domenica 25 novembre 2007

Fine del terzismo riformista?

Sul Corriere della sera, Mario Monti giustamente plaude al coraggio di Sarkozy nell'affrontare i sindacati, e si compiace del fatto che il Presidente francese disponga di robuste riserve di consenso, pure dopo una serie davvero estenuante di proteste.
L'articolo di Monti (che in passato aveva pure criticato Sarkozy, per il suo approccio protezionista alle politiche commerciali) è interessante perché tradisce un distacco dall'aplomb tecnocratico dell'ex Commissario europeo. Monti, per due anni buoni, è andato proponendo anche per l'Italia soluzioni di "grande coalizione": in base alla bizzarra idea che un governo composto da esponenti di destra e sinistra assieme, potesse permettere alle forze politiche di condividere, pagandolo tutti assieme, il costo in termini di consenso delle riforme.
Ora Monti applaude Sarkozy che accetta un "contributo" dagli avversari, ma non cerca l'inciucio. Che è successo? Avanzo tre ipotesi:
(1) I tecnocrati riscoprono il fascino dell'uomo forte. Del resto, non è più piacevole e comodo fare il "consigliere del principe" di un principe che sa farsi rispettare?
(2) Lo scarso successo (da un punto di vista liberale) dell'esperienza tedesca suggerisce che i comportamenti degli attori della "grande coalizione" sono opportunistici: non è che si riforma con decisione per dividersi il prezzo da pagare, ma ognuno cerca di evitare che lo scotto delle riforme sia pagato dal suo elettorato, in modo che paghino gli altri. Da questo punto di vista, la coalizione che regge il governo Prodi è "grande abbastanza" da fornirci un'anteprima di come funzionerebbe una "grande coalizione"...
(3) Monti crede che l'azione di Sarkozy dimostri comunque che "nessun Paese è irriformabile", il che apre una speranza per l'Italia ma fino a un certo punto, guardando le facce dei nostri rappresentanti. E comunque rende chiaro che non è mettendo assieme due coalizioni illiberali, che si può ottenere un governo liberista.

ps: Monti dice per inciso che la sua "grande coalizione", "sul piano della pedagogia", Sarkozy ce l'avrebbe già. Ma più che un'osservazione, pare un vezzo.

venerdì 23 novembre 2007

Alitalia: le responsabilità di una privatizzazione troppo lenta

Vendere una compagnia in “stato comatoso”, come lo stesso Amministratore Delegato Prato definisce Alitalia, non è sicuramente semplice; tuttavia 12 mesi per scegliere il futuro proprietario sono decisamente troppi.

Il vettore italiano, tre giorni fa, ha comunicato che “la riunione del CdA per individuare il soggetto con cui avviare il negoziato in esclusiva possa tenersi entro la metà di Dicembre”; il processo di vendita è cominciato pochi giorni dopo il Natale 2006 e nel frattempo Alitalia avrà perso altri 400 milioni di Euro circa, secondo le stesse previsioni della compagnia.

Dopo avere bruciato almeno 3 miliardi di Euro negli ultimi 9 anni, un processo di vendita più veloce era quantomeno auspicabile (Vd. IBL Focus N°78).

La responsabilità della lentezza della privatizzazione è totalmente del primo azionista della compagnia, lo stesso sulla cui coscienza grava la responsabilità delle perdite accumulate.
In generale la responsabilità è della classe politica che crede di poter utilizzare Alitalia per interessi propri.
Le continue invasioni di campo dei diversi Ministri, Presidenti Regionali, Provinciali e Sindaci hanno ulteriormente rallentato il processo di vendita già penalizzato nell’asta indetta a fine dello scorso anno da clausole assurde, tra le quali le diverse clausole di salvaguardia.
Salvaguardare significa voler mantenere la situazione antecedente alla privatizzazione, cosa che sicuramente, nel caso del vettore di bandiera, non è il massimo dal punto di vista del cittadino contribuente italiano.

La difficile situazione di Alitalia è dunque molto grave per l’intero paese; più grave ancora è voler estendere le difficoltà del vettore a tutto il sistema del trasporto aereo nazionale.
La riforma del ministro Bianchi va in questa direzione; per cercare di salvare la compagnia aerea di bandiera con mezzi diversi da quelli del mercato, penalizza l’intero mercato (Vd. IBL Briefing Paper N°43)
La limitazione della concorrenza causerebbe delle perdite superiori ai 3 miliardi di Euro persi da Alitalia.
La perdita netta per l’intero territorio italiano sarebbe pesantissimo: di questo bisognerebbe tenere in considerazione quando si fanno le leggi.

Non estendiamo la crisi Alitalia all’intero paese, s’il vous plait (Vd. IBL Focus N°69).

giovedì 22 novembre 2007

Ricordando Bruno Leoni

A quarant'anni dalla scomparsa di Bruno Leoni (1967-2007), l'IBL organizza un importante convegno a Moncalieri, la prossima settimana.
Sul Sole 24 Ore, Salvatore Carrubba ha scritto un interessante articolo in ricordo di Leoni. Lo stesso Sole ha pubblicato ampi stralci di uno degli editoriali leoniani inclusi in un volume di prossima uscita nella collana "Mercato, diritto e libertà". E' un micro-saggio bellissimo.

ps: per inciso, nel pezzo di Carrubba, che giustamente rammenta le condizioni di assoluta ostilità nella quale intellettuali come Leoni si dovevano muovere, in Italia, manca solo un tassello, che però mi sembra di importanza non indifferente. Cioè, un'analisi più che della sordità e del provincialismo della cultura italiana in generale, un'analisi della sordità e del provincialismo della cultura liberale in particolare. E' interessante notare - come fa Carrubba - che al momento della sua morte era tutt'altro che alla periferia dei dibattiti intellettuali. Della sua "rimozione", e in generale della marginalizzazione del liberalismo liberista che ha avuto per tanti anni dopo la morte di Leoni pressoché un solo campione (Sergio Ricossa), gli intellettuali "amici" e "liberali", costantemente tentati dallo statalismo, hanno qualche responsabilità o no?

domenica 18 novembre 2007

Class action, il frutto bacato della "spallata"

La spallata non c'è stata, in compenso il senatore Antonione ha votato a favore dell'emendamento Manzione che introduce la class action in Italia. Che c'azzecchi, la class action, con la Finanziaria non è dato sapere: ma siamo in un Paese che non è certo tirchio, quanto a "miracoli politici".
Silvio Boccalatte ha scritto una bella analisi dell'emendamento Manzione, mentre qui è possibile leggere un interessante articolo del Foglio - che riporta l'opinione di Boccalatte e quella di Alessandro De Nicola. Per un "second look" alla class action negli States, c'è invece questo illuminante paper di Richard Epstein.

mercoledì 14 novembre 2007

Alitalia e la regola del "meno voli, meno perdi"

I conti Alitalia sembrerebbero migliorare nel terzo trimestre dell’anno. Le perdite operative sono state di “soli” 19 milioni di Euro nel periodo, in miglioramento rispetto ai 42 dell’anno precedente.
La perdita netta prima dalle tasse nel terzo trimestre passa da 66 a 58 milioni di Euro; inoltre le entrate sono in aumento passando dai 1254 milioni di Euro del 2006 ai 1267 milioni di Euro del 2007 (+13 milioni di Euro).

Questi dati potrebbero far pensare ad un lento procedere verso un risanamento dell’azienda, ma andando a fare una prima analisi dei conti risultano chiari alcuni aspetti:

  • Le entrate dei passeggeri sono diminuite del 2,2 per cento, mentre sono aumentate le entrate alla vendita di opzioni di carburante (circa 50 milioni di Euro). Sembra che Alitalia abbia fatto cassa in un periodo nel quale il petrolio incrementa il suo valore. In generale le entrate dai passeggeri sono diminuite del 5 per cento, comparando il terzo trimestre 2007 con quello 2006.
  • Il load factor, già tra i più bassi tra le compagnie aeree europee è diminuito dello 0,2 per cento.
  • I costi del carburante sono diminuiti, grazie al rafforzamento dell’Euro contro il Dollaro ed in parte grazie al fatto che la compagnia italiana abbia volato di meno. Vale quindi per Alitalia la regola “meno voli, meno perdi”.
  • Gli altri costi, escluso quindi il carburante, sono aumentati di 12 milioni di Euro, tra i quali i costi del personale (+8 milioni di Euro, qui non vale la regola del “meno voli, meno perdi”) e gli altri costi operativi (+3 milioni di Euro).
  • Un dato molto interessante è l’incremento della produttività dei piloti, in particolari di quelli di Alitalia Express. Questa parte della compagnia di bandiera è quella che subirà a partire dal prossimo Marzo 2008 gli effetti maggiori del piano industriale con il ridimensionamento di Milano Malpensa. Il vettore afferma che l’incremento dell’11 per cento di produttività dei piloti Alitalia Express è “anche dovuto alla diminuzione del livello di assenteismo”.

In definitiva non credo si possa parlare di miglioramento dei conti, in quanto le maggiori entrate non sono dovute ad un miglioramento del core business aziendale, anzi si rileva uno yield in diminuzione di più del 5 per cento; i costi inoltre sono destinati ad aumentare, in quanto l’aumento del prezzo del carburante si farà sentire nei prossimi mesi (VD. IBL FOCUS N°78).

La concorrenza delle compagnie low cost continua a crescere e la compagnia di bandiera non riesce ad essere competitiva.
La stessa Alitalia ammette che la perdita per il 2007 sarà pari a quella del 2006 e quindi non è previsto alcun miglioramento (IBL – BRIEFING PAPER N°46).

L’ultimo trimestre dell’anno si prevede dunque molto difficile per la compagnia di bandiera, anche perché il quarto trimestre è un periodo dove i ricavi sono inferiori per i vettori aerei, in quanto il load factor decresce.

La liquidità è scesa a fine settembre sotto i 300 milioni di Euro e difficilmente a fine dell’inverno sarà ancora presente, in quanto nello stesso periodo dello scorso anno sono state presenti perdite nette prima delle tasse di circa 250 milioni di Euro.

La compagnia ha oramai solo una via d’uscita all’esito scontato del fallimento che attuerebbe la regola “meno voli, meno perdi”: la privatizzazione con la necessaria ristrutturazione della compagnia e la contemporanea ricapitalizzazione.

lunedì 12 novembre 2007

Stadio di Polizia

I tristi episodi di cronaca di questi giorni rendono nuovamente attuale un bel focus IBL sulla violenza negli stadi: mentre tutti si indignano e minacciano sospensione del campionato (mogli e fidanzate d’Italia, non esultate, non lo faranno mai) o sanzioni irrealisticamente pesanti, paragonando gli ultrà ai terroristi, potremmo provare a chiederci se il mercato non possa risolvere un problema che la politica rende solo più complesso. Per leggere il focus, clicca qui.

domenica 11 novembre 2007

Liberalizzare sciué-sciué: associazioni di consumatori e corporativismo

Da noisefromamerika, segnalo questo interessante sfogo di Michele Boldrin, su bersanate e portabilità dei mutui. L'elemento più interessante mi pare essere l'esplicita equiparazione di associazioni di consumatori, e sindacati:
In Italia pensano ancora di ridurre i costi e fare la concorrenza a botte di trattative sindacali. Dove vivono? Neanche in Francia, oramai, si sentono proporre queste cose! L'assurdo viene raggiunto con l'auto-proclamazione di queste "associazioni di consumatori" che rappresenterebbero tutti noi al tavolo delle trattative! Si rendono conto della follia? Soprattutto, si rendono conto che la pura esistenza dell'associazione consumatori che va a fare la trattativa con i sindacati dei banchieri e dei notai legittima, giustifica e consolida l'esistenza di lobbies anticompetitive come, appunto, l'ABI ed il Consiglio del Notariato?

I sindacati di consumatori giustificano le corporazioni, nota Boldrin, e gli uni e gli altri sono il riflesso della cultura ancora dominante qui da noi. Che è più forte di quanto sembra: non solo non viene archiviata la concertazione con le parti sociali, ma si moltiplica il numero di parti sociali con cui concertare. Questo fatto di per sè dice che non stiamo de-politicizzando mercati (il che sarebbe l'ovvio corollario di una liberalizzazione): consumatori e produttori, lasciati liberi, non "concertano", scambiano. Del resto, perché la classe politica dovrebbe - in assenza di una autentica e forte pressione sociale a muoversi in quel senso - ridurre l'ambito della vita economica su cui ha potere? Preferisce dissimulare (travestire operazioni in cui "detta" i prezzi come liberazzazioni), ridefinire il proprio ruolo (fare sponda coi consumatori, e non coi "lavoratori"), giocare con le parole, che lasciare il banco.
Boldrin chiude il suo articolo chiedendosi dove sia l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (i cui componenti sono spesso ex politici o aspiranti politici, comunque nominati da altri politici), e qui la risposta è complessa. L'Antitrust fa anche cose utili e giuste, ma investe molto tempo e capitale di reputazione nel fare da grancassa proprio alle associazioni di consumatori. Bisogna capirli: piace a tutti, essere applauditi.

venerdì 9 novembre 2007

Privatizziamo la Rai (e Biagi non sarà vissuto invano)

Criticare i defunti non è certo elegante, men che meno quando si tratti di mostri sacri. Se a ciò aggiungiamo che viviamo nel paese del buonismo, è evidente come non si potrebbe sostenere, ad esempio, che gli articoli di Enzo Biagi fossero irrimediabilmente sciatti senza essere tacciati di blasfemia.

Sarebbe però forse il caso di trarre qualche insegnamento dalla vicenda dell'allontanamento dalla Rai dell'illustre pianacciano, vicenda che suscita tuttora veementi passioni - come testimonia il fatto che un uomo posato come Ersilio Tonini, certo toccato dalla perdita dell'amico Biagi, si sia prestato ad arringare il pubblico di Santoro come un Travaglio qualsiasi.

In primo luogo, è il caso Biagi un caso di censura? Non si direbbe. Biagi è stato legittimamente sostituito dal suo editore, ed ha continuato a dispensare la sua saggezza dalle pagine del primo quotidiano nazionale. Certo, si dà il caso che l'editore della Rai sia il Parlamento: ma così è sempre stato, e di ciò Biagi non si è dispiaciuto quando ha messo piede a Viale Mazzini nel 1961, né per tutto il tempo in cui ci è rimasto, e men che meno quando quello stesso editore gli ha assegnato la conduzione de "Il fatto".

Il problema, insomma, sta a monte: nelle relazioni pericolose tra politica ed informazione che la natura pubblica della Rai perpetua, e nell'illusione che il controllo dei partiti sia garanzia di pluralismo e, dunque, di obiettività. Se l'imparzialità sia di questo mondo, non ci è dato sapere, ma che essa equivalga alla giustapposizione di diverse faziosità appare altamente improbabile.

Se mai fossero esistite giustificazioni d'ordine tecnico per l'esistenza di una televisione pubblica, esse sono state senz'altro rimosse dall'innovazione di questi decenni. L'unica soluzione credibile a tale stallo è dunque la pronta privatizzazione della TV di stato, per risolvere questa paradigmatica tragedy of the commons con la sostituzione della concorrenza dei punti vista ad un (mica tanto) asettico pensiero unico.

Cosicché ciascuno si possa scegliere (e pagare) i propri Biagi, e l'acrimonioso dibattito possa essere cancellato con un colpo di telecomando.

Contrordine compagni: giù le mani dal Dr. House!

Pare che l'endorsement delle idee di Moore da parte del medico più amato della TV fosse solo una bufala. Pare che, nel sesto episodio della quarta stagione, House stesse, ancora una volta, cercando di indisporre la Cuddy, suo superiore, prescrivendo "cure costose per tutti". Pare che l'affermazione fosse ironica - cosa assolutamente in linea con il personaggio - ed il Dr. House stesse in realtà scimmiottando, sbeffeggiando Sicko. Pare che quelli di via Solferino abbiano deciso di interpretare una frase fuori dal contesto. Così pare... cliccando in basso, il frammento (assolutamente spoiler-free) dell'episodio... decidete voi.

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martedì 6 novembre 2007

In difesa del Dr. House (e dei suoi colleghi)

Ok, ha detto che ha ragione Michael Moore. Ma l’hanno costretto, il Dr. House non lo pensa davvero: si sa che lo star system americano non è esattamente libertarian

Gregory House deve rimanere un’icona liberale. In un mondo in cui la regolamentazione invade sempre più ogni sfera della nostra vita, in cui il sistema sanitario non è di certo immune, e persino quello americano (che Mankiw ci ricorda non essere poi così estremista) è sommerso di linee guida, permessi, protocolli (si veda il bel focus di Pitts sull’Evidence Based Medicine). Il burbero Dr. House ci mostra come quella che è da molti intesa come una scienza esatta è in realtà lavoro di deduzione, basata sul ragionamento, sul calcolo di rischi e benefici per ogni caso specifico, per ogni singolo paziente. Ci ricorda che sono i medici a salvare i pazienti, e non protocolli basati su statistiche ed imposti da burocrati governativi.
Ancora, House in realtà non è abilitato a fare il medico: ma è un medico eccezionale. Dovrebbe farci riflettere sul valore legale dei titoli, sulle abilitazioni e sulle trafile amministrative che dovrebbero garantirci che solo i migliori vestano un camice bianco e ci somministrino le cure, mentre servono solo ad ergere barriere protezionistiche intorno a chi lavora già nel settore. In un sistema sanitario socializzato come quelli europei, le eccezionali capacità mediche di House verrebbero sprecate: invece di potersi permettere di “prescrivere cure costose per tutti”, in un sistema come quello auspicato da Moore House non potrebbe neanche fare l’infermiere. Ma un ospedale privato può assumerlo come consulente: è il mercato che riesce sempre a riallocare al meglio le risorse.

In questo momento, le serie tv più amate sono due serie mediche, tutte ambientate in ospedali americani. Ci mostrano un’efficienza, o semplicemente delle strutture, che di certo non rispecchiano le aspettative di un cittadino italiano medio che, per sua sfortuna, si avvicini ad un ospedale. Eppure, questi telefilm ci mostrano un’umanità variegata per ceto, storia, etnia mentre richiede cure di ogni genere. Non solo i ricchi-ricchissimi accedono ai servizi sanitari, come gente della schiatta di Moore vorrebbe farci credere: è il cittadino medio a farsi curare dal Dr. House o dai medici di Grey’s Anatomy.

Quest’ultima è la serie medica che più si occupa dell’aspetto amministrativo-economico della vita ospedaliera in un sistema sanitario così diverso dal nostro (a cominciare dai protagonisti, tirocinanti che si fanno ogni sorta di sgambetto per lavorare di più). Tutto è concentrato intorno al prestigio: per il buon nome dell’ospedale, il Capo fa di tutto per accaparrarsi i medici più affermati, quelli con le migliori credenziali ed i migliori risultati. Come primario, deve fare scelte economiche per assicurare questo prestigio, scegliendo, ad esempio se destinare fondi ad una maggiore specializzazione (nuovi macchinari) o maggiore incentivazione dell’assistenza di base (aumentare lo stipendio delle infermiere – non chiedetemi come va a finire ;-P !). Talvolta, alcuni interventi sono troppo costosi, o i pazienti non sono coperti: si vede come i vari medici cercano di trovare una soluzione che riduca i costi, come i casi più gravi vengano sovvenzionati dall’ospedale stesso, ancora una volta perché ne aumenteranno il prestigio, e come talvolta debba intervenire la generosità di donatori privati. Infine, per migliorare la qualità dell’ospedale, nell’ultima serie viene aperta una clinica gratuita “per i bisognosi ed i non assicurati”. Milioni di persone che muoiono senza cure, secondo Sicko. È buffo che, nella puntata in cui viene inaugurata, il vero problema è quello di trovare pazienti, tanto che due dei tirocinanti vengono mandati a “rubarli” dalla clinica vera.

Va bene, si tratta di fiction e non di documentari, non possiamo prenderli come prove della realtà: ma se tanta gente li guarda devono essere quantomeno verosimili, no?

lunedì 5 novembre 2007

Leggi questo, Dr House!

E' notizia di oggi che persino il Dr House, personaggio ruvido e politicamente scorretto, si lancia contro la sanità americana, apparentemente "mercatista". In un episodio della quarta stagione, il medico prescriverebbe "cure costose per tutte", proclamando che "aveva ragione Michael Moore". E' curioso che l'icona televisiva condisca la sua filippica con un "Fight the power": curioso perché non si capisce bene da che punto di vista "combatta il potere", chi propone un vistoso ampliamento della sfera d'influenza di quel potere medesimo, sulla salute dei cittadini.
Senza nulla togliere a fiction e film, consiglieremmo al Dr House la letteratura del bellissimo articolo di Greg Mankiw uscito oggi sul "New York Times". Mankiw spiega perché gli americani non devono "farsi spaventare dalle statistiche sulla salute". Il suo ragionamento collima con quanto ha spiegato Grace-Marie Turner in un utile "Occasional Paper" dell'Istituto Bruno Leoni.
Segue copiaincolla dell'articolo di Mankiw. Speriamo lo legga anche il Dr House.

STATEMENT 1 The United States has lower life expectancy and higher infant mortality than Canada, which has national health insurance.

The differences between the neighbors are indeed significant. Life expectancy at birth is 2.6 years greater for Canadian men than for American men, and 2.3 years greater for Canadian women than American women. Infant mortality in the United States is 6.8 per 1,000 live births, versus 5.3 in Canada.

These facts are often taken as evidence for the inadequacy of the American health system. But a recent study by June and Dave O’Neill, economists at Baruch College, from which these numbers come, shows that the difference in health outcomes has more to do with broader social forces.

For example, Americans are more likely than Canadians to die by accident or by homicide. For men in their 20s, mortality rates are more than 50 percent higher in the United States than in Canada, but the O’Neills show that accidents and homicides account for most of that gap. Maybe these differences have lessons for traffic laws and gun control, but they teach us nothing about our system of health care.

Americans are also more likely to be obese, leading to heart disease and other medical problems. Among Americans, 31 percent of men and 33 percent of women have a body mass index of at least 30, a definition of obesity, versus 17 percent of men and 19 percent of women in Canada. Japan, which has the longest life expectancy among major nations, has obesity rates of about 3 percent.

The causes of American obesity are not fully understood, but they involve lifestyle choices we make every day, as well as our system of food delivery. Research by the Harvard economists David Cutler, Ed Glaeser and Jesse Shapiro concludes that America’s growing obesity problem is largely attributable to our economy’s ability to supply high-calorie foods cheaply. Lower prices increase food consumption, sometimes beyond the point of optimal health.

Infant mortality rates also reflect broader social trends, including the prevalence of infants with low birth weight. The health system in the United States gives low birth-weight babies slightly better survival chances than does Canada’s, but the more pronounced difference is the frequency of these cases. In the United States, 7.5 percent of babies are born weighing less than 2,500 grams (about 5.5 pounds), compared with 5.7 percent in Canada. In both nations, these infants have more than 10 times the mortality rate of larger babies. Low birth weights are in turn correlated with teenage motherhood. (One theory is that a teenage mother is still growing and thus competing with the fetus for nutrients.) The rate of teenage motherhood, according to the O’Neill study, is almost three times higher in the United States than it is in Canada.

Whatever its merits, a Canadian-style system of national health insurance is unlikely to change the sexual mores of American youth

The bottom line is that many statistics on health outcomes say little about our system of health care.

STATEMENT 2 Some 47 million Americans do not have health insurance.

This number from the Census Bureau is often cited as evidence that the health system is failing for many American families. Yet by masking tremendous heterogeneity in personal circumstances, the figure exaggerates the magnitude of the problem.

To start with, the 47 million includes about 10 million residents who are not American citizens. Many are illegal immigrants. Even if we had national health insurance, they would probably not be covered.

The number also fails to take full account of Medicaid, the government’s health program for the poor. For instance, it counts millions of the poor who are eligible for Medicaid but have not yet applied. These individuals, who are healthier, on average, than those who are enrolled, could always apply if they ever needed significant medical care. They are uninsured in name only.

The 47 million also includes many who could buy insurance but haven’t. The Census Bureau reports that 18 million of the uninsured have annual household income of more than $50,000, which puts them in the top half of the income distribution. About a quarter of the uninsured have been offered employer-provided insurance but declined coverage.

Of course, millions of Americans have trouble getting health insurance. But they number far less than 47 million, and they make up only a few percent of the population of 300 million.

Any reform should carefully focus on this group to avoid disrupting the vast majority for whom the system is working. We do not nationalize an industry simply because a small percentage of the work force is unemployed. Similarly, we should be wary of sweeping reforms of our health system if they are motivated by the fact that a small percentage of the population is uninsured.

STATEMENT 3 Health costs are eating up an ever increasing share of American incomes.

In 1950, about 5 percent of United States national income was spent on health care, including both private and public health spending. Today the share is about 16 percent. Many pundits regard the increasing cost as evidence that the system is too expensive.

But increasing expenditures could just as well be a symptom of success. The reason that we spend more than our grandparents did is not waste, fraud and abuse, but advances in medical technology and growth in incomes. Science has consistently found new ways to extend and improve our lives. Wonderful as they are, they do not come cheap.

Fortunately, our incomes are growing, and it makes sense to spend this growing prosperity on better health. The rationality of this phenomenon is stressed in a recent article by the economists Charles I. Jones of the University of California, Berkeley, and Robert E. Hall of Stanford. They ask, “As we grow older and richer, which is more valuable: a third car, yet another television, more clothing — or an extra year of life?”

Mr. Hall and Mr. Jones forecast that the share of income devoted to health care will top 30 percent by 2050. But in their model, this is not a problem: It is the modern form of progress.

Even if the rise in health care spending turns out to be less than they forecast, it is important to get reform right. Our health care system is not perfect, but it has been a major source of advances in our standard of living, and it will be a large share of the economy we bequeath to our children.

As we look at reform plans, we should be careful not to be fooled by statistics into thinking that the problems we face are worse than they really are.

venerdì 2 novembre 2007

Il liberismo è di sinistra

Un piccolo spot. Il nuovo libro dell'Istituto Bruno Leoni, "Libertà e proprietà" (104 pp., € 10), ruota attorno a un formidabile e leggibilissimo saggio di Ludwig von Mises.
In "Libertà e proprietà", l'esemplare lucidità di Mises ci consegna una sintetica e persuasiva dimostrazione del perché il liberismo sarebbe "di sinistra", cioé, fuor di metafora, il sistema capitalistico si riveli il più attento agli umili (fra parentesi, ieri sera ad "Annozero" l'ex ministro Giulio Tremonti ha negato che sia effettivamente questo il caso - come invece sostenevano in diverso modo, e con argomenti di ben altro spessore, sia Alessandro De Nicola sia Federico Rampini).

Nel capitalismo, la proprietà privata dei fattori di produzione ha una funzione sociale. Gli imprenditori, i capitalisti e i proprietari terrieri sono dei delegati dei consumatori; e il loro mandato è revocabile. Per essere ricco, non è sufficiente avere risparmiato e accumulato il capitale una volta. È necessario investirlo ripetutamente in quelle produzioni che meglio soddisfano i bisogni dei consumatori.


Questo testo è una strepitosa introduzione alle idee di libertà. Da leggere e da diffondere. Per difendersi dai tremontismi di destra e di sinistra.

giovedì 1 novembre 2007

Class Action all'italiana

L’emendamento Bordon-Manzione introduce in Finanziaria la class action, strumento legale tipicamente americano, e che già riceve numerose critiche in patria. La class action mantiene una certa allure ideologica: tanti piccoli Davide si uniscono e sconfiggono Golia. Ma farà davvero bene ai consumatori la possibilità di agire in sede legale per chiedere un risarcimento "di classe"? (e dimenticate i tempi in cui a classe associavate le lotte marxiste: ora si fa "classe" acquistando un frullatore difettoso!) L'esito dell'azione si riduce spessissimo a cifre irrisorie per il singolo consumatore - molto meno irrisorie per lo studio legale che porta ha difeso la classe, per nulla irrisorie per le aziende convocate in giudizio. Le spese legali, insieme ai maggiori costi in controlli qualità, impatterano sull'efficienza produttiva delle imprese, aumentando il prezzo dei beni sul mercato, e di conseguenza meno consumatori potranno permettersi frullatori. Siamo sicuri di volerlo? In un contesto come quello europeo, poi, in cui la regolamentazione è soffocante, e dove sono già previsti due anni di garanzia obbligatoria per qualsiasi prodotto venduto? Certo, non tutte le azioni di classe (ma quasi) si riducono a chiedere risarcimenti per frullatori difettosi. Ma la class action ha senso in un sistema giuridico come quello americano, in cui non vi è la cosiddetta english rule, cioè non è previsto che chi perde una causa debba sobbarcarsi anche le spese legali dell'altra parte - cosa che avviene in Italia. In questo sistema la class action riequilibra l'accesso alla giustizia per le small claim, quelle cause di poca entità la cui vittoria non coprirebbe le spese legali, che da noi più facilmente rientrano - e sovraccaricano - il sistema giurisdizionale. Va bene il "tu vuò fa l'americano", ma dobbiamo proprio scimmiottare un istituto che non c'entra nulla con l'economia del nostro sistema giuridico, che aggrava ancora il nostro sistema produttivo, e che aggiunge così poco al benessere dei consumatori?

Trasporto Aereo: perché la Francia non può essere un esempio.

La settimana che si sta concludendo non è stata facile per il trasporto aereo francese. Dal 25 ottobre al 29 ottobre lo sciopero del personale di bordo di AirFrance ha messo in grave difficoltà la prima compagnia europea. Una prima stima dei danni subiti porta a delle cifre considerevoli: 60 milioni di Euro dovuti al mancato trasporto dei clienti.

Un bel articolo di Fabrice Gliszczynski, su “La Tribune”, analizza perfettamente le cause del malessere che hanno portato a questo sciopero. L'astensione al lavoro, in definitiva, è servito a ben poco, tanto che le trattative tra direzione e sindacati sono ripartite laddove si erano fermate.

Il campione nazionale francese conta più di 100 mila dipendenti ed è, caso non unico francese, molto tenuto in considerazione dal governo della Republique. Negli ultimi anni, il mercato aereo francese è quello che si è sviluppato meno in Europa a causa della forte protezione degli interessi del vettore di bandiera (Vd. IBL Focus N° 69). La difesa degli interessi del “champion national”, se da un lato ha fatto si che AirFrance abbia avuto dei conti positivi negli ultimi anni, ha tuttavia distorto e non ha permesso uno sviluppo compiuto del mercato del trasporto aereo francese.
In definitiva, la perdita netta per i consumatori è molto elevata.

La compagnia francese versa in una situazione molto diversa dal nostro vettore di bandiera che probabilmente si accinge ad acquistare.
L’EBITDA nel primo trimestre contabile è stato positivo per più di 400 milioni di Euro; i ricavi di un trimestre di AirFrance hanno superato i ricavi annuali di Alitalia.
Sono importanti da rimarcare dei possibili punti di debolezza nella probabile, ma non certa fusione tra le due compagnie: il peso dei sindacati, già molto forti in Alitalia, potrebbero rallentare il processo di ristrutturazione necessario alla compagnia di bandiera italiana.

Concluso questo sciopero, due giorni dopo, il personale di un’altra compagnia aerea francese, la CCM, specializzata nei voli tra la Corsica e il resto della Francia si è astenuto dal lavoro per protestare contro la volontà di rivedere il regime di Oneri di Servizio Pubblico vigenti tra l’isola e il continente.
Questo regime, nato per salvaguardare gli interessi di piccoli territori svantaggiati geograficamente, è diventato in alcuni Stati europei una barriera all’entrata a nuovi concorrenti. Ad oggi, nessuna compagnia low cost può collegare la Corsica con altre regioni francesi. Fino a meno di sei mesi fa, anche la Regione Sardegna attuava il regime OPS, ma una decisione della Commissione Europea, ne ha stabilito l’abuso.

Il trasporto aereo italiano non è perfetto; tuttavia l’entrata di nuovi player ha aumentato la concorrenza, ha acuito la crisi Alitalia (Vd. IBL - Briefing Paper N°46) ed ha permesso il grande sviluppo del mercato. In Francia, i diversi governi hanno voluto difendere gli interessi particolari di compagnie nazionali, in particolare AirFrance, ma il trasporto aereo non ha beneficiato come altrove della liberalizzazione europea avvenuta nel 1997.

Se il vettore francese acquisterà Alitalia, il governo italiano non dovrà difendere il vettore italiano inglobato nel colosso franco – olandese (Vd. IBL - Briefing Paper N°43), ma dovrà difendere l’unico vero interesse italiano: la concorrenza del mercato del trasporto aereo.