello Stato al cinema. Pertanto, basta sovvenzioni dirette e basta commissioni. Che gli sgravi fiscali siano l'unica condizione di intervento. Tutti siano aiutati allo stesso modo e chi è bravo si meriti i suoi guadagni. Sarebbe difficile potere ancora accettare un sistema così inefficiente da stanziare fondi per film che non raggiungono nemmeno le sale. In questi ultimi anni l'industria cinematografica ha saputo riorganizzarsi senza l'aiuto dello Stato. La produzione ha proposto film italiani in grado di conquistare il pubblico; la distribuzione ha fatto uscire film in periodi in cui si faceva fatica a trovarne in sala; l'esercizio ha saputo dar vita a una trasformazione del parco sale, creando moderni multiplex e cityplex costruiti proprio da imprenditori italiani. Ora allo Stato si chiede di fare un passo indietro, lasciando spazio ad una industria che può reggersi sulle proprie gambe.
Il noto economista americano Tyler Cowen (si veda il suo brillante blog: www.marginalrevolution.com) autore di un bel libro come "In praise of commercial culture" e fiero sostenitore di uno Stato non interventista in ambito culturale, ha di recente pubblicato uno studio (questo) in cui analizza in chiave comparativa il modello europeo di sostegno alla cultura e quello americano. Se il primo vede lo Stato agire in maniera diretta e corposa (si pensi solo al caso francese), il secondo ha nella mano pubblica un intervento indiretto e più discreto. Per Cowen il sistema americano risulta essere più efficiente. Non sarebbe male cominciare anche in Italia a ripensare l'intervento dello Stato, per renderlo più simile al modello a stelle e strisce. Magari cominciando dal cinema...

Guido Rossi, Hayek, e "come combattere il liberismo globale"

Sotto l'affascinante titolo "Come combattere il liberismo globale", oggi Repubblica anticipa uno stralcio del nuovo libro del Professor Guido Rossi. Gli argomenti sono più o meno i soliti, e il lettore ne trae un vago senso di deja-vù - se ha letto l'ultimo lavoro del giurista milanese (come Istituto, sul tema abbiamo già dato: vedi qui e qui).
Tuttavia, non si può non restare sorpresi per una citazione, riportata fra l'altro con grande evidenza:

... nella storia del capitalismo la libera concorrenza è stata garantita non dal libero mercato, ma dalle leggi antitrust. Lo sapeva molto bene un maestro del liberalismo economico, molto citato ma evidentemente non altrettanto letto, Friedrich von Hayek.


Poi i puntini di sospensione troncano quella che, presumibilmente, nel libro sarà una dotta argomentazione a supporto della tesi dell'autore. Tuttavia, lì per lì non possiamo che restare di sasso.
Punto primo. Se "nella storia del capitalismo la concorrenza è stata garantita dalle leggi antitrust", delle due l'una: o per Guido Rossi la storia del capitalismo comincia nel 1890 (con lo Sherman Act), oppure fino ad allora la concorrenza non esisteva (ma, ammesso e non concesso che lo Sherman Act sia stato veramente pensato con questo obiettivo, come si fa a fare una legge per "garantire" qualcosa che non si sa cos'è?).
Punto secondo. Se c'è uno scienziato sociale che ha radicalmente e nettamente rigettato i presupposti teorici su cui si basa ampia parte degli interventi Antitrust, quello è Hayek. La teoria della concorrenza perfetta raggiungeva, nella visione del grande austriaco, picchi d'assurdità: presupponendo che fosse noto "tutto ciò che la teoria economica chiama i dati, la concorrenza sarebbe inutile e rovinosa (...) quali beni siano scarsi, o quali cose siano dei beni, e quanto siano scarsi o che valore abbiano, sono esattamente queste le cose che la concorrenza deve scoprire". Per Hayek, la concorrenza è un processo di scoperta del quale nessun pianificatore o regolatore può anticipare con successo gli esiti. E' vero che, come scrive in una pagina famosissima, il risultato del lavoro del sistema dei prezzi somiglia a quello che a posteriori si potrebbe immaginare essere il piano di una "grande mente". Ma non lo è, e per questo chi guarda il mercato deve farlo con umiltà, evitando di sanzionare la concorrenza reale per l'orrido crimine di non assomigliare al modello.
Hayek non è un pensatore che si sia occupato in prima persona di public policies con grande attenzione, ma che avesse dei timori su come funzionano le autorità Antitrust l'aveva detto in modo incontrovertibilmente chiaro.
Ne "Il significato della concorrenza" (1946), scrive fra l'altro:

...la tendenza che prevale nel dibattito corrente è quella di essere intolleranti per quanto riguarda le imperfezioni [rispetto al modello], e di tacere invece sugli impedimenti alla concorrenza... ci si dovrebbe preoccupare molto meno del fatto che, in una data situazione, la concorrenza sia perfetta, e molto di più del fatto che ci sia concorrenza in assoluto.


E' probabile che Guido Rossi si sia rifatto a "The Constitution of Liberty" (1960, per gli italiani: "La società libera"), il libro più statalista di Hayek in un certo qual senso, dove invero a un certo punto dice:

La politica antimonopolistica è stata in generale il principale obiettivo dello zelo riformatore dei liberali... Penso ancora... che può essere bene che il monopolista sia trattato come una sorta di obiettivo polemico della politica economica; e riconosco che negli Stati Uniti la legislazione è riuscita a creare un clima d'opinione sfavorevole al monopolio. Finché l'applicazione di norme generali (come quella della non-discriminazione) può tenere a freno i poteri monopolistici, quest'azione è assolutamente positiva.


Ma che aggiunge Hayek qualche riga dopo?

Sono però diventato sempre più scettico sul risultato benefico di qualsiasi attività discrezionale dello Stato contro particolari monopoli e sono seriamente allarmato dalla natura arbitraria di ogni politica che miri a limitare le dimensioni dell'iniziativa privata.


E ancora:

La politica corrente manca di riconoscere che non il monopolio come tale né le sue dimensioni sono dannosi, ma lo sono unicamente gli ostacoli all'accesso in un certo ramo di attività o in un commercio.


Da ultimo:

E' stupido... tentare di creare condizioni 'ipotetiche' di concorrenza. Il diritto non può disconoscere le situazioni esistenti... Tutti i paesi hanno fatto l'esperienza: quando cerca di sorvegliare i monopoli, il potere discrezionale ben presto si abitua a distinguere tra monopoli 'buoni' e 'cattivi e si scopre più interessato a proteggere il presunto buono che a impedire quello cattivo. Dubito che esistano monopoli 'buoni' che meritino di essere protetti. Ma ci saranno sempre monopoli inevitabili, il cui carattere transitorio e temporaneo viene spesso trasformato in permanente dalla sollecitudine dello Stato.


Attendiamo con vera trepidazione il libro del Professor Rossi, perché ci illumini su dove e quando mai nella vita Hayek ha considerato l'Antitrust l'ostetrica della concorrenza.

Metodologia e dintorni

Nei commenti su Liberalizzazioni.it ed in un successivo post sul suo blog, la blogstar italica Phastidio ha sollevato alcune perplessità sulle osservazioni di Carlo Lottieri in merito ad un recente studio di tre ricercatori di Bankitalia.

In breve, Phastidio replicava alle remore di Carlo (non tanto sui risultati quanto) sul metodo della ricerca*, riaffermando la necessità che ogni buon economista a) tenti di falsificare empiricamente le teorie e b) si serva, nel corso di tale operazione, di modelli matematici; tutto ciò di fronte alle pretese contrarie della Scuola austriaca (un'ideologia, secondo la critica frettolosa), che a tali strumenti contrappone il procedimento logico-deduttivo e l'argomentazione.

Il dibattito non è nuovo, ed ha generato incomprensioni assai profonde - a dispetto delle affinità ideologiche - tra gli studiosi favorevoli al mercato - che tipicamente amano guerreggiare su questioni assai meno rilevanti. Questo blog non è il posto adeguato per dipanare i risvolti della diatriba, e d'altro canto i nostri lettori che desiderino approfodire il tema avranno a disposizione un'ampia messe di fonti.

Giova però rilevare come la distanza apparente tra l'apriorismo austriaco ed il positivismo mainstream sia talvolta più cospicua di quella effettiva. Per citare un unico significativo esempio, James Buchanan - non certo un misesiano, seppur simpatetico nei confronti degli Austriaci - commentò un paper apparso negli anni '80 sull'American Economic Review e mirato a dimostrare gli effetti pro-occupazionali del salario minimo (!) paragonandolo allo sforzo di un fisico che sostenesse che l'acqua scorre in salita. Evidentemente sotto la scorza d'ogni economista si cela l'anima di un prasseologo! (Forse questo non vale per Phastidio, secondo cui, viceversa, «l’economia non è la legge della caduta dei gravi».)

Il senso profondo dei rilievi di Carlo stava, mi pare, nella tensione al raffinamento degli argomenti che determina la credibilità delle proprie proposte e previene le obiezioni più salienti. Insomma, poiché è della desiderabilità di determinate politiche pubbliche che, in ultima analisi, qui discutiamo, è opportuno enfatizzare la convergenza delle soluzioni, più che la divergenza dei metodi. Ma è altrettanto opportuno puntualizzare - come ha fatto Lottieri - la debolezza di alcuni passaggi logici, perché di tali precisazioni beneficia l'intero argomento.

UPDATE Interessanti note a margine da parte di Liberty First.

* Va anche precisato che le considerazioni di Carlo non sono rivolte, come Phastidio sembra ritenere, a questo particolare modello, ma allo strumento dei modelli econometrici in generale.

mercoledì 9 gennaio 2008

Emergenza rifiuti: troppo poco mercato

Il problema della spazzatura sta raggiungendo in questi giorni dei toni tragici, e mentre i politici ci promettono di volta in volta “soluzioni definitive” ed i campani, giustamente scettici, scendono in piazza, l’immondizia si accumula. Sottolinea però Carlo Lottieri, in un nuovo Focus, che la soluzione non può essere trovata in «una retorica che potremmo battezzare “repubblicana”, [che] vede nel civismo e nella determinazione ad immolarsi per l’interesse generale l’unica maniera di aggirare tali difficoltà», quanto in un’approccio liberale.

Un approccio che tenga conto delle vere parti in causa, cioè coloro che vengono danneggiati dalla costruzione delle necessarie strutture di smaltimento dei rifiuti, e chi da questa attività trae un guadagno, e le spinga a negoziare per assegnare un valore ai diritti lesi. Questo costo può emergere solo in una transazione di mercato, può essere definito e ricompensato.

La negoziazione, continua Lottieri, non è quello che manca, oggi. Solo, non coinvolge le parti lese ma politici: amministrazioni locali ed imprese, solitamente a capitale pubblico. Porta l’esempio del paesino di Parona, dove Lomellina Energia, per ottenere il consenso dell’amministrazione locale alla realizzazione di un termodistruttore ha offerto di versare ogni anno al Comune una quota del suo fatturato, di circa 2 milioni di euro. Ora, tenendo presente che il paese conta meno di duemila abitanti, in una negoziazione di mercato, l’azienda avrebbe offerto circa 4.000 euro a famiglia, per 15 anni. Troppo pochi per ripagare i danni? Avrebbero scelto le persone che, questi danni, li avrebbero subiti. Avrebbero potuto contrattare un altro prezzo. L'impresa potuto offrire la medesima cifra ad una altro paesino, o ad un altro ancora, fino a trovare qualcuno disposto ad accettare l’offerta.

Nel mercato, un impianto di termovaloriazzazione (ma leggi anche rigassificatore, centrale nucleare, etc) si trasformerà, per gli abitanti di una città (e non solo per i suoi politicanti), in un’opportunità, e verrà costruito là dove gli abitanti saranno disposti a coglierla.

Crossposted @ Realismo energetico

Gli apprendisti stregoni di Malpensa

Il progetto Malpensa-Alitalia di un grande hub internazionale, costruito a tavolino negli anni '90 e del quale stiamo assistendo al dissolvimento, è ben rappresentabile attraverso la ballata di Goethe dell'apprendista stregone, musicata da Dukas e interpretata da Topolino in Fantasia.

In questo caso il maestro stregone è il mercato, in quanto l'unico a conoscere la formula magica per trasformare comportamenti autointeressati di una molteplicità di soggetti in benessere della collettività. Gli apprendisti stregoni, invece, sono i soggetti pubblici pianificatori che hanno pensato che si potesse realizzare uno hub a prescindere dal mercato e riempendolo con i voli obbligati di una compagnia di stato poco efficiente, basata su una sede differente, con una scarsa vocazione al trasporto intercontinentale, con pochi aerei a lungo raggio e senza la capacità finanziaria per comperarseli.

In questo modo si è ripetuto il dramma del pianificatore centralizzato il quale, anche se benevolente, non è onniscente e pertanto soggetto a commettere errori; inoltre, poichè deve prendere grandi decisioni, commette anche grandi errori dei quali tuttavia non è in genere chiamato a risarcire i costi. Anche i singoli decisori decentralizzati (in questo caso i singoli gestori aeroportuali, le compagnie aeree e i viaggiatori) non sono onniscenti e compiono errori ma godono rispetto al pianificatore centralizzato di due vantaggi rilevanti: (a) se sbagliano i costi sono a loro carico e quindi vi è un forte incentivo a evitarli o correggerli; (b) se li commettono, è comunque probabile che siano di dimensioni contenute e di segno opposto tra soggetti differenti, quindi almeno in parte in grado di compensarsi.

Nel caso di Malpensa tre grandi 'imprevisti' si sono coalizzati per scompaginare gli intenti dei pianificatori:

I - Malpensa ha un difetto geografico irremediabile: non è a Linate. Poichè esiste Linate, e si trova in città, è l' aeroporto di gran lunga preferito dai viaggiatori italiani diretti a Milano anzichè a mete estere. Malpensa, pertanto, poteva avere successo solo chiudendo Linate o limitandolo fortemente, ad esempio destinandolo alla sola navetta con Roma, come era nei progetti originari. Questa scelta, contraria al libero mercato, non è stata tuttavia possibile: il desiderio dei consumatori (non solo italiani ma anche europei) di continuare ad arrivare a Linate si è trasformato in desiderio, interessato, dei vettori di assecondarli e la somma dei due desideri ha fatto breccia, anche legale, nel muro dei pianificatori. Ma questa imprevista deviazione dal piano ha avuto l'effetto di svuotare i voli nazionali Alitalia di alimentazione di Malpensa: se prima del 1998 un imprenditore di Ancona diretto nel sud est asiatico si recava a Roma per prendere il volo intercontinentale Alitalia viaggando sullo stesso volo del suo collega diretto nella capitale, oggi lo stesso imprenditore che deve andare a Malpensa viaggerà su un aereo Alitalia differente dal collega che deve andare in centro a Milano. In tal modo i voli di feederaggio verso Malpensa sono divenuti talmente non remunerativi da affossare la redditività che è tipica dei voli intercontinentali e di contribuire, congiuntamente al maggior costo del far volare da Malpensa equipaggi romani, ad affossare l'intera compagnia di bandiera.

II - Il secondo 'imprevisto' è stato generato dall'inatteso sviluppo dei vettori low cost e, in generale, della concorrenza sui mercati europei liberalizzati. L'abbassamento dei prezzi e la forte crescita della domanda hanno infatti reso conveniente su molti collegamenti abbandonare il sistema hub and spoke in favore del point to point. Il primo, diffuso in una fase oligopolistica del mercato statunitense, è efficiente solo quando la domanda per collegamenti diretti è tale da non coprire il costo dei voli: se un vettore serve cinque città (che chiamiamo A, B, C, D ed E) , vi sono dieci collegamenti diretti possibili (AB, AC, AD, AE, BC, BD, BE, CD, CE, DE). Essi, se la domanda su ognuno è insufficiente, possono essere ridotti a quattro scegliendo una città, ad esempio B, come hub (BA, BC, BD, BE). In tal modo sui voli da A per B viaggeranno i passeggeri diretti a B assieme ai passeggeri destinati a proseguire su altri voli verso C, D ed E, e così via. Ma l'aumento della domanda e il contenimento dei costi dei voli, fenomeni sui quali la crescita della concorrenza ha non poche responsabilità, generano una progressiva convenienza al passaggio ai collegamenti diretti i quali aumentano il benessere del consumatore che può ridurre i tempi ed evitare il doppio volo.

III - Il terzo imprevisto, l'11.09.01, ha drasticamente ridotto, ma solo transitoriamente, la domanda sui mercati intercontinentali. In questo caso l'errore è di Alitalia che ha fortemente ridotto l'offerta su tale segmento non transitoriamente, come era corretto fare per contenere i costi, bensì permanentemente. In tal modo, a fronte di 4 milioni di passeggeri sull'intercontinentale nel 2000, Alitalia ne ha avuto solo 2,7 nel 2002 e 3 nel 2003, meno del 1996 anno in cui operava solo da Fiumicino. A che serviva Malpensa per così poco?

Questi sono gli errori che hanno portato alla dissoluzione del progetto Malpensa-Alitalia e alla quasi dissoluzione del vettore di bandiera. Per fortuna di Malpensa e nonostante Alitalia e i pianificatori, il mercato si sta prendendo la sua rivincita ed è in grado di salvare l'aeroporto varesino. Infatti Malpensa, che è molto debole sul segmento nazionale (il traffico è in continuo calo) si sta invece rivelando, nonostante i suoi molti difetti, un aeroporto di successo sui segmenti internazionali con passeggeri in forte crescita nell'ultimo quadriennio: 13,6 milioni nel 2003, 15 nel 2004, 16,4 nel 2005, 18,7 nel 2006 e 20,6 nel 2007. E nessuno dei passeggeri aggiuntivi, anch'essi imprevisti dai padri pianificatori di Malpensa, ha viaggiato con Alitalia.

Poichè i più recenti incrementi annui sono superiori al traffico dei voli che Alitalia ha annunciato di voler trasferire, se la tendenza proseguirà, come è prevedibile, anche nel 2008, l'aeroporto di Malpensa sarà in grado di assorbire senza scossoni la legittima decisione del vettore di bandiera. Con buona pace dei più recenti apprendisti stregoni i quali ritengono che l'unico modo per salvare Malpensa sia di impedire la cessione ad Air France (o di pianificare a tavolino questa volta non un aeroporto ma la creazione di una compagnia 'nordica').

lunedì 7 gennaio 2008

"Le vie del Signore sono infinite". Bankitalia vs. taxation

In questi giorni la stampa italiana ha dato giustamente molto rilievo ai risultati di uno studio realizzato da Lorenzo Forni, Libero Monteforte e Luca Sessa (ricercatori della Banca d’Italia) sugli effetti sull’economia della zona-euro di un’eventuale riduzione delle imposte. E finalmente è stata richiamata l’attenzione, con tutto il prestigio degli autori di tale ricerca, sulla necessità di ridurre la pressione fiscale.

Osservata con sguardo “laico” (e l’aggettivo è qui impiegato in una delle sue accezioni più arcaiche: come sinonimo di “ignorante”, e nel caso specifico sta ad indicare chi non è economista e meno che mai a proprio agio di fronte alla macroeconomia), la ricerca appare basata su premesse metodologiche lontane da quanti si collocano nella tradizione liberale classica e specialmente da quanti sono di scuola “austriaca”. Il punto di partenza – per esplicita ammissione degli autori – è un “modello di equilibrio generale dinamico stocastico”: un modello, quindi, assai astratto e lontano dalla realtà.

Sia chiaro: ogni riflessione sui fenomeni sociali – a partire dalle analisi storiche, che fatalmente utilizzano nozioni come “Stato”, “esercito”, “classe”, “interessi”, e così via – implica una qualche modellistica e quindi anche un processo di astrazione, che allontana dai fatti così come essi sono. Ma una delle difficoltà maggiori di ogni ricerca consiste proprio nel tradurre le “generalità” utilizzate in strumenti utili a capire e interpretare i fenomeni effettivi.

Nel caso specifico, si tratta di capire quanto sia efficace alla comprensione della realtà un quadro teorico che esplicitamente utilizza un modello d’equilibrio di ascendenza walrasiana (quanto l’economia reale ovviamente non è mai in equilibrio) e che per di più fa riferimento a metodi di inferenza bayesiani, e cioè puramente probabilistici (che quindi prescindono dagli attori concreti, dalle loro decisioni effettive, dalle loro reali preferenze, ecc.).

Sviluppando modelli neo-keynesiani, i tre ricercatori di Bankitalia sono giunti comunque alla conclusione che una riduzione delle imposte sul lavoro avrebbe effetti positivi per l’economia. “Ovviamente” (almeno all’interno di certi paradigmi), per arrivare a tale conclusione essi devono in qualche modo mostrare che il taglio delle tasse – in altre parole, la trasformazione delle imposte in salario – non comporterebbe una riduzione dei consumi, ma invece un suo rilancio.

Ecco cosa riporta Il Sole 24 Ore a tale riguardo:


Nel lavoro dei tre studiosi vengono stimati gli effetti macroeconomici della politica fiscale nel breve-medio periodo. In questo senso la conclusione è chiarissima: «Riduzioni delle imposte sul lavoro e sul consumo pari all’1% del Pil inducono un’espansione del prodotto e dei consumi compresa tra lo 0,3% e lo 0,4%». Nell’insieme - aggiungono gli economisti di via Nazionale - «gli effetti espansivi sul prodotto di riduzioni delle aliquote fiscali risultano essere assai più persistenti rispetto a quelli di aumenti di spesa».

«La riduzione delle tasse sul lavoro - emerge ancora dallo studio - favorisce anche gli investimenti, mentre il calo delle imposte sul consumo induce un aumento dei consumi stessi a scapito dell’accumulazione del capitale». Per quanto riguarda la tassazione sui redditi da capitale, poi, «una sua riduzione favorisce l’investimento e il prodotto nel lungo periodo e riduce i consumi privati nel breve; in particolare, un calo delle relative imposte pari all’1% del Pil induce nel primo anno un aumento del prodotto dello 0,4%; tale aumento permane ancora dopo tre anni. Nell’insieme, gli effetti espansivi sul prodotto di riduzioni delle aliquote fiscali risultano essere assai più persistenti rispetto a quelli di aumenti di spesa».


Per quanti si collocano in una prospettiva "liberista", quello che gli operai faranno – nel 2008 – di un loro eventuale salario rafforzato non è egualmente importante: ridurre le imposte è necessario e utile anche qualora gli operai decidessero di mettere i loro euro sotto il materasso. Ridurre le tasse è importante perché la legittimità della tassazione (il trasferimento di risorse dai tax-payers ai tax-consumers) è quanto meno dubbia in re ipsa, e per giunta non ci è modo di sapere – data la soggettività delle preferenze – quale sia l’utilizzo migliore di quel denaro.

Ad ogni modo, è una davvero buona cosa che Forni, Monteforni e Sessa (con l’autorevolezza del loro ruolo di ricercatori della Banca centrale) sostengano la richiesta di meno tasse, e in tal modo rafforzino la posizione di quanti – i sindacati, in primis – chiedono un taglio delle imposte sui redditi da lavoro dipendente.

Quando sindacalisti ed economisti mainstream sono in prima linea – e quasi lasciati soli – in quella che dovrebbe essere la prima e più importante battaglia per salvare l’Italia dal baratro, la riduzione della pressione fiscale, viene proprio da riconoscere che le vie del Signore sono infinite.

domenica 6 gennaio 2008

Bilancio 2007 dei trasporti pubblici in monopolio: al confronto Alitalia è efficientissima

Nei grandi comparti del trasporto pubblico ancora chiusi alla concorrenza (e presidiati da aziende pubbliche soggette a gravi fenomeni di inefficienza-costo), le ferrovie e il trasporto pubblico locale (TPL), il 2007 non ha visto significativi passi in avanti sulla fronte della liberalizzazione.

E' certo positiva l'intenzione da parte del governo, o almeno di sue componenti importanti, di riprendere il cammino di riforma del mercato che era stato avviato per entrambi i settori proprio dal primo governo Prodi (il TPL con il primo provvedimento del 1996 e le FS con la Direttiva Prodi del febbraio 1997, prontamente affossata dalla rivolta sindacale che la seguì). La velocità implicita dei processi di riforma in corso, che si può desumere dalle difficoltà che incontrano in Parlamento le norme proposte per i due comparti, appare tuttavia insufficiente rispetto alla gravità dei problemi in essere: costi unitari eccessivi, insufficienza qualitativa dell'offerta, insoddisfazione degli utenti, caduta o stazionarietà dei livelli di domanda e declino delle quote di mercato, oneri esorbitanti per la finanza pubblica e per il cittadino-contribuente.

Il mantenimento di forme monopolistiche dei mercati, in congiunzione con la proprietà pubblica delle imprese, è con tutta evidenza la miglior garanzia per la conservazione e l'aggravamento di questi problemi. Per dare un'idea sintetica del loro ordine di grandezza è sufficiente un confronto dei costi unitari di produzione rispetto al settore aereo nel quale la liberalizzazione ha invece generato una consistente espansione della domanda, l'entrata di operatori innovativi e una forte riduzione dei costi. Ecco quanto costa offrire un posto a sedere per un km di percorso nelle diverse modalità di trasporto:

  • nel trasporto aereo (utilizzo le stime di Andrea Giuricin) 3,5 centesimi di euro se il vettore è Ryanair, 6 se Easyjet, 9 se Alitalia (ma Air France-KLM ha un costo unitario identico);
  • nel TPL italiano (trasporto pubblico locale urbano e interurbano), il quale non richiede evidentemente gli ingenti investimenti necessari per comperare gli aeromobili e trasporta le persone a 15/30 km orari anzichè 700, il costo è di ben 7 centesimi per posto km offerto, il doppio di Ryanair e appena inferiore ad Alitalia (nei paesi europei che prevedono forme di competizione per il mercato esso, invece, è in media inferiore ai 5 centesimi);
  • nel caso di FS, infine, il costo per posto km offerto è di 6 centesimi di euro, inferiore al TPL, ma anch'esso più elevato di almeno il 50% rispetto alle più efficienti imprese ferroviarie del nord Europa.

Questi costi unitari sono riferiti ai posti km offerti e non tengono conto se essi sono effettivamente venduti o viaggiano vuoti. Poichè tuttavia solo i posti venduti generano ricavi, è più opportuno calcolare i costi per passeggero km (imputando i costi di produzione ai soli posti km effettivamente occupati). In questo caso:

  • Ryanair e Easyjet, entrambe con un load factor superiore all'80%, registrano un costo per passeggero km rispettivamente di 4,3 e 7 centesimi di euro; Alitalia (con un load factor del 73,6%) opera con un costo unitario di 12,6 centesimi (che si confronta con un miglior dato di Air France-KLM: con un load factor all'81% esso è di 11 centesimi);
  • per il TPL, stimando ad eccesso un load factor del 35% (trainato verso l'alto dai passeggeri urbani che viaggiano in piedi) esso si attesta a 20 centesimi per passeggero km;
  • per le FS, che hanno registrato nel 2006 un load factor del 40% (55% nel trasporto a media-lunga distanza e 30% nel trasporto regionale), il costo per passeggero km è di 14,5 centesimi di euro.

Riepilogando: un passeggero che viaggia un km costa 20 centesimi di euro se utilizza il trasporto pubblico locale, 14,5 se utilizza FS, 12,6 se vola con Alitalia, 11 con Air France, 7 con Easyjet e 4,3 con Ryanair. Da questi dati possono essere tratti alcuni insegnamenti utili:

  1. il trasporto aereo è la modalità di trasporto più efficiente anche dal punto di vista dei costi di produzione (e non solo dei tempi di trasporto);
  2. nonostante tutti i suoi problemi, Alitalia è l'impresa pubblica italiana di trasporto più efficiente: trasporta i passeggeri al costo unitario più contenuto tra le diverse modalità ed è l'unica azienda che produce con costi prossimi alle sue consorelle europee;
  3. Alitalia si trova a dover essere venduta o fallire perchè le sue (non gravissime) inefficienze non possono essere fatte pagare nè al consumatore (in quanto protetto dal carattere concorrenziale del mercato) nè al contribuente (lo vieta l'Unione Europea);
  4. nei trasporti pubblici in monopolio (ferrovie e TPL), al contrario, l'inefficienza continua a ricadere sia sugli utenti che sui contribuenti; in questi settori, per farli ritornare competitivi e attraenti per i consumatori, sarebbe invece necessaria una cura low cost simile a quella che ha trasformato il trasporto aereo.

Anche se nulla vieta ad un monopolista pubblico di operare in maniera efficiente, dubitiamo tuttavia che una simile rivoluzione possa essere spontaneamente avviata dai sindaci proprietari delle aziende di TPL, dal Ministro del Tesoro azionista di FS o dai 'manager' politicofili che governano le aziende. Con tutto l'ottimismo possibile, ci sembrano molto distanti dalla figura di Mr. O'Leary. Per rimettere in carreggiata (o sui binari) questi settori è invece indispensabile: (a) liberalizzare rapidamente i mercati e creare l'effettiva possibilità di operatori in concorrenza; (b) privatizzare le aziende ricercando adeguate partnership industriali, anche straniere; (c) deministerializzare la regolazione affidandola ad un organismo indipendente, depoliticizzato e con competenze tecnico-economiche ineccepibili.
Se non si faranno tempestivamente tutte queste cose dovremo psicologicamente prepararci alle altre crisi simil Alitalia che ci toccheranno in futuro.

sabato 5 gennaio 2008

Paese che vai, poste che trovi

Rosamaria Bitetti e Ugo Arrigo hanno fatto il punto sulla non-liberalizzazione dei servizi postali in Italia. Possiamo consolarci constatando che non siamo i soli, a scrivere norme sulla base delle necessità del monopolista pubblico, in questo settore.
Su lavoce.info, Michele Burda ci racconta come il governo tedesco abbia introdotto un salario minimo, solo per gli impiegati delle poste. Perché?

... in Germania i lavoratori delle poste non se la cavano male nella catena alimentare. Il prossimo anno, però, il monopolio postale si ridurrà in modo significativo, permettendo alle imprese private di competere direttamente con Deutsche Post, che detto per inciso è una società quotata al Dax e ha 500mila dipendenti. I corrieri delle poste tedesche guadagnano tuttora uno stipendio da impiegati statali e dunque il loro posto di lavoro sarà senz’altro minacciato da lavoratori con salari più bassi dipendenti da imprese private come Pin o Tnt, che incidentalmente non sono dell’Est europeo. In altri termini, la Entsendegesetz serve da cavallo di Troia per l’introduzione di un salario minimo in Germania – e comporterà probabilmente la perdita di migliaia di posti di lavoro nel settore della distribuzione postale privata.

Grande coalizione, salario minimo.

giovedì 3 gennaio 2008

Niente più punture (obbligatorie) per i piccoli veneti

Un’iniziativa di grande civiltà è quella della regione Veneto, che, per la prima volta in Italia, garantisce ai suoi cittadini la libertà di scegliere per la propria salute, cancellando dal gennaio 2008 l’obbligo di vaccinazione, tuttora vigente, per quattro malattie: difterite, tetano, polio ed epatite B.
È infatti eticamente inammissibile che lo Stato possa intromettersi violentemente nella vita privata e decider di questioni così delicate. Le suddette vaccinazioni, e soprattutto la polio, comportano infatti alcuni gravi rischi, per quanto residuali, ed è diritto dell’individuo poter decidere da sé se affrontarli. In Italia, gli obiettori del vaccino sono circa l’1-2% della popolazione, coordinati in Vaccinetwork, un’associazione che si batte per la libertà di scelta, e che plaude alla scelta della Regione, che mette fine a «discriminazioni e penalizzazioni di cittadini che fanno scelte autonome». Scelte autonome le cui conseguenze ricadono solo sull’interessato, in quanto chiunque voglia proteggersi dalle “esternalità” di tali scelte può, semplicemente, vaccinarsi.
Per quanto desiderabili per la collettività, le vaccinazioni possono, al massimo essere consigliate: l’attuale sistema italiano, di tipo coercitivo, è in linea con un’idea dello stato paternalista ed autoritario. La soluzione veneta è, invece, autenticamente liberale.

Caro amico, ma se non ti scrivo ... come fanno le Poste a guadagnare così tanto?

Questa è la domanda che si pongono tutti i lettori dell'intervista odierna dell'AD di Poste Italiane al Financial Times: come è possibile che l'azienda italiana abbia un EBIT in percentuale dei ricavi al 16% contro il 13% dell' olandese TNT e appena il 5% della tedesca DPWN (ex Deutsche Bundespost) se gli italiani non scrivono e non ricevono corrispondenze (solo 100 pezzi all'anno pro capite, poco più di un terzo della media europea), mentre le altre due aziende sono colossi mondiali del recapito, della logistica e dell'express?
La risposta è desumibile esaminando la composizione dei ricavi nell'ultimo bilancio aziendale: nel 2006 i 17,1 miliardi di ricavi complessivi del gruppo Poste Italiane sono pervenuti per 7 miliardi dai servizi assicurativi e per 4,4 miliardi dai servizi di bancoposta, solo per 5,4 miliardi dai tradizionali servizi di recapito postale. Poste Italiane è per oltre due terzi dei ricavi azienda di servizi bancari/assicurativi e per meno di un terzo azienda di recapito, caso assolutamente unico nel panorama europeo. Il processo di risanamento economico-finanziario (per un esame più dettagliato rimando a IBL Focus 68) è consistito nel trasformare un’inefficiente azienda postale che non sapeva recapitare la posta in una bancassicurazione che accetta, al margine, di recapitare anche la posta. Ma in questo modo la core mission dell'azienda è stata messa da parte.
Ovviamento non vi sarebbe nulla di male se fossimo in un contesto di libero mercato: se Alitalia valute le sue rotte intercontinentali da Malpensa deficitarie non si vede perchè si dovrebbe trattenerla, se Poste ritiene economicamente penalizzante l'attività del recapito non si vede perchè dovrebbe essere impedita dal perseguire la sua nuova vocazione finanziaria. A condizione tuttavia che vi sia libertà di accesso al mercato postale e che gli operatori che desiderano operarvi possano davvero farlo.
Tutto questo non è invece possibile (nel 1999, recependo la direttiva comunitaria che avviava la liberalizzazione del mercato, in Italia .... è stato ampliato il monopolio in favore dell'azienda pubblica): oggi Poste Italiane è monopolista di diritto in meno di metà del mercato postale e monopolista di fatto nella rimanente parte (IBL BP 42). Infatti: (a) il recapito di giornali e riviste è liberalizzato ma gli editori godono tuttora (per legge) di forti sconti solo se si avvalgono dell'azienda pubblica (IBL OP 47); (b) gli operatori postali privati che sino al 1999 erano titolari di concessione realizzano la maggior parte dei ricavi da contratti con Poste Italiane ed è pertanto dubbio, come messo in evidenza dall'antitrust, che siano lasciati liberi di comportarsi da competitors nella rimanente attività.
E' un vero peccato che l'adesione dell'Italia all'U.E. ci abbia obbligati a liberalizzare il trasporto aereo: con un monopolio di Alitalia sui cieli italiani e un regolatore ministeriale compiacente che avesse abolito la classe economy in favore della business (equivalente aereo del nostro francobollo prioritario 'unificato') oggi l'ing. Prato avrebbe potuto dare una brillante intervista al Financial Times sulla redditività di Alitalia e, chissà, forse domani trattare con Sarkozy ... l'acquisto di Air France.

Caro amico ti scrivo…

L’anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va... Il 2007 è stato un anno turbolento per i servizi postali, fanalino di coda nel nostro Indice delle Liberalizzazioni. La Commissione europea ha accettato la gli emendamenti del parlamento ed ha deciso di spostare, ancora una volta!, l’ultima tappa del processo di liberalizzazione, ovvero l’abolizione delle riserve legali concesse ai prestatori del servizio universale. È appena il caso di ricordare che la completa liberalizzazione era originariamente prevista nel 2006, è stata poi spostata al 2009, ed ora al 2011 con possibilità, per alcuni paesi membri, di rimandarla al 2013. Il che è un male in sé, perché si procrastinano gli effetti positivi della concorrenza, ma è anche male perché quest’incertezza normativa rende difficile per gli operatori del settore pianificare la loro attività. Un esempio lampante di ciò è avvenuto proprio da noi, sono scaduti i contratti fra Poste Italiane e le agenzie di recapito concorrenti (ma di questa concessionarie) stipulati in via temporanea fino al 2006, anno in cui il mercato si sarebbe aperto alla vera concorrenza: il 2007 ha visto una lotta per la definizione dei nuovi contratti, in cui è intervenuto l’antitrust, riconoscendo i comportamenti abusivi di un operatore, Poste, la cui posizione dominante è sancita ex lege. Ancora, l’antitrust ha segnalato al governo l’effetto discorsivo dell’annuale compensazione per le tariffe postali scontate applicate alle spedizioni di prodotti editoriali ritenuti meritori.

Insomma, ancora numerosi i problemi del settore postale: per il 2008, non possiamo che augurarci che le scelte del regolatore siano più orientate verso un’autentica liberalizzazione che alla tutela dell’azienda pubblica, di modo di arrivare pronti al 2011, o, persino di giocare, per una volta, d’anticipo rispetto agli altri paesi europei

Tassiamo gli spilungoni!

Greg Mankiw offre una lettura altamente consigliata a Tommaso Padoa Schioppa e Vincenzo Visco. Secondo la teoria utilitaristica della tassazione ottimale, spiegano Mankiw e Matthew Weinzierl, sarebbe efficiente tassare gli alti più dei bassi, e colmare col sistema tributario il gap scavato da Madre Natura. La conclusione vi crea qualche problema? Forse, allora, è la teoria a non essere così solida... In caso contrario, si rassegnino Visco e TPS: a Berlusconi spetta un sostanzioso credito d'imposta!

mercoledì 2 gennaio 2008

TLC / Un bilancio del 2007 ed il 2008 che verrà

Si è chiuso un anno forse deludente per chi s'attendeva rivoluzioni nel campo TLC, magari con la ciliegina della separazione della rete. Per parte nostra, avevamo segnalato già nel 2006 - all'epoca del piano Rovati, per intenderci - quale fosse la via da percorrere.

Dopo quindici mesi in cui la soluzione all'inglese è stata al più agitata come una clava per distogliere lo straniero dalle sue mire espansionistiche, siamo ancora al punto di partenza. Ma con una novità rilevante: un procedimento finalmente in moto all'AGCOM, che dovrebbe portare - visto anche l'atteggiamento prima facie collaborativo dei nuovi vertici Telecom - ad una soluzione condivisa, da cui tutte le parti otterrebbero considerevoli vantaggi.

A dire il vero, non si tratta dell'unico botto che il settore delle TLC ci ha riservato nell'ultimo tratto del 2007: lo sviluppo dell'IPTv, su cui scommettono forte Wind e Tiscali, aggiungendo le proprie offerte a quelle consolidate di Alice e Fastweb; l'integrazione tra VoIp e telefonia mobile sperimentato da Tre; l'ingresso sul mercato di numerosi operatori mobili virtuali (MVNO); la grande attesa per l'asta WiMax, che dopo le manifestazioni d'interesse di dicembre entrerà nel vivo nelle prossime settimane.

Ci affacciamo, così, al 2008 con la consapevolezza che il vecchio telefono fisso (a differenza del posto fisso) potrebbe non essere più in cima alle preferenze degli italiani: a dimostrazione del fatto che l'innovazione corre sempre più velocemente dei regolatori. Senza rendere necessariamente superfluo il loro operato. E senza dimenticare che a quest'ultimi basta una svista per riportare indietro l'orologio.

I nostri desiderata li stiamo esponendo per tempo: chissà che nel 2008 Babbo Natale non ci lasci sotto l'albero un mercato TLC davvero più libero. Auguri!

PS A più breve scadenza, ci permettiamo di suggerire alla Befana di dare ascolto ad Enzo Savarese, e metter mano all'abolizione della tassa di concessione sui telefonini in abbonamento. Sarebbe un bel modo per cominciare l'anno nuovo, non vi pare?

Il sorpasso spagnolo è avvenuto

Il premier Prodi, tramite una lettera inviata all’agenzia Ansa, ha affermato che la Spagna non ha superato l’Italia in termini di Prodotto Interno Lordo pro capite; questa affermazione è sicuramente vera, non deve stupire.
Un’altra frase veritiera e molto positiva del Premier è quella in cui si afferma che la crescita economica della Spagna è stata di beneficio per tutta l’Europa e l’Italia; gli interscambi commerciali e i flussi di investimento esteri che riguardano le due economie hanno infatti un ruolo importante e l’aumento del PIL spagnolo “traina” in parte le altre economie europee.

Ma perché allora nei giorni scorsi la notizia del sorpasso spagnolo è stata messa in risalto da
liberalizzazioni.it e altri organi di stampa?

Leggendo bene
l’articolo del 18 Dicembre su questo sito, è ben chiaro che il sorpasso spagnolo è avvenuto solamente per quanto riguarda il prodotto interno lordo pro capite a parità di potere di acquisto; non viene mai affermato che il prodotto interno lordo pro capite italiano nel 2006 sia inferiore a quello spagnolo.
Questi dati sono di fonte Eurostat, l’Istituto di Statistica Europeo, indipendente e totalmente slegato dalla politica; è un’istituzione scientifica che ha l’obiettivo di raccogliere i dati e le informazioni dagli Uffici di Statistica Nazionali dei diversi Stati dell’Unione Europea e rielaborarle in modo da poter fare dei confronti a livello europeo.

Il premier italiano fa attenzione a non smentire mai la comunicazione Eurostat di sorpasso del PIL pro capite a parità di potere d’acquisto, bensì afferma che la metodologia d’analisi utilizzata è aleatoria.
Preferisce utilizzare il metodo di parità di potere d’acquisto utilizzato dal Fondo Monetario Internazionale, che a suo parere è più affidabile.
Questa preferenza dovrebbe essere tuttavia sostenuta da spiegazioni motivate. In effetti, la metodologia utilizzata dal FMI è meno affidabile di quella Eurostat per due semplici motivi:

  • Il paniere dei prodotti presi per calcolare il livello di prezzi è più completo e omogeneo a livello Eurostat rispetto al Fondo.
  • Eurostat prende in esame un minor numero di Paesi e la comparazione compiuta dall’Istituto tra Italia e Spagna non deve tenere conto di effetti di cambio (l’Euro è la moneta comune).

La metodologia, come già ricordato, non è perfetta, ma è sicuramente una delle migliori possibili.
Il sorpasso spagnolo a livello di prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto vi è dunque stato secondo le statistiche fornite dall’Unione Europea.

La crescita economica nel 2007 nel paese iberico è inoltre stimata al 3,7 per cento, circa 2 punti percentuali in più rispetto all’Italia; questo gap di crescita a favore della Spagna è presente da circa 20 anni, ma è venuto accentuandosi nell’ultimo decennio.
Il prodotto interno lordo spagnolo pro capite è cresciuto in media del 3,3 per cento negli ultimi dodici anni, un tasso molto superiore a quello italiano.

Nel breve – medio periodo, la Spagna ci supererà anche per quanto riguarda il prodotto interno lordo pro capite, mentre nel medio – lungo periodo ci supererà per il prodotto interno lordo; la motivazione di questo doppio sorpasso deriva dal fatto che l’Italia sconta di un doppio problema: una debole crescita economica, e un incremento della popolazione molto inferiore a quella spagnola.

Le liberalizzazioni hanno il pregio di essere in grado di risolvere in gran parte il problema legato alla crescita economica.