In questi giorni la stampa italiana ha dato giustamente molto rilievo ai risultati di uno studio realizzato da Lorenzo Forni, Libero Monteforte e Luca Sessa (ricercatori della Banca d’Italia) sugli effetti sull’economia della zona-euro di un’eventuale riduzione delle imposte. E finalmente è stata richiamata l’attenzione, con tutto il prestigio degli autori di tale ricerca, sulla necessità di ridurre la pressione fiscale.
Osservata con sguardo “laico” (e l’aggettivo è qui impiegato in una delle sue accezioni più arcaiche: come sinonimo di “ignorante”, e nel caso specifico sta ad indicare chi non è economista e meno che mai a proprio agio di fronte alla macroeconomia), la ricerca appare basata su premesse metodologiche lontane da quanti si collocano nella tradizione liberale classica e specialmente da quanti sono di scuola “austriaca”. Il punto di partenza – per esplicita ammissione degli autori – è un “modello di equilibrio generale dinamico stocastico”: un modello, quindi, assai astratto e lontano dalla realtà.
Sia chiaro: ogni riflessione sui fenomeni sociali – a partire dalle analisi storiche, che fatalmente utilizzano nozioni come “Stato”, “esercito”, “classe”, “interessi”, e così via – implica una qualche modellistica e quindi anche un processo di astrazione, che allontana dai fatti così come essi sono. Ma una delle difficoltà maggiori di ogni ricerca consiste proprio nel tradurre le “generalità” utilizzate in strumenti utili a capire e interpretare i fenomeni effettivi.
Nel caso specifico, si tratta di capire quanto sia efficace alla comprensione della realtà un quadro teorico che esplicitamente utilizza un modello d’equilibrio di ascendenza walrasiana (quanto l’economia reale ovviamente non è mai in equilibrio) e che per di più fa riferimento a metodi di inferenza bayesiani, e cioè puramente probabilistici (che quindi prescindono dagli attori concreti, dalle loro decisioni effettive, dalle loro reali preferenze, ecc.).
Sviluppando modelli neo-keynesiani, i tre ricercatori di Bankitalia sono giunti comunque alla conclusione che una riduzione delle imposte sul lavoro avrebbe effetti positivi per l’economia. “Ovviamente” (almeno all’interno di certi paradigmi), per arrivare a tale conclusione essi devono in qualche modo mostrare che il taglio delle tasse – in altre parole, la trasformazione delle imposte in salario – non comporterebbe una riduzione dei consumi, ma invece un suo rilancio.
Ecco cosa riporta Il Sole 24 Ore a tale riguardo:
«La riduzione delle tasse sul lavoro - emerge ancora dallo studio - favorisce anche gli investimenti, mentre il calo delle imposte sul consumo induce un aumento dei consumi stessi a scapito dell’accumulazione del capitale». Per quanto riguarda la tassazione sui redditi da capitale, poi, «una sua riduzione favorisce l’investimento e il prodotto nel lungo periodo e riduce i consumi privati nel breve; in particolare, un calo delle relative imposte pari all’1% del Pil induce nel primo anno un aumento del prodotto dello 0,4%; tale aumento permane ancora dopo tre anni. Nell’insieme, gli effetti espansivi sul prodotto di riduzioni delle aliquote fiscali risultano essere assai più persistenti rispetto a quelli di aumenti di spesa».
Ad ogni modo, è una davvero buona cosa che Forni, Monteforni e Sessa (con l’autorevolezza del loro ruolo di ricercatori della Banca centrale) sostengano la richiesta di meno tasse, e in tal modo rafforzino la posizione di quanti – i sindacati, in primis – chiedono un taglio delle imposte sui redditi da lavoro dipendente.
Quando sindacalisti ed economisti mainstream sono in prima linea – e quasi lasciati soli – in quella che dovrebbe essere la prima e più importante battaglia per salvare l’Italia dal baratro, la riduzione della pressione fiscale, viene proprio da riconoscere che le vie del Signore sono infinite.
3 commenti:
Comprendo il ragionamento sottostante. Si consideri tuttavia che ogni modello econometrico (tranne forse la logica sottostante ai VAR, vector autoregression, talvolta utilizzata in pura empiria) parte da un paradigma economico e tenta di validarlo attraverso la modellizzazione stocastica.
In altri termini, le serie storiche utilizzate evidenziano che la riduzione della tassazione si traduce (con magnitudine e durata variabili nello spazio e nel tempo) proprio in un aumento dei consumi. E questo è quanto di più "laico" ci si possa attendere da un modello: la non disconferma empirica dei postulati della teoria economica.
Se tale disconferma si fosse verificata, la "laicità" dell'approccio di ricerca avrebbe rimesso in discussione il paradigma stesso.
Riguardo la "comunanza" contingente tra economisti mainstream e sindacalisti, essa è più apparente che reale: i secondi, infatti, appaiono tifosi dell'aumento di tassazione sui redditi di capitale (cioè del risparmio), che se adottata finirebbe con l'essere contraddittoria rispetto all'obiettivo di rilancio della crescita di lungo periodo. Infatti, la tassazione dei redditi di capitale equivale a tassazione di consumo futuro, a tutto vantaggio di quello corrente. Ciò frena l'accumulazione di capitale, e lo sviluppo della produttività, cioè la crescita di lungo periodo. E questo è ciò che emerge da modelli stocastici e teoria economica.
Si parla di una riduzione della pressione fiscale sui redditi di lavoro, bene, ma in costanza di una spesa pubblica nelle attuali dimensioni i minori introiti non verrebbero, almeno nell'immediato, scaricati su altre categorie vanificando l'iniziativa?
Solo qualche rapido commento.
Nel mio “post” era certo implicita una critica, come correttamente rileva Phastidio, ad ogni modello econometrico, e più in generale a quella prospettiva (molto consolidata e anzi egemone nel campo degli studi accademici) che fa dell’economia non già una scienza dell’agire ed interagire umani, ma invece adotta un punto di vista rigorosamente positivistico e mutua di fatto dalla fisica – dallo studio della natura e dei corpi estesi – il proprio modo di procedere. Il riferimento agli “austriaci” stava ad indicare solo questo.
Quanto alla limitata convergenza tra economisti e sinacalisti, ne convengo: ma è pur vero che oggi il governo avrebbe la possibilità di avviare una negoziazione con il sindacato avendo già deciso in partenza che cederà sul taglio delle imposte gravanti sul lavoro, essendo invece determinato non a colpire il risparmio, ma semmai la spesa pubblica. L’occasione di sindacati che chiedono “meno tasse” andrebbe comunque sfruttata, senza ovviamente sposare in toto i loro schemi. (Che una tassazione dei redditi da capitale freni “l’accumulazione di capitale, e lo sviluppo della produttività, cioè la crescita di lungo periodo” può darsi emerga da modelli stocastici: non lo so. Ma certamente una buona teoria economica basata su solidi “a priori” e una struttura logico-razionale è in grado di mostrare tutto questo assai agevolmente.)
L’ultima questione – sollevata da Anonimo – pone un po’ l’interrogativo se sia bene tagliare le imposte anche in assenza di una riduzione delle spese. Mi pare fuori discussione che sia meglio fare l’uno e l’altro, e che anzi il taglio delle spese sia perfino più importante e necessario per rimettere in sesto l’economia, ridurre il debito e quindi gli interessi da pagare, ecc. E non c’è dubbio che se si tagliano le tasse ai lavoratori dipendenti (magari anche a quelli pubblici… che più pagare imposte, di fatto, le ricevono!) per alzare le tasse ad altri non si va da nessuna parte.
Più complicato invece è capire se possa comunque essere utile tagliare le imposte anche senza colpire la spesa pubblica. Sarei orientato a rispondere affermativamente: non solo in virtù di argomenti “alla Laffer”, ma anche perché i conti privati degli italiani mi stanno più a cuore dei conti pubblici dell’Italia – sebbene, ahinoi, il destino dei primi sia correlato a quello dei secondi.
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