domenica 30 settembre 2007

Il liberismo sta a destra o a sinistra?

Anch'io do il mio piccolo contributo al dibattito innescato dal libro di Alesina e Giavazzi, su cui è già intervenuto su questo blog Alberto Mingardi. L'argomento che ritengo utile sollevare è che, di per sè, il liberismo non è nè di destra nè di sinistra. E' di chi ne abbraccia i principi. La destra, quando è stata al governo, se ne è ben guardata, così come se ne guarda la sinistra prodiana. Del resto, le classifiche della libertà economica della Heritage Foundation fotografano impietosamente questo stanco galleggiare senza avere il coraggio o la capacità di fare riforme. Per questo, la provocazione dei due economisti è un utile sasso nello stagno. Certo, il libro non è perfetto e forse un po' di cura editoriale in più non avrebbe guastato. Ma il dibattito è utile e aiuta a rimettere il liberismo al centro della scena.

mercoledì 26 settembre 2007

Concorrenza nei cieli e su rotaia

L’articolo di Franco Debenedetti su Vanity Fair e quello di Andrea Boitani e Marco Ponti sul Sole 24 Ore di ieri, illustrano benissimo la situazione odierna del trasporto aereo e di quello ferroviario in Italia.

I due settori hanno il grave difetto dell’interesse politico in aziende operanti su di un mercato: Alitalia e Trenitalia non sono due esempi di gestione aziendale di successo.

Il trasporto ferroviario non conosce una vera concorrenza, nonostante la liberalizzazione del trasporto merci imposta dall’Unione Europea. In Italia la liberalizzazione tarda a mostrare i suoi benefici effetti, in quanto l’operatore dominante, come mostra bene oggi Bruno Dardani su Libero Mercato, ha una posizione alquanto strana. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha aperto un’istruttoria che potrebbe cominciare a dare il primo debole segnale di concorrenza alle aziende che operano nel settore.
Un’altra notizia importante per il settore è l’approvazione del terzo pacchetto ferroviario da parte del Parlamento Europeo che dovrebbe aprire alla concorrenza dal 1° Gennaio 2010 il mercato del trasporto passeggeri.

Il settore del trasporto aereo, ha conosciuto una buona liberalizzazione (Vd. IBL - Indice delle Liberalizzazioni 2007) grazie alle direttive comunitarie ad inizio anni ’90. La crescita del trasporto aereo è stato un successo dovuto all’apertura dei mercati europei. Sono potute svilupparsi nuove compagnie con un business completamente diverso dai vettori tradizionali: le low cost. Queste non solo hanno dato impulso a molte compagnie tradizionali ad incrementare l’efficienza, ma hanno saputo raggiungere una parte di domanda di trasporto aereo prima non soddisfatta a causa dei prezzi eccessivi.
La riforma del trasporto aereo dello scorso Dicembre 2006 mette a rischio il successo della liberalizzazione ed in pratica limiterebbe la concorrenza dei vettori low cost in Italia (Vd. IBL - Briefing Paper N°43).

I due settori sono in condizioni concorrenziali completamente diverse, ma hanno anche dei punti in comune.
Il trasporto aereo conosce una concorrenza molto elevata, mentre il trasporto ferroviario ha la posizione dominante di Trenitalia.
Alitalia e Trenitalia sono sostanzialmente controllate direttamente dal governo in quanto azionista tramite i Ministeri, ed entrambe hanno evidenziato bilanci con delle perdite elevatissime nel 2006 e negli anni precedenti.
Alitalia perde quote di mercato, mentre Trenitalia ha una quota di mercato stabile, ma il trasporto aereo cresce grazie alle low cost e agli altri vettori tradizionali, il trasporto ferroviario passeggeri e merci è stagnante da molti anni.

La liberalizzazione del settore ferroviario creerà un nuovo caso Alitalia nel settore ferroviario?
Bisogna agire per tempo, 3 anni non sono pochi, ma non sono nemmeno molti…

Un breve focus che approfondirà meglio le problematiche dei due settori sarà pubblicato nei prossimi giorni sul sito dell’Istituto Bruno Leoni. http://www.brunoleoni.it/.

martedì 25 settembre 2007

Malpensa: può esserci una soluzione di mercato?

Franco Debenedetti ha scritto un articolo molto saggio, su "Vanity Fair", sulla questione-Malpensa. In questi giorni, se ne sentono di tutti i colori. Qualcuno arriva ad ipotizzare addirittura la nascita di una "Alitalia del Nord". Posto che già l'espressione non è delle più felici, immaginare la comparsa di una nuova compagnia aerea solamente per riempire degli slot lasciati liberi da Alitalia pare abbastanza surreale. Ad ogni buon conto, la politica che improvvisamente scopre i problemi del trasporto aereo dovrebbe rispondere ai due interrogativi di Debenedetti:
In quindici anni, quanti tra i sindaci di Milano e gli altri azionisti, tutti pubblici, della SEA, si sono sbracciati per esigere che anche per Alitalia valessero le leggi di mercato, e che si smettesse di aiutarla, e che se falliva non avrebbero certo pianto? E, dato che questo è un mercato per modo di dire, non avrebbero fatto meglio a usare il loro potere politico per chiedere che Alitalia non bloccasse il mercato mantenendo il diritto di esclusiva sugli slot che non usa?

La prima regola di mercato è attirare i clienti e soddisfarli. Non si pensava a soddisfarli “deportandone” una parte da Linate a Malpensa. Avere un aeroporto a 20 minuti di taxi dal centro è un vantaggio competitivo per i milanesi: perché levarglielo? E poi, in 20 minuti si possono percorrere i 50 km per Malpensa: se non ci sono i soldi per costruire la tratta ad alta velocità, ci si può accordare con i sindaci di Saronno e Busto Arsizio perché il treno non si fermi nelle loro ridenti cittadine; e si può risparmiare sul tempo di attesa facendo partire un treno ogni 10 minuti. In quindici anni il tempo c’era. Taccio del raccordo autostradale con Novara.

Adesso Ryanair propone di investire 1 miliardo di $: non per voli intercontinentali, per i quali è ancora da vedere se funzioni il modello di business delle low cost. Ma se i piani sono seri e i soldi sono veri, i clienti sempre mercato sono. Ryanair chiede gli slot, ma esige anche un paio di altre cosette. I voli low cost richiedono che non passino più di 25 minuti tra arrivo e partenza dell’aereo (oggi un’ora e mezza), che i bagagli siano sul nastro in pochi minuti, tutti e integri: non esattamente il tipo di servizio offerto attualmente dal personale da Malpensa. Che ci sia anche questo tra i suoi peccati capitali?

domenica 23 settembre 2007

Trenitalia, RFI e FS: tre soggetti, un unico proprietario

L’Istituto Bruno Leoni, nell’Indice delle Liberalizzazioni 2007 aveva avvertito che il settore del trasporto ferroviario constava di scarsa concorrenza (Indice delle Liberalizzazioni 2007).
Il 22 Settembre l’Autorità Garante del Mercato e della Concorrenza (AGCM) ha aperto un’istruttoria conoscitiva sul trasporto ferroviario merci.

Il trasporto ferroviario merci, come quello passeggeri, vede una posizione dominante da parte dell’operatore Trenitalia. Tuttavia, mentre nel trasporto passeggeri, la normativa europea non impone la liberalizzazione del settore, il trasporto merci è stato aperto alla concorrenza il 1° Gennaio 2007.

La posizione dominante non implica un abuso di tale posizione. Trenitalia potrebbe benissimo essere leader del mercato e al contempo non porre nessuna barriera all’ingresso ai nuovi operatori sul mercato. L’indice di Herfindahl che il Bruno Leoni aveva calcolato, evidenziava bene la concentrazione nel mercato del settore merci in Italia e di conseguenza la posizione dominante di Trenitalia.
La debolezza del sistema ferroviario italiano, che non è il meno liberalizzato in Europa, è la separazione solo teorica tra il gestore della rete e il principale operatore di trasporto. Trenitalia e Rete Ferroviaria Italiana sono parte dello stesso gruppo con a capo Ferrovie dello Stato Holding.
Questa mancata effettiva separazione deriva dal decreto ministeriale 138 del 2000 che di fatto tende a lasciare la porta chiusa all’entrata della concorrenza nel mercato ferroviario.

L’istruttoria aperta dall’AGCM non scardina questa porta, ma comincia lentamente a dare i primi segnali di cambiamento.
In realtà l’istruttoria riguarda solo una piccola parte del problema principale appena illustrato: gli sconti K2 non applicati agli operatori diversi da Trenitalia da parte del gestore della rete RFI. Questa strategia sarebbe stata portata avanti dall’operatore dominante tramite RFI per ostacolare la concorrenza degli altri players.
Gli sconti sono piccole cifre se comparati al business delle compagnie ferroviarie, ma l’AGCM, con questo passo, sembra prendere di mira la mancata ed effettiva separazione tra la rete ferroviaria e Trenitalia.

Una maggiore concorrenza sul mercato ferroviario sarebbe molto importante, in quanto il settore ferroviario italiano conosce una stagnazione quasi trentennale sia del trasporto merci che di quello passeggeri.

L’istruttoria potrebbe essere il primo segnale di cambiamento: forse la concorrenza sta per portare i suoi effetti benefici anche nel trasporto ferroviario, dopo averli portati al settore del trasporto aereo.

martedì 18 settembre 2007

Alitalia, Sea e la politica.

Il Corriere della Sera riporta l’ennesima intrusione di campo di un politico nella partita Alitalia. Questa volta è il ministro Rutelli che afferma che la compagnia di bandiera italiana non deve finire sotto il “dominio di compagnie straniere", ma sarebbe opportuno un salvataggio da parte degli industriali italiani. L’altra soluzione proposta dal Ministro è la fusione con AirOne.
Settimana scorsa erano stati il governatore della Lombardia e il sindaco di Milano, preoccupati dall’abbandono di Malpensa da parte di Alitalia, che erano scesi in campo.

Quale ruolo per il mercato?
Alitalia e la Sea dovrebbero essere compagnie che agiscono sul mercato. In particolare Alitalia che opera in un settore molto concorrenziale dovrebbe seguire le regole imposte dal mercato per potersi salvare.
Il piano dell’amministratore delegato di Alitalia Prato ha scelto una direzione: per salvare la compagnia, oltre ad attuare altre azioni, è necessario eliminare il doppio hub. Questa decisione era essenziale (Vd. IBL Focus N°69).
Link: http://brunoleoni.servingfreedom.net/Focus/IBL_Focus_69_Giuricin.pdf .
La risposta alla domanda se sia giusto puntare su Fiumicino piuttosto che su Malpensa solo il mercato sarà in grado di darla. Se l’amministratore non ha seguito solo una logica di mercato, ma si è lasciato influenzare dai politici, probabilmente Alitalia andrà incontro al fallimento.
La Sea gestisce gli aeroporti di Milano e dovrebbe cercare sul mercato altri operatori che si sostituiscono ad Alitalia. L’offerta di Ryanair, compagnia straniera, non può lasciare indifferente i vertici della società. Altre offerte probabilmente arriveranno nelle prossime settimane da parte di altre compagnie, poiché Milano è un bacino aeroportuale molto interessante.
Malpensa è uno dei pochi grandi aeroporti europei che non conosce la saturazione (Vd.London - Heathrow) e ha una grande potenzialità di crescita. Tutto il mercato italiano del settore aereo ha dei grandi potenzialità di crescita, in quanto l’Italia è fanalino di coda dell’Unione Europea per numero di viaggi aerei per abitante.

Quale ruolo per i politici?
La situazione bizzarra è la compagine azionaria di Alitalia e Sea. Entrambe sono in mano a politici, ma mentre la compagnia di bandiera perde 600 milioni di Euro l’anno a causa della concorrenza introdotta dall’Unione Europea nel mercato aereo, il gestore aeroportuale milanese produce milioni di utili, giovandosi della situazione di monopolio naturale in cui si trova.
I politici dovrebbero lasciare al mercato lo sviluppo delle società e dovrebbero dare indipendenza d’azione agli amministratori delegati delle società.

In sintesi, in Italia, nel settore del trasporto aereo, è necessario che il ruolo della politica sia ridimensionato e che il mercato sia lasciato libero da altri eventuali impedimenti (Vd.IBL Briefing Paper N°43)

Caso Microsoft: concorrenza o potere

La bocciatura del ricorso di Microsoft al Tribunale di prima istanza significa molte cose. Per gli azionisti di Microsoft, significa dover drenare risorse dagli investimenti, per collocarle sotto la voce "guai con la giustizia". Per le imprese innovative ed i consumatori, significa quello che ha ricordato Massimiliano Trovato. Per i competitori che non riescono a vincere sul mercato, vuol dire - come ha ben spiegato sul Wall Street Journal Ronald Cass - avere ormai la certezza che per battere i più bravi, in Europa, è meglio spendere in avvocati che in ricerca e sviluppo. Per i lettori italiani, vuol dire prepararsi a leggere una valanga di interviste a Mario Monti - uomo non privo di un certo talento per l'autocelebrazione.
Il primo ad intervistarlo è il Corriere della sera, direi giustamente, visto che il quotidiano di Via Solferino ha fatto in questi anni su Monti un investimento importante: sia come commentatore che come riserva della Repubblica, visto che credo lo abbiano candidato a tutto, eccezion fatta (forse) per la presidenza dell'associazione Marinai d'Italia di Sesto San Giovanni.
Interrogato da Dario Di Vico, Monti ritorna su cose che ha già detto in passato e chiarisce i termini della questione. Il primo punto, fondamentale, è quello riassunto dal titolo ("L'Europa è un potere forte"). Dice Monti:
Dimostrando di saper agire anche nei confronti delle grandi aziende del Paese più potente si dimostra che la politica della concorrenza non è un'ideologia che punta a sacrificare i bastioni dell'impresa europea, ma tutela i consumatori europei a 360 gradi. L'Europa è un grande mercato del quale nessun colosso al mondo può fare a meno. La Ge o la Microsoft sono costrette a fare i conti con la Commissione perché non possono permettersi di non essere presenti sul mercato europeo. E ciò dimostra che anche questa è la vera forza dell'Europa unita e non solo il valore delle sue imprese produttive.
In un'intervista in cui l'ex Commissario avrebbe dovuto spiegare come l'Antitrust Ue "non punisce le aziende" ma "restituisce lo scettro ai consumatori", è un'ammissione paradossale. Ma che risplende in tutta la sua chiarezza nello scambio successivo, con Di Vico.
E Nicolas Sarkozy che l'ha voluta nella suo board di consulenti cosa penserà di questa sentenza?
Se fossi un francese sarei orgoglioso di un'Europa che sa farsi rispettare Oltreatlantico.
Riepiloghiamo il senso delle due risposte estrapolate dall'intervista: (1) la "forza dell'Europa" più che nell'insieme "delle sue imprese produttive" sta nel lobbismo regolatorio della Commissione (grandi multinazionali Usa "sono costrette a fare i conti con la Commissione perché non possono permettersi di non essere presenti sul mercato europeo"). Il che, fra parentesi, ci spiace per il Professor Monti, ma equivale ad ammettere che la Commissione interpreta l'antitrust come un surrogato della politica industriale (cosa che Monti stesso, poche righe prima, si affaticava a smentire, salvo smentirsi elegantemente da solo); (2) un Commissario che sa "farsi rispettare Oltreatlantico", in un continente caratterizzato da protezionismo ed antiamericanismo, sta accumulando capitale politico. Mal che vada, l'età della pensione è allietata dalle allegre sessioni della Commissione Attali.
Ricapitolando: l'Europa è un potere forte, ma sfortunatamente privo di cannoni. La tutela della concorrenza può fare le veci della politica estera - basta colpire opportunamente aziende che battono bandiera nemica.
Il resto dell'intervista è propaganda nemmeno troppo argomentata. Solo un'ultima considerazione. Sul bundling, Monti dice che è "vero che quando si acquista un auto si trovano già dentro radio e accendino ma non c'è nessun costruttore di auto che abbia il 96% del mercato", e giustifica la sanzione del bundling in nome del disincentivo ad entrare in un mercato che la sola esistenza di posizioni dominanti produrrebbe. Nel sottotitolo dell'intervista, si legge che "la regolazione dei mercati serve a dare lo scettro ai consumatori".
Ecco, il fatto che un ex Commissario europeo non sappia o non si sia reso conto che quella situazione dominante, quel 96%, è precisamente il risultato non dell'arbitrio dei regolatori ma delle libere scelte quotidiane dei consumatori, mi sembra grave.

lunedì 17 settembre 2007

Fool Monti Kills Bill Reloaded

Il giorno del giudizio per Microsoft è dunque arrivato. Ed è un giudizio tutt’altro che benevolo. Il Tribunale di Primo Grado dell’Unione Europea, esprimendosi sulla decisione del 2004 con cui la Commissione sanzionava il colosso di Redmond per abuso di posizione dominante, ha avallato pressoché integralmente le misure prese dall’allora commissario Mario Monti. In particolare, il giudice d’appello ha confermato la scenografica multa di 497 milioni di euro, ma – quel che è più grave – non ha sentito l’esigenza di portare alcuna innovazione ai due motivi al cuore del provvedimento del 2004.

In primo luogo, viene mantenuto l’obbligo di licenziare ai concorrenti le porzioni del codice sorgente di Windows che governano i protocolli di comunicazione – così da rimuovere gli ostacoli alla completa interoperabilità tra il sistema operativo ed il software dei concorrenti. La contraddizione con il ruolo riservato alla tutela della proprietà intellettuale in numerosi documenti UE è del tutto evidente. Ma v’è qualcosa di più: non si tratta tanto d’affermare la paternità di qualcosa che già noto, opzione la cui legittimità è invero ampiamente dibattuta, ma semplicemente di rispettare la libertà degli individui – e per estensione delle imprese – di tenere alcune informazioni per sé. Come è stato detto, parliamo della libertà dello chef di preservare i segreti delle proprie creazioni. Insomma, è questa una misura che ha più del rapimento di persona che non della vigilanza sulla concorrenza.

In secondo luogo, inoltre, la software-house dovrà continuare a distribuire copie di Windows sguarnite del lettore multimediale di famiglia, in modo tale da non intralciare l’emersione d’una concorrenza apprezzabile nel settore. Peccato che un espediente del genere contrasti, ancora una volta, con i fondamenti della teoria economica ed in particolare con un’adeguata comprensione della funzione imprenditoriale: che è proprio quella d’innovare, dando voce e venendo incontro ai desideri dei consumatori ed alle loro esigenze, ad esempio attraverso l’ideazione di nuovi prodotti o l’integrazione di nuove funzioni in quelli già esistenti.

Ciò non bastasse, si comparino le statistiche di vendita del Windows evirato ed il gradimento – per dire – di un programma come iTunes, irrinunciabile complemento del fenomeno iPod, o di un software versatile come Flash, che risiede alle fondamenta del frequentatissimo Youtube e dei suoi svariati emuli. Alla luce di tale confronto, si può affermare che il provvedimento sia stato inutile. Ma questa è solo la migliore delle ipotesi, perché tale giudizio trascura le implicazioni sul piano degl’incentivi all’innovazione. È poi utile osservare come la presa di posizione della Commissione tradisca la sempre più evidente trasfigurazione del diritto della concorrenza da strumento di tutela per i consumatori a ciambella di salvataggio per le imprese sconfitte.

Insomma, quella appena scritta a Bruxelles non è una bella pagina per l’Europa, che avrebbe bisogno di un’iniezione di liberismo e non della consueta dose di dirigismo in salsa brussellese: come ha ricordato Alberto Mingardi, “non si diventa l’economia basata sulla conoscenza più dinamica al mondo, come affermano gli obiettivi di Lisbona, se diritto e politica ignorano mercati e innovazione”.

* Il titolo del post è un plagio di questo paper di Roberto Pardolesi ed Andrea Renda. Hat tip: Rosamaria Bitetti.

venerdì 14 settembre 2007

Microsoft: il punibile e l'intoccabile

Tra pochi giorni, come prontamente ricordato da Massimiliano Trovato, la vicenda Microsoft approderà ad una conclusione. Si vocifera che in virtù della sentenza, il colosso sarà obbligato a difforndere parte dei suoi codici da un lato e libero di agire sul versante del bundling dall'altro. Disastro. Nel male si realizzerà il peggio.

Se c'è una cosa, che almeno dal punto di vista teorico, poteva trovare sostegno e dunque essere considerata come punibile, questa era il bundling. Se infatti il mercato, come ripetuto più volte, ha dimostrato di aver minimizzato i potenziali effetti negativi della vendita a prezzo zero del lettore multimediale in combinata con il sistema operativo; è comunque vero che il bundling - di per sé - può provocare effetti negativi (di carattere dinamico) al percorso evolutivo dei mercati e della pressione competitiva. Dunque, sempre spaziando nel mondo ipotetico dei ceteris paribus e della concorrenza potenziale, se qualche cosa di punibile in tutta la vicenda ci fosse anche stata, questa sarebbe stata il bundling.

Ciò che invece non andrebbe mai toccato o minacciato è la proprietà intellettuale. Questo sarebbe un colpo maldestro dalle conseguenze irreparabili. Obbligare Microsoft a diffondere i codici equivarrebbe a praticare un foro al serbatoio del capitalismo. Ed intralciare il passo al capitalismo, non mi sembra sia tra le priorità delle Istituzioni Europee preposte alla tutela della concorrenza.

giovedì 13 settembre 2007

Regolamentare le parole pericolose?

Il Commissario europeo Franco Frattini ha fatto notizia, per la sua proposta di "regolamentare" le ricerche su Internet aventi come oggetto parole pericolose: da "bomba" a "genocidio". Frattini ha estratto l'idea dal cilindro, in un momento nel quale c'era mercato, in termini di consenso, per politiche che almeno apparissero mirate a combattere il terrorismo. L'ha fatto a pochi giorni dall'undici settembre, anniversario doloroso per tutti.
Frattini ha parlato di "un esercizio di esplorazione col settore privato", più l'apertura di un dialogo quindi che un provvedimento top down. Il che lascia immaginare che abbia capito la natura di Internet meglio di altri colleghi. Il fatto che pensasse di agire sui motori di ricerca per "frenare" le keywords pericolose, pure. Limitare la piattaforma su cui l'informazione gira, "costa meno" che censurare le fonti che producono notizie.
E' un bene però che Google abbia opposto un rifiuto netto. Per ragioni legate alla libertà di parola: quando si compila un indice delle keywords proibite, è inevitabile che il numero delle keywords che vi sono inserite tenda a lievitare. Si comincia con "bomba" e si finisce chissà dove. Il fatto che la "regolazione" del vocabolario sia affidata alla politica è garanzia di arbitrarietà: e di incertezza, perché non è detto che i diversi Commissari, di diverse tendenze, che si succedono nel tempo, abbiano tutti la stessa visione del "pericolo".
Inoltre, se intervenire sulla piattaforma è "economico", stabilisce anche un principio pericoloso: quello per cui l'infrastruttura è responsabile della condotta degli automobilisti che la utilizzano. Google non produce contenuti: permette ricerche, ospita questo blog come milioni di altri, filmati su YouTube e GoogleVideo, libri o pezzi di libri su GooglePrint. Il mestiere di chi gestisce Google è un po' come quello di chi pota le aiuole a Hyde Park, per banalizzare.
Se vi sono pagine web che configurano ipotesi di reato, deve essere la forza pubblica a controllare e, dopo appropriati controlli, ad agire. Trasformare i motori di ricerca in sceriffi può limitare - potenzialmente - la libertà di tutti, depotenziandoli come luoghi d'incontro di domanda ed offerta di sapere, per farne il surrogato tecnologico di un "filtro" alla libera circolazione delle idee.
L'idea piace ai governi, ma non dovrebbe piacere né a chi crede nelle libertà civili, né a chi crede nelle libertà economiche. Dopotutto, il bello della rete è anche l'insorgenza di modelli di business mai visti prima, che stanno dispiegando ora tutte le loro potenzialità. Inserendoli nell'equazione della sicurezza, è dubbio che si avrebbero grandi benefici per quest'ultima, ma senz'altro se ne strozzerebbe la crescita.

domenica 9 settembre 2007

Il liberismo è di destra o di sinistra?

Il nuovo libro di Francesco Giavazzi ed Alberto Alesina, Il liberismo è di sinistra, non piace granché ai liberisti di destra. Per tutti, si veda quanto scrive un bravo giornalista liberista e di destra come Nicola Porro, convinto addirittura che "Giavazzi e Alesina abbiano lo stesso pusher di Veltroni". La polemica è continuata su diversi dei blog di Tocqueville, ed ho già scritto altrove (per inciso: su un quotidiano inequivocabilmente "di destra") del perché mi pare una polemica fuori luogo.
Credo però che sarebbe utile parlare un pochettino anche di cosa c'è del libro - che pure va preso per quello che è, ovvero una raccolta di editoriali.
Sperando di dare un piccolo contributo, posto qui una recensione uscita venerdì su Libero mercato:
Ma "il liberismo è di sinistra"? Il nuovo libro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi esce disgraziatamente con due anni di ritardo. Ormai la coalizione al governo è quel che è: e si ha gioco facile nel prevedere che quella dei due economisti resterà una "predica inutile", genere letterario peraltro frequentatissimo dai liberisti. I due scrivono per giornali concorrenti articoli convergenti: in questo libro li saldano assieme, sottolineando come la concorrenza produca effetti vantaggiosi anche per i più poveri. Gli argomenti di Giavazzi e Alesina sono sostanzialmente di due tipi.
In primo luogo, essi ricordano che barriere alla competizione risultano in prezzi più alti. Prezzi più alti sono per loro stessa natura ostacoli più ardui per chi ha meno– ed è eticamente complicato giustificare un costo maggiorato per tutti, se avvantaggia soltanto una corporazione numericamente esigua. Verissimo, anche se bisognerebbe evitare l'equivalenza liberalizzazioni/prezzi più contenuti. Deregolamentando prezzi amministrati, o privatizzando un monopolista sussidiato dallo Stato, i prezzi nel breve periodo possono salire: i benefici della liberalizzazione vanno visti nel tempo.
In seconda battuta, Giavazzi ed Alesina assumono che uno degli obiettivi della "sinistra" sia un'elevata mobilità sociale. Per questo occorre raschiar via gli interessi stratificati delle lobby, che limitano la libertà d'ingresso sul mercato di nuovi competitori. In questo, sindacati e ordini professionali si assomigliano. E nonostante il potere di veto dei sindacati e quello dei farmacisti abbiano un peso specifico evidentemente diverso, è difficile dare torto ad Alesina e Giavazzi: si tratta dello stesso fenomeno, che si palesa con diversa violenza.
La parte più preziosa di questo saggio a quattro mani è sicuramente quella sul mercato del lavoro. Lì Alesina e Giavazzi sono al loro meglio. Ricordano che "negli anni cinquanta e sessanta, quando l'Europa aveva un mercato del lavoro meno regolamentato, forse ancor meno di quello americano, la disoccupazione era più bassa che negli Stati Uniti". La disoccupazione, al contrario, ha cominciato a crescere quando anche la regolazione si è complicata. Ci sono buoni argomenti di equità per aumentare la flessibilità in entrata e in uscita. Quest'ultima è altrettanto importante della prima, perché immunizzare i lavoratori dalla principale sanzione di mercato (il licenziamento) fa lievitare i costi per le aziende, incluso il costo di provare a crescere fornendo più occupazione.
La concorrenza fa bene ai lavoratori, ricordano Alesina e Giavazzi, perché rimuove le rendite facendo scendere i costi per i consumatori: e consumatori siamo tutti (le stesse imprese sono sempre produttrici di qualcosa, e consumatrici di qualcos'altro).
Però focalizzando l’attenzione sullo spendere poco, si rischia di perdere di vista un fatto fondamentale: cioè che il libero scambio è già cosa che va a vantaggio di tutti. Quando acquistiamo un software della Microsoft, noi non pensiamo di stare contribuendo ad allargare le diseguaglianze, separandoci da del denaro a vantaggio di Bill Gates. Ma abbiamo e sfruttiamo una libertà di scelta. Avere di più di questa libertà, è un valore indipendentemente dalla ricchezza e dal reddito di ciascuno di noi.
Dove la predica di Alesina e Giavazzi rischia davvero l’inutilità, è sul terreno della pratica politica. I due condannano la sinistra che "difende il privilegio" – in nome però di un'idea della sinistra quasi romantica, una sorta di club dei paladini dei deboli. Uno sguardo disincatato alla democrazia suggerisce un po' più di scetticismo. Destra e sinistra vivono del consenso che riescono ad aggregare. Gli interessi di chi vive di rendita sono concentrati e ben rappresentati. Quelli dei consumatori sono dispersi. Per un notaio o un farmacista difendere il proprio "privilegio" è soggettivamente questione molto importante. Rimuovere quel privilegio è un interesse più sbiadito, spesso nemmeno avvertito, dal consumatore. Come fare allora a preparare la strada a queste riforme? La risposta banale e ambiziosa assieme è che occorre cambiare la nostra idea di società. L'utilità di Alesina e Giavazzi, in questo processo, è fuori discussione – quella del concetto di "sinistra" (o di "destra") no.

sabato 8 settembre 2007

Microsoft: il giorno del giudizio

Il count down è cominciato: il 17 settembre il Tribunale di Primo Grado si pronuncerà sul provvedimento del 2004 con cui la Commissione Europea ha condannato Microsoft a distribuire una versione di Windows sprovvista del Media Player, la cui annessione al sistema operativo avrebbe ostacolato lo sviluppo di players concorrenti, ed a rilasciare ai competitori le specifiche dei protocolli di comunicazione integrati in Windows, la cui segretezza avrebbe garantito al gigante di Redmond la possibilità d'estendere il suo dominio al mercato dei server; ed a staccare, incidentalmente, un assegnino di 497 milioni di euri.

Il tema è stato al centro d'un incontro IBL che ha visto la partecipazione di Alberto Mingardi, Federico Vasoli e Paolo Zanetto. (I loro interventi sono disponibili sul nostro sito per il download e la riproduzione con uno qualsiasi dei numerosissimi player multimediali disponibili sul mercato, a riprova della rara lungimiranza di Mario Monti.)

Difficile azzardare previsioni, sebbene alcuni media abbiano ipotizzato un 1-1 con Microsoft vincente in merito alla questione del bundling, e soccombente in relazione al tema dell'interoperabilità. E non sono mancate le speculazioni sul canto del cigno di Bo Vesterdorf, presidente del Tribunale, che lascerà l'incarico all'indomani della sentenza.

La rilevanza del verdetto non può però essere sovrastimata, perché si tratta di un primo riscontro giurisdizionale sull'adeguatezza delle misure del 2004*, e perché da essa dipenderà l'evoluzione del diritto della concorrenza nel vecchio continente.

Temi quali la possibilità per le imprese d'innovare, la libertà di determinare le proprie strategie commerciali, le esigenze di tutela dei segreti industriali, riceveranno a seguito della decisione della Corte un restatement il cui orientamento marcherà necessariamente la cifra dei prossimi interventi dei mastini della concorrenza di stanza a Bruxelles.

Non resta dunque che sperare che prevalga la saggezza di chi ritiene la regolamentazione antitrust un baluardo contro le ingessature del mercato e non un paracadute per le imprese
castigate dai consumatori.

APPROFONDIMENTI

Alberto Mingardi e Paolo Zanetto si sono occupati della vicenda in tre Briefing Papers:
Antitrust: il nuovo attacco alla libertà d'impresa
Super Mario contro Microsoft: cronaca di una condanna annunciata
L'evoluzione del "caso Microsoft"

Un loro recente Focus analizza, inoltre, l'ultimo Statement of Objections della Commissione, verosimile preludio ad una nuova controversia:
Bruxelles contro Microsoft: ultimo atto?

* Giova ricordare che mentre negli Stati Uniti il Department of Justice istruisce la causa ma la giurisdizione spetta al giudice ordinario, in Europa la Commissione ha la responsabilità di entrambe le funzioni.

Vaffa al Vaffa

Scontato il successo dell'iniziativa di Beppe Grillo, il quale ha chiamato i cittadini a raccolta in varie piazze italiane per dire no alla politica corrotta, sprecona, partitocratica, eccetera. Non so come la pensino i miei colleghi su questa iniziativa, che rappresenta la risposta "di pancia" alle inchieste di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Io penso che sia un'operazione sbagliata e fuorviante. Nel merito e nel significato.

Nel merito, la proposta di legge di iniziativa popolare del predicatore genovese (non chiamatelo comico) dà risposte sbagliate alla crisi di credibilità della politica e dei partiti. Grillo propone essenzialmente due cose: un tetto di due mandati per i Parlamentari, e l'ineleggibilità per chi sia stato condannato in via definitiva. Sono proposte sensate? Non mi pare.

Non credo che, se i politici potessero stare in Parlamento solo due mandati, le cose sarebbero migliori, anzi. Se un politico ha un orizzonte, almeno teorico, di molte legislature, può permettersi di avviare o sostenere riforme coraggiose, che hanno sempre costi immediati e benefici dilazionati nel tempo, perché si aspetta di poterne cogliere i frutti anche in termini elettorali. Ma se sa che lavora per altri, perché mai dovrebbe darsi da fare? Prendete, per esempio, la riforma delle pensioni. Già è difficile così: ma chi si darebbe pena di scontentare tutti oggi, nella consapevolezza che quando, domani, sarà chiaro che era la cosa giusta da fare non potrà più candidarsi e ottere soddisfazione? Questa cosa la si può vedere anche nel suo aspetto deteriore: se l'obiettivo di un politico è massimizzare il suo utile, è ovvio che, avendo un orizzonte massimo di due legislature (cioé non più di 10 anni), metterà in atto il più in fretta possibile quei provvedimenti che gli causano un vantaggio diretto. E pensate a che farà durante l'ultimo anno del suo mandato, sapendo che - elettoralmente - non ha più nulla da perdere. Per quel che riguarda i politici condannati in via definitiva (che non sono solo politici corrotti: anche persone che hanno commesso reati minori, magari tanti anni prima), teoricamente se sono stati condannati hanno anche pagato per i loro errori: quindi, per quale ragione dovremmo impiccarli vita natural durante? Perché, per esempio, qualcuno dovrebbe essere dichiarato ineleggibile a vita solo perché, da ragazzino, è stato pizzicato mentre si faceva uno spinello? O perché si è reso colpevole di evasione fiscale? Per non dire di coloro - e ci sono - che sono stati considerati colpevoli di reati di opinione, una fattispecie che ancora il nostro paese si ostina a punire.

Anche il senso dell'iniziativa, che poi è lo stesso significato sotteso all'operazione di Rizzo e Stella, è discutibile. Mi pare, infatti, che si tenda a concentrarsi sui dettagli e che ciò faccia perdere di vista il problema reale. Denunciare gli sprechi della politica sottende che possa esistere una politica senza sprechi; criticare la spesa ingiustificata o inefficiente presuppone che possa esistere una spesa pubblica giustificata o efficiente. Invece, il tema vero che siamo chiamati ad affrontare è che la politica è spreco, la spesa pubblica è inefficiente, per definizione. Mi interessano relativamente poco le eventuai mazzette che possono essere state pagate sulla Tav o sul ponte sullo Stretto (ci saranno anche quelle, da qualche parte); mi preoccupano di più la Tav o il ponte sullo Stretto. Un nazionalizzatore onesto è soprattutto un nazionalizzatore, e questo mi preoccupa: un liberalizzatore disonesto e corrotto sarà anche disonesto e corrotto, ma se liberalizza sul serio le tangenti gliele pago anch'io.

giovedì 6 settembre 2007

Cosa fanno le agenzie di rating?

Cogliendo la palla al balzo, lanciata stamane da Alberto Mingardi con il suo post, mi prendo la libertà di esternare alcune riflessioni sul tema del rating.

Partiamo dal titolo: sinceramente non l'ho ancora capito. Di definizioni sul ruolo delle agenzie ne esistono molteplici, di fatti che provino la corrispondenza tra quanto sta scritto sulla carta e quanto succede nella pratica un po' meno. In linea di principio, le agenzie di rating dovrebbero assolvere un compito essenziale per il mantenimento in forze dei mercati: raccogliere, elaborare e diffondere l'informazione attinente lo stato di salute di tutti quei soggetti (imprese, Paesi, regioni economiche, ecc.) che si rivolgono ai mercati dei capitali per raccogliere fondi. Ossia, abbattere, o quanto meno assottigliare, lo strato di asimmetria informativa che separa l'offerta dalla domanda di capitali. Questo, ovviamente, con l'intenzione di rendere più efficiente l'allocazione delle risorse finanziarie. Da ciò discendono le due ipotesi fondamentali che motivano l'esistenza delle agenzie di rating. Esse riguardano l'incompletezza dell'informazione che circola per i mercati e la limitatezza della capacità di calcolo degli investitori. Quindi, si assume che ogni soggetto non abbia i mezzi per compiere decisioni d'investimento pienamente consapevoli. Ed ecco che, per metterci una pezza, vengono introdotte le agenzie: entità quasi soprannaturali, composte dai migliori specialisti del campo, i quali dovrebbero garantire una superiore capacità di elaborazione, ed ai quali è fornita una privileggiata linea d'accesso all'informazione. Stupendo. Ma, cosa significa?

Significa che ogni pinco pallino, come il sottoscritto, ripone totale fiducia in tali strutture e segue religiosamente ogni indicazione da queste elargita; nella sincera convinzione che loro siano davvero i più belli ed aitanti. Ovviamente, qualsiasi intuizione o studio che io possa avere o elaborare, non sarà mai tanto dettagliato o ben curato come quelli delle task forces di esperti delle big-3. Se dicono A va tutto bene, se dicono C siamo alla frutta. Tu mi dici oggi come stanno le imprese X e Y, io decido se prestare i miei soldi all'una o all'altra. Ancora, cosa significa?

Significa, secondo il mio modestissimo parere, due cose. Ciò che dicono guida ed indirizza gli investitori nelle proprie decisioni allocative. Ed inoltre, che l'interesse riposto nel giudizio di solvibilità delle agenzie riguarda il futuro.

Qui si innesta il fatto interessante che, al sottoscritto, ha fatto perdere la bussola. Da molti anni ormai, un gruppo di noti economisti - tra cui Goldstein, Kaminsky e Reinhart - compie studi per tentare di valutare l'effettivo potere previsionale del rating, in particolare nelle evenienze di crisi. Il risultato: il credit-rating fallisce sistematicamente nella previsione di situazioni di crisi, siano esse bancarie o valutarie. Esistono casi nei quali le agenzie di rating hanno saputo precedere i mercati, ma siamo assolutamente lontani dalla sistematicità della cosa. Secondo la Reinhart il problema principale va ricercato nell'errato gruppo di indici preso dalle agenzie come riferimento, troppo peso viene assegnato ad indici che, a loro volta, esprimono una bassa capacità di previsione.

Quindi le agenzie di rating sembrano essere soggette agli stessi limiti informativi e di calcolo di noi poveri mortali, anzi, nella stragrande maggioranza dei casi è proprio il mercato (e mi concederei un come quasi sempre) a precederle, privandole di quella funzione che, a mio avviso, ne motiverebbe l'esistenza. Dunque, qual è il ruolo delle agenzie?

Più mercato. Anche per le agenzie di rating

Se della delirante intervista di Giulio Tremonti al bravissimo Aldo Cazzullo abbiamo già detto, correttezza imporrebbe di segnalare che l'intervista di Tremonti al "Sole 24 Ore", pubblicata domenica scorsa, era assai meno delirante. Cioè, la materia prima del delirio era la medesima, ma in presenza di un cuoco più attento a dosare il lievito, perlomeno non è strabordata dal recipiente.
Soprattutto, pur concionando di critica al mercatismo, di storia che non è finita, di brusco risveglio, eccetera (del resto sempre di Tremonti si tratta), GT in quell'occasione ha dato uno spunto originale. Per le agenzie di rating, ha detto l'antimercatista, ci vorrebbe più mercato.
Lo spunto è ripreso ed ampliato da questo interessante articolo di Benedetto Della Vedova e Piercamillo Falasca per Libero mercato.
Questo il nocciolo dell'articolo:
Ciò detto, un problema esiste. Il settore del rating è fortemente oligopolistico, da decenni limitato a soli tre operatori a causa delle severe barriere all’ingresso poste dalla SEC americana (i mercati europei hanno di fatto un ruolo marginale). Qualche giorno fa Giulio Tremonti ha parlato di anomalia istituzionale. In effetti, è quanto meno discutibile che uno dei meccanismi vitali di controllo del mercato sia affidato ad un oligopolio. La mancanza di concorrenza non aiuta la qualità del settore e lo sviluppo di metodi di valutazione innovativi e trasparenti. Probabilmente (e nell’interesse delle stesse agenzie), il sistema finanziario necessita di un mercato del rating più ampio, aperto ad una varietà di agenzie specializzate in ambiti peculiari (i derivati dei subprime, ad esempio), per tipologia di strumento o per area geografica.

mercoledì 5 settembre 2007

E' stata smarrita l'onestà intellettuale del ministro Turco. Prevista ricompensa.

Cantava Antonello Venditti: "E' una questione politica, 'na grande presa per 'l culo". Il commento calza alla perfezione alle dichiarazioni del ministro Turco, sul possibile sbarco dei farmaci di fascia "C" al supermercato, come previsto da un emendamento alla terza lenzuolata di Bersani (la proposta fa anche parte dei "ventisei punti" dei radicali di Bonino e Pannella).
Sia ben chiaro: tutte le opinioni sono legittime, e così pure gran parte degli interessi. Fanno benissimo i farmacisti a difendere lo status quo, che per loro rappresenta una posizione di favore. Ci mancherebbe: quelle sono le regole del gioco con cui hanno familiarità, a cui sono abituati, che desiderano anche per il futuro.
E' probabilmente pure possibile partorire un argomento in buona fede, per non portare i farmaci di fascia C al supermercato e nelle parafarmacie. Non ci sovviene, ma ci deve essere. Prerequisito di un argomento in buona fede, però, è un minimo di onestà intellettuale.
Dice la Turco:
Saro' conservatrice, ma il farmaco e' un bene delicato che va usato in modo appropriato per non recare danno ai cittadini. Per questo credo sia meglio attenersi a quanto gia' previsto nel decreto Bersani senza introdurre la liberalizzazione di nuovi farmaci.

Allora, facciamo che siamo tutti d'accordo che il farmaco è un bene "delicato", una merce particolare, per cui l'accesso ad esso da parte del cittadino deve essere mediato.
Visto che i farmaci di automedicazione al supermercato ci sono già, immaginiamo che il ministro sia preoccupato dai farmaci di fascia "C" per i quali è necessaria prescrizione medica.
Che cosa succede, oggi? Il farmaco di fascia C ha bisogno di ricetta: viene prescritto dal medico. Il paziente deve esibire la ricetta quando va dal farmacista, che gli consegna il prodotto (pagato di tasca sua dal consumatore, e non dall'SSN). Fra il paziente ed il consumo del farmaco, ci sono due fermate: il medico, e il farmacista (=laureato in farmacia).
Che cosa succederebbe, se i medicinali di fascia C finissero nei supermercati? Il paziente dovrebbe sempre farsi prescrivere il farmaco dal medico. Poi, una volta ottenuta la ricetta potrebbe andare in un 'corner' o in una parafarmacia. Lì, incontrebbe un farmacista (=laureato in farmacia) che andrebbe a prendergli il prodotto e glielo consegnerebbe. Fra il paziente ed il consumo del farmaco, restano due fermate: il medico, e il farmacista.
La storia è la stessa, i protagonisti pure, cambia solo la scena. La Turco dovrebbe spiegare perché un laureato in farmacia che va a lavorare per una catena della grande distribuzione, è da considerarsi diverso da un laureato un farmacia, che va a lavorare sotto un "padrone" che ha fatto il suo medesimo corso di studi.
L'unica altra differenza possibile è il prezzo del medicinale, che la GDO potrebbe far scendere, erodendo i margini esorbitanti del farmacista (come già avvenuto coi prodotti da banco). In tutta evidenza, il fatto che lo stesso farmaco costi di meno non lo rende meno efficace.
Definizione tecnica dei "problemi" legati all'arrivo dei farmaci di fascia C al supermercato: "una questione politica". Definizione tecnica degli argomenti della Turco: "'na grande presa per 'l culo".

martedì 4 settembre 2007

Liberalizzazioni, la nèmesi

Capita - soprattutto di recente - di interrogarsi sul perchè alcune persone percepiscano il mercato come pericoloso, minaccioso, un'entità della quale prevenire la nascita. Qualcuno cerca di far compiere al Paese un - per quanto piccolo - passo verso un più corposo grado di libertà (economica) individuale, e subito scoppia un putiferio. La motivazione è la solita: per via di un distorto processo di sviluppo, alcuni settori si trovano in condizioni di assenza di concorrenza ed in presenza di elevate barriere all'ingresso, cosa che preclude la possibilità a nuovi soggetti economici di fare il proprio ingresso nel mercato; garantendo l'artificiale sopravvivenza di sacche di inefficienza e profitti iniqui ai pochi eletti che compongono il gruppo, e socializzando questi costi nei confronti dei consumatori (prezzi più elevati, servizi qualitativamente inferiori, ecc.). Per sradicare lo status quo è sempre necessario che qualcuno paghi. Non è possibile innescare meccanismi pro-competitivi a costo zero, o almeno non al di fuori dei testi di economia. Per raggiungere quello che viene considerato dai più un livello di benessere superiore e maggiormente diffuso, è necessario che gli attori dei mercati coinvolti si facciano carico del peso della propria inefficienza. Così, quando dall'alto arriva una lenzuolata, svegliandosi dal torpore dell'assenza di competizione, si scopre che i propri beni e servizi possono essere forniti alla domanda a prezzi molto più bassi e ad una migliore qualità. Il problema è che la sedimentazione delle inefficienze è un processo alimentato dall'assenza di pressione concorrenziale, e finanziato dalle rendite oligopolistiche che ne derivano. Tale fatto dovrebbe farci riflettere.

Prendendo l'esempio dei tassisti, il sistema nel quale ognuno di loro, a suo tempo, decise di entrare, imponeva l'acquisto di una licenza ad un prezzo superiore ai 100 000 euro. Tutti, eseguendo calcoli più o meno razionali, hanno deciso di sostenere tale esborso monetario, in vista di un livello di entrate sufficiente a farvi fronte. Spunta l'idea di liberalizzare. Valore della licenza e dei profitti attesi in caso affermativo: zero. I tassisti si sarebbero trovati con un pezzo di carta privo di valore in una mano e un mutuo non più sostenibile nell'altra. Unica alternativa la rivolta. Alla fine dei giochi il sistema è ancora in piedi e, giornalmente, i consumatori, pagando gli elevatissimi prezzi delle corse, fanno in modo che il circolo vizioso continui. Tale esempio potrebbe essere generalizzato ed steso a tutti i casi di mercati toccati (purtroppo solo) dall'idea di liberalizzazione.

Cosa dovrebbe rimanerci dall'analisi di questi fatti? Che il concetto di mercato è utopico, bello ma non sempre realizzabile? Non credo, escludendo quei casi ove per scelta politica il mercato viene lasciato in disparte (sanità, istruzione, ecc.), o dove fisicamente questo non possa esistere (monopoli naturali), per tutti gli altri - e sono tanti - bisogna perseverare e non arrendersi di fronte ai fallimenti incorsi. Ciò che occorre fare è rivedere il modo di pensare gli interventi, per renderli più sopportabili nei confronti di quei soggetti che, altrimenti, dovrebbero farsi carico dei costi di un sitema che il più delle volte non hanno ideato, ma solo inconsapevolmente (seppur razionalmente) sfruttato. Il fatto che un mercato sia più contendibile genera benefici per la collettività, fare in modo che questo lo diventi effettivamente comporta costi per chi il mercato già lo occupa. Il punto è: se è vero che a livello teorico sarebbe giusto che quei soggetti che nel tempo hanno accumulato profitti a danno della società, finalmente pagassero e venissero travolti dalla prepotenza della concorrenza, restituendo al mercato ciò che gli spetta; dall'altro abbiamo visto che la nèmesi è, in alcune situazioni, irrealizzabile.

E' poi opinabile anche il fatto che gli attuali venditori siano gli unici colpevoli della situazione presente. Io propendo più per una soluzione diluita, gli offerenti attuali sono certamente colpevoli, ma lo sono allo stesso modo anche tutti quelli passati, che con il loro operare hanno contribuito a generare le inefficienze presenti. Perciò, seguendo la linea ortodossa con inclinazione certosina, anche i modelli teorici di nèmesi che tutti conosciamo potrebbero vacillare.

Per tornare all'esempio dei taxi, e chiudere: invece di accanirsi nel tentativo di liberalizzazione frontale (fermandosi al più, a metà del dannatissimo guado), non potrebbe essere - se anche teoricamente non corretto - più efficace tentare di aprire l'offerta da un lato, e di introdurre un meccanismo "ammortizzante" che preveda la socializzazione di parte dei costi delle licenze dall'altro? In tal modo i tassisti attuali sarebbero più disposti a mandar giù la pillola e si avrebbero maggiori probabilità di interrompere quel circolo di cui sopra. Nel ponderare la proposta, occorre tenere a mente l'entità dei costi che a livello sociale il mantenere in vita un sistema come quello dei taxi comporta: ossia il perpetuarsi di prezzi elevati e l'eccessiva scarsità delle forniture, contro un esborso monetario - la quota delle licenze - una tantum.

lunedì 3 settembre 2007

Dove vola Alitalia?

Alitalia è alle prese con il nuovo piano industriale e non a caso, non appena sono stati previsti tagli di personale e l’eliminazione dell’hub di Malpensa sono cominciati a levarsi cori di protesta di amministratori locali e scioperi bianchi dei dipendenti Alitalia.

Il piano, come analizzato nel nuovo Focus dell’Istituto Bruno Leoni, in sé ha degli elementi coraggiosi. Resta tuttavia l’incognita dell’effettiva applicazione del Piano stesso.
La ricapitalizzazione sembra ormai necessaria e il 7 Settembre se ne discuterà nel Consiglio di Amministrazione.
Il Piano sembra consegnare la compagnia di bandiera italiana, ormai un piccolo vettore regionale nel panorama del trasporto europeo, ad un grande player (Lufthansa o AirFrance). Le altre soluzioni, come quella del fondo specializzato nel salvataggio di compagnie aeree Texas Pacific Group, sembrano essere messe in secondo piano; tuttavia quando si parla di Alitalia e della sua completa privatizzazione il condizionale è d’obbligo.
La ricapitalizzazione è necessaria non solo perchè Alitalia rischia nel corso dei prossimi mesi di entrare in crisi di liquidità ma anche per potere attuare quel rinnovamento della flotta aerea che è la meno recente nel panorama delle compagnie aeree europee (circa 12 anni è l’età media della flotta Alitalia).

Ma perché è probabile che la compagnia venga venduta ad un grande player europeo?
È lo stesso piano industriale che risponde a questa domanda: l’eliminazione dell’hub di Milano Malpensa è una condizione che AirFrance aveva chiesto per partecipare, lo sviluppo della “low cost” Volareweb potrebbe integrarsi con l’olandese Transavia di proprietà della compagnia francese, lo sviluppo del charter c non entra in competizione con AirFrance e lo sviluppo dell’attività cargo da Malpensa rafforzerebbe il settore cargo AirFrance.
Inoltre Alitalia facendo parte della stessa alleanza del vettore francese ha meno sovrapposizioni di rotte e ha già una coordinazione con il code sharing.

Le sagge parole di Profumo, “Alitalia l’abbiamo difesa così bene che scomparirà come impresa italiana”, mostrano la sconfitta di tutti i governanti a voler trattare un operatore economico secondo i principi politici. Il libero mercato nel trasporto aereo è stato introdotto 10 anni fa, Alitalia ha avuto la possibilità 8 anni fa di fare un matrimonio alla pari con KLM ed oggi, a furia di difendere piccoli interessi particolari se ne decreta la fine.
Il mercato del trasporto aereo italiano, si è sviluppato così bene che ha saputo fare a meno di Alitalia e negli ultimi dieci anni ha avuto una crescita superiore a quello dei principali paesi europei.

Ho solo una grande paura: l’entrata di AirFrance potrebbe ridurre la concorrenza, soprattutto in conseguenza della riforma Bianchi del trasporto aereo che favorisce un grande player a discapito delle compagnie low cost.
Il governo francese ha permesso la nascita di un campione nazionale nel trasporto aereo sacrificando in parte lo sviluppo stesso del mercato aereo transalpino. Le low cost in Francia hanno una vita molto difficile a causa di molte barriere all’entrata messe sia da AirFrance, ma anche dai governi.
Forse sarebbe meglio prendere ad esempio l’Irlanda o la Gran Bretagna piuttosto che la Francia, come anche l’indice delle liberalizzazioni dell’Istituto Bruno Leoni dello scorso Luglio suggerisce.