lunedì 31 dicembre 2007

Accountability to the stockholders

E' una di quelle cose che seguitano a girare sui canali satellitari nel periodo delle feste natalizie. Il film (Wall Street) non è senza pecche, sbavature, fraintendimenti, tremende mistificazioni sulla natura dell'economia di mercato. E il suo stesso protagonista è la caricatura di un capitalista. Però... però questo speech di Gordon Gekko resta un classico.

domenica 30 dicembre 2007

Europa 2008: l'energia tra scelte incerte e sbagliate

Il 2007 dell’energia sarà probabilmente ricordato come l’anno in cui il petrolio lambì quota 100 dollari – un traguardo mai raggiunto (sebbene, in termini reali, resti al di sotto del picco dei primi anni ’80). Servirà a poco ricordare che il principale driver del caro-greggio è del tutto esogeno, ed è la debolezza del dollaro, che secondo alcuni spiega almeno 20-25 dollari del prezzo del barile. In ogni caso, questo scenario trascina verso l’alto il valore di tutte le materie prime energetiche e, di conseguenza, di prodotti quali i carburanti, il gas e l’elettricità. Ciononostante, il mondo pare reggere piuttosto bene la “crisi” e quindi, a ben vedere, non è su di essa che dovrebbe concentrarsi l’attenzione di chi voglia trarre un primo bilancio.

Neppure dal punto di vista delle negoziazioni ambientali si sono osservati mutamenti imprevisti. Bali, che per gli entusiasti avrebbe dovuto partorire la cornice per il post-Kyoto (ormai nessuno lo chiama più Kyoto 2, come andava di moda dire fino all’anno scorso), non ha prodotto nulla se non le consuete divisioni. E la causa prima del fallimento annunciato è la testardaggine europea nel proporre una strategia – quella degli obiettivi vincolanti di breve termine – che nessuno condivide.

Questo conduce a quella che è la vera notizia energetica del 2007, almeno per chi sia condannato a subirne gli effetti, ossia la determinazione del Consiglio europeo di primavera a fissare i cosiddetti obiettivi del 20-20-20 (20 per cento meno emissioni rispetto al 1990, 20 per cento meno consumi rispetto al tendenziale, 20 per cento rinnovabili sul consumo totale, tutto entro il 2020). Gli obiettivi sono stati adottati, per quel che è dato conoscere, senza alcuno studio preliminare sulla fattibilità o sui costi. Si tratta di uno slogan, ma uno slogan vincolante è uno slogan pericoloso. A destare preoccupazioni non sono solo la portata del cambiamento in un lasso di tempo così breve (12 anni), o l’entità della bolletta che i consumatori europei saranno chiamati a pagare. Più ancora di tutto ciò, due fattori sono pericolosi. Il primo riguarda gli incentivi che la Commissione – da cui ci si attende una direttiva per fine gennaio – manderà agli attori economici. Un approfondito studio di Alberto Clò e Stefano Verde, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Energia, spiega che il combinato disposto degli obiettivi previsti nella Nuova Politica Energetica (Nep) “comporta nel 2020 un minor fabbisogno delle altre fonti tradizionali per 430 milioni di Tep (-25,6 per cento)”. In particolare, “il gas metano, che in base alle previsioni tendenziali avrebbe dovuto conoscere la maggior crescita assoluta passando dai 445 milioni di Tep del 2005 a 556 milioni di Tep (+25 per cento), nel caso programmato dovrebbe invece ridursi dell’11 per cento” (questi valori sono calcolati sulla base di un obiettivo di riduzione del 20 per cento dei consumi primari, mentre sembra che la Commissione imporrà il target rispetto al consumo finale, ma l’ordine di grandezza non è destinato a cambiare). Quindi,
l’aspetto centrale e più critico è se e in che misura debbano rivedersi verso il
basso i fabbisogni che fino al 7 marzo 2007 erano ritenuti indispensabili e
imprescindibili nello sviluppo delle infrastrutture e delle forniture per
assicurare piena copertura della domanda in condizioni di competitività e
sicurezza. Nell’ipotesi di un pieno raggiungimento degli obiettivi di Berlino,
l’attuale dotazione di infrastrutture e di forniture di metano risulterebbe,
infatti, assolutamente idonea a fronteggiare il livello dei futuri consumi,
mentre il mancato raggiungimento degli obiettivi richiederebbe sin d’ora, come
d’altra parte sta avvenendo, l’accelerazione degli investimenti.
Detto in termini più triviali: servono ancora i rigassificatori? Un’ulteriore questione riguarda la cornice istituzionale che dovrà sorreggere un simile mutamento strutturale del settore energetico in Europa. Fino a che punto una politica europea instabile, imprevedibile, e che demanda al pubblico scelte di indirizzo fondamentali (che vanno dal controllo della domanda alla pianificazione dell’offerta) è compatibile con le liberalizzazioni? Non solo tale domanda è finora restata senza risposta da parte delle autorità europee, ma neppure la Commissione pare essersi posta il problema. E questo, più ancora del merito delle decisioni, ci fa temere che il sentiero europeo condurrà dove tipicamente vanno le strade lastricate di buone intenzioni.

(Da RealismoEnergetico)

mercoledì 26 dicembre 2007

Un Natale tra i rifiuti

Chissà se, come si chiedeva qualche giorno fa sul Corriere Gian Antonio Stella, Babbo Natale è riuscito a destreggiarsi fra le tante montagne di rifiuti che ricoprono Napoli e provincia, e a consegnare per tempo i regali ai bimbi partenopei. Sicuramente sarà stata un'impresa molto impegnativa, che ha messo a dura prova le capacità di slalomista del nostro Santa Claus e delle sue renne. Gli impianti di stoccaggio sono saturi e i rifiuti riposano ai bordi delle strade in attesa che venga appiccato un salutare rogo e che un'aria irrespirabile renda invivibile la zona. Ormai, quella che doveva essere una emergenza, è diventato un problema cronico: da troppo tempo se ne parla e da troppo tempo non si trovano risposte per sistemare finalmente la situazione. L'impianto di termovalorizzazione di Acerra (NA) è stato progettato nel 1998 ma i lavori di costruzione non sono ancora conclusi. Mentre, ogni volta che devono essere individuati nuovi luoghi per realizzare indispensabili discariche, i cittadini del luogo insorgono. Esiste un modo per risolvere il problema? Sicuramente, qualsiasi soluzione alternativa a quella attuale migliorerà il presente. Peggio di come stanno andando ora le cose non è possibile fare. Allora perchè non provare con misure che sembrerebbero drastiche ma che invece potrebbero essere dettate solamente dal buonsenso? Come in altri settori, occorre dunque portare avanti l’operazione di privatizzazione dei servizi di pubblica utilità in ambito locale, dove aziende pubbliche, nella forma di imprese municipalizzate, controllano servizi di rilevante impatto sociale ed economico, come la distribuzione dell’acqua, del gas, la raccolta dei rifiuti e in alcuni casi dell’energia elettrica. Se non si comincia a considerare il ricorso al mercato come una possibile soluzione al problema, l'alternativa sarà Napoli... quella descritta proprio oggi dal cronista di SkyTg24, costretto per l'ennesima volta a raccontare l'emergenza rifiuti a fianco di un grande rogo, che fa pensare a tutto tranne che ad un paese civile.

domenica 23 dicembre 2007

Protezionismo alla milanese

Alitalia dovrebbe finalmente essere venduta ad Air France. Il percorso a tappe verso la privatizzazione ha seguito logiche demenziali e contraddittorie - come ha ben ricordato in più di una occasione il "nostro" Andrea Giuricin. Proprio Giuricin però ha anche messo in chiaro come, dovendo scegliere fra Air France ed Air One, l'offerta francese fosse assai più attraente.
Sono della stessa opinione tutti i commentatori più avveduti - incluso l'ex direttore dell'Economist, Bill Emmott.
A chi viene lasciato il controcanto? A Letizia Moratti e Roberto Formigoni, che anziché pensare a come una gestione più imprenditoriale potrebbe riqualificare Malpensa, strepitano perché l'azienda non è restata in mani "italiane" - cioè non è stata acquistata dalla "league of extraordinary gentlemen" guidata da Carlo Toto e ben supportata dalle banche, indispensabili per uno sforzo del genere da parte di Air One.
La tardiva privatizzazione di Alitalia è comunque migliore dell'unica alternativa politicamente immaginabile: continuare a far pagare il conto delle inefficienze del vettore ai contribuenti italiani. Ne valeva la pena, per compiacere il bisogno di grandeur dei politici lombardi?

mercoledì 19 dicembre 2007

La libertà non ha prezzo…


…Ma il documento che nel tredicesimo secolo l’ha messa per iscritto è stata venduto ieri da Sotheby’s New York per 21,32 milioni di dollari. La Magna Charta Libertatum, il documento che fonda la costituzione Inglese, enunciando i principi dell’Habeas corpus ed i limiti al potere di tassazione del re, è anche una lenzuolata Bersani ante litteram. Scrive il Giornale:

Essa regolamentava inoltre i rapporti che intercorrevano fra Re e baroni, concedendo a questi ultimi alcune libertà in più rispetto a prima come, ad esempio, quella di costruire castelli ed edifici nei loro feudi senza l’esplicito benestare del sovrano. In materia economica liberalizzava i commerci fra Londra e il continente, soprattutto per quello che riguardava il commercio della lana con le Fiandre.

martedì 18 dicembre 2007

Il protezionismo selettivo di Sarkozy

Il sospetto che Nicolas Sarkozy non fosse precisamente un redivivo Bastiat ci era venuto e l'avevamo esternato, ad esempio, qui e qui. Ma diamo ad Asterix quel che è di Asterix: sull'importazione di gnocca dall'Italia un occhio è disposto a chiuderlo, il galletto...

Tax competition. A liberalizing force in the world economy

Se è vero che i consumatori beneficiano della concorrenza quando sono banche, drogherie o negozi di animali a farsi la guerra, perché non dovrebbero beneficiarne quando è il turno dei governi? La risposta a questa domanda è in un bel video del Centre for Freedom and Prosperity, che spiega perché, se c'è un ambito che più di ogni altro abbisogna d'una considerevole iniezione di concorrenza, è proprio quello fiscale. Enjoy!



(Nota per coloro che ci leggono via feed: VIDEO EMBEDDED.)

Il sorpasso annunciato

Eurostat, l’istituto di statistica Europeo, ha così sentenziato: nel 2006 il prodotto interno lordo spagnolo pro-capite a parità di potere d’acquisto ha superato quello italiano.
Ponendo pari a 100 la media dell’Unione Europea a 27 Stati, l’Italia ha un valore indice pari a 103, mentre la Spagna ci supera di due punti.

La crescita del Paese Iberico è stata negli ultimi 3 anni più veloce rispetto la media europea e, da un valore pari a 101 nel 2004, è arrivato appunto a 105 nel 2006. In Italia, dove la crescita economica è stata molto bassa negli ultimi anni, il valore indice è passato da 107 nel 2004 a 103 nel 2006.
Chiaramente questi dati sono da utilizzare tenendo in considerazione che la metodologia PPS (Purchasing Power Standard) non è perfetta; ma come funziona questa metodologia? Semplicemente si confronta il prodotto interno lordo pro-capite di ogni paese e lo si divide per la parità di potere di acquisto.
Prendendo uno stesso paniere di beni, si vede quale è il costo di questo paniere in ogni paese dell’Unione Europea; così facendo è possibile confrontare il PIL pro-capite tra i diversi Stati.
La metodologia forse non è perfetta, ma sicuramente è una delle migliori possibili per potere misurare e confrontare il PIL tra i diversi Paesi europei.

La Spagna, grazie alla spinta delle liberalizzazioni dei governi Aznar e non interrotte dal governo Zapatero, è riuscita ad imprimere una crescita economica molto importante, superiore al 3,5 per cento annuo. Il turismo e l’edilizia sono due motori essenziali della crescita del Paese e sono due settori che hanno permesso una notevole diminuzione della disoccupazione (oltre ad un mercato del lavoro flessibile).
Il paese iberico inoltre ha dimostrato come sia essenziale, in un contesto di competizione globale, saper fare il cosiddetto “sistema paese”: la vittoria nell’assegnazione delle Olimpiadi Barcelona 1992, la America’s Cup di Vela e l’Expo di Saragoza 2008 dimostrano la capacità degli spagnoli. Dietro l'affermazione "sistema Paese" non si deve però nascondere del dirigismo statale, bensì significa saper coinvolgere tutti gli stakeholder di un evento; infatti anche un'Olimpiade o un Mondiale di Calcio devono tenere conto di un'analisi preventiva costi - benefici...

Bisogna dire che non è tutto oro quello che luccica: la Spagna ha anche degli elementi di debolezza strutturale, quali una crescita economica molto legata all’edilizia, che pesa per più del 15 per cento dell’economia, una bassa propensione agli investimenti in ricerca e sviluppo (come l’Italia) e, a mio parere, la troppo stretta connessione tra il mondo bancario e l’industria.

La Spagna non è la “Terra Promessa”, ma sicuramente può insegnarci diverse cose. Le liberalizzazioni in Italia potrebbero aiutare a renderci più competitivi in un’economia sempre più globalizzata e potrebbero anche aiutarci ad incrementare il nostro PIL pro-capite a dei tassi simili a quelli europei.

Nei prossimi anni, se le previsioni saranno confermate, la Spagna ci supererà anche per quanto riguarda il PIL pro-capite.

sabato 15 dicembre 2007

Alitalia e la soluzione (all’) italiana

Il crollo in Borsa del titolo Alitalia non deve stupire, così come non deve stupire la continua invasione di campo dei politici.
La compagnia di bandiera italiana, se circa un anno fa, all’inizio della procedura di vendita, era una compagnia in stato comatoso, oggi è un vettore sull’orlo del fallimento.
Le disponibilità finanziarie a breve sono arrivate a circa 280 milioni di Euro, nel momento in cui continua a perdere circa 400 milioni di Euro l’anno; inoltre uno degli asset più importanti della compagnia aerea, gli aeromobili, hanno un’età media molto elevata, vicina ai 13 anni e quindi il valore della flotta è molto basso.
Gli unici asset importanti della compagnia, che peraltro non sono contabilizzati, sono gli slot nei principali aeroporti italiani. La compagnia ha inoltre 1,5 miliardi di debiti a medio lungo termine.
In questo contesto per nulla roseo si sta concludendo la vendita di Alitalia.

Il crollo del prezzo delle azioni è riferibile soprattutto alle indiscrezioni, non pienamente confermate da Alitalia, sulle offerte presentate dai due pretendenti in gara: AirFrance e Airone. L’offerta francese sembrerebbe valutare la compagnia circa mezzo miliardo di Euro, mentre l’offerta italiana valuterebbe il vettore di bandiera quasi zero. Da un punto di vista finanziario l’offerta più attraente sembrerebbe essere dunque quella del colosso europeo.
L’Amministratore Delegato Prato ha però ricordato, tramite un comunicato aziendale, che la vendita non sarà basata solo su dei contenuti finanziari, ma terrà in considerazione anche il contenuto industriale.

La seconda affermazione iniziale a questo punto si può meglio spiegare; i politici italiani hanno grande parte di responsabilità nell’aver portato la compagnia sull’orlo del fallimento. Per anni il vettore è stato visto come un giocattolo personale, senza contare che Alitalia era ed è una compagnia nel mercato europeo del trasporto aereo che aveva ed ha bisogno di un risanamento; così facendo negli ultimi nove anni la compagnia ha bruciato 3,3 miliardi di Euro (Vd. IBL Focus N°78).

Quasi ogni politico, di destra e di sinistra si sente un piccolo amministratore delegato della compagnia, quando l’unico azionista è il Ministro dell’Economia; solamente quest’ultimo dovrebbe avere l’ultima parola, insieme al Capo del Governo, Prodi.

La scelta di Prato, come amministratore delegato, nel mezzo di questa estate e dopo il fallimento della prima asta di vendita, ha dato un indicazione precisa: salvare la compagnia tramite la vendita. L’invasione di campo dei politici si è dunque spostata dalla gestione ordinaria della compagnia alla scelta dell’acquirente.

L’Amministratore Delegato dopo una valutazione durata tre mesi, sembra aver scelto la compagnia francese.
L’ultimo comunicato stampa di Alitalia del 14 Dicembre del corrente anno, ricalcando i punti principali del piano industriale presentato a Settembre, sembra dirlo quasi esplicitamente e risponde a tutti quei politici e ministri che si stanno spendendo per AirOne.

Alitalia afferma che il nuovo partner deve:

  • “migliorare la qualità dell’assetto della rete anche attraverso lo sviluppo di un hub che in prospettiva possa avvicinarsi per livelli dimensionali e numerosità delle connessioni ai principali scali europei”;
    La scelta è un solo hub, quello di Fiumicino, così come chiede AirFrance. La flotta di Alitalia infatti non permette di avere due hub, in quanto possiede solo 24 aerei a lungo raggio, contro i più di 150 del colosso francese.

  • “garantire alla Compagnia un modello di business ed una dimensione tale da poter essere attrice della competizione a livello globale;
    AirOne , pur supportato da grandi banche, produce ricavi per 610 milioni di Euro, inferiori alle perdite accumulate da Alitalia nel solo 2006 (626 Milioni di Euro). AirFrance sembra essere il solo operatore che può portare Alitalia a divenire parte di un business competitivo a livello globale. La quota di mercato in Europa della compagnia di bandiera italiana è di circa il 3 per cento, contro il 10 per cento di AirFrance e lo 0,7 per cento di AirOne (Vd. IBL Briefing Paper N°46). L’integrazione in Airone porterebbe a creare un campione nazionale con ben il 3,7 per cento della quota di mercato europea (non mondiale).

  • Portare “la generazione di importanti sinergie derivanti dall’integrazione dei network e delle strutture operative.”
    La francese AirFrance fa già parte della stessa alleanza di Alitalia, SkyTeam e una fusione tra le due compagnie porterebbe sicure sinergie; inoltre i network sono in parte già integrati. L’integrazione nell’italiana Airone potrebbe portare a delle possibili sinergie, ma porterebbe con sé anche il grande problema della riduzione della concorrenza sulle principali rotte domestiche, in particolar modo la Linate – Fiumicino.

In definitiva, il continuo procrastinare della scelta porta la Compagnia sempre più vicina al fallimento. In questa situazione così difficile, la minaccia dei sindacati di proclamare uno sciopero, vuole portare ad una soluzione tutta italiana, anzi all’italiana.

La paura di vendere all’invasore straniero è semplicemente la paura di perdere il controllo della compagnia sia da parte dei politici che da parte dei sindacati. Questi due attori sono gli stessi che hanno contribuito in maniera significativa ai 3,3 miliardi di Euro di perdite pagati dai cittadini - contribuenti italiani.

Se il Governo ha scelto questa estate un amministratore delegato “forte”, deve lasciare a Prato la decisione ultima di scelta del partner migliore per Alitalia.
Se così non fosse, lo stesso Governo perderebbe di credibilità…

Microsoft, la storia si ripete in farsa

Microsoft ebbe i suoi buoni guai con l'Antitrust americano, per il bundling di Internet Explorer all'interno del suo sistema operativo. Netscape, l'operatore che all'epoca faceva la parte del leone fra i software per accedere ad Internet, riteneva una seria minaccia competitiva il fatto che l'impresa di Redmond non solo lanciasse un proprio browser nel mercato, ma lo inserisse a pieno titolo all'interno di Windows.
Il procedimento è stato intenso e appassionante, ma il teorema dell'accusa si è un po' sfarinato, al cospetto dell'evoluzione dei mercati. Cioè (1) i competitori non sono del tutto spariti di piazza: anzi (e sono molto migliorati di qualità: parola di un fedele utilizzatore di Firefox); (2) l'intuizione di base di Microsoft era giusta. L'utilizzo di Internet non è "altro" dal nostro avere un Pc: è parte integrante di qualsiasi funzione noi si pretenda di svolgere con un computer. Pertanto, l'inserimento di un browser nel sistema operativo, che permetta di inserire la spina e navigare sul web, migliora - e di molto! - la vita dell'utente.
Ora le stesse accuse di dieci anni fa vengono riproposte, un po' fuori tempo massimo, da Opera.
La cosa più curiosa mi sembra essere la dichiarazione di Jon von Tetzchner, CEO di Opera Software:
Abbiamo presentato questo esposto a nome di tutti i consumatori che si sono stancati di avere un monopolista che fa scelte per loro. Oltre a promuovere la libertà di scelta dei singoli consumatori, siamo impegnati negli standard Web aperti e nell'innovazione cross-platform. Non ci riposeremo finché non avremo fornito giuste ed eque opzioni di scelta ai consumatori di tutto il mondo.
Ora, la distinzione consumatori-produttori è sicuramente porosa (ognuno è consumatore di qualche cosa, e produttore di qualcosa d'altro) ma che dica di portare avanti un esposto "a nome dei consumatori di tutto il mondo uniti" l'amministratore delegato di una delle imprese che trarrebbe beneficio dall'accoglimento delle sue proteste, va ben oltre qualsiasi soglia minima di pudore.
Quando parlavamo di queste cose, alcuni anni fa, tendevano a ricordare al lettore che dopotutto è meglio avere un software in più gratis che uno in meno. E' un po' difficile che dall'avere qualcosa di più a costo zero il consumatore si senta "danneggiato". Adesso credo che il problema non possa neppure porsi in questi termini: semplicemente, l'accesso a Internet noi lo pretendiamo dal nostro sistema operativo, noi compriamo un pc per accedere a Internet perbacco!, non è più un passatempo fra tanti. La questione vera è un'altra: sono o non sono i produttori liberi di definire che cos'è il prodotto che essi vendono? Cioè, posso io scarparo dire che la scarpa che intendo vendere "contiene" anche i lacci, o no? Posso io produttore di computer vendere il mio laptop assieme ad un sistema operativo, perché mi sembra che quello sia il modo più appropriato e migliore per presentarlo al consumatore e incontrarne il favore? Posso io produttore di sistema operativo valutare che nel mio OS deve starci un browser integrato, e non uno strip poker, perché penso che sia questo che il mio consumatore vuole e desidera?
Rispondiamo pure di no, ma consci che non stiamo facendo "politica della concorrenza" ma semplicemente rigettando l'economia di mercato tout court.

giovedì 13 dicembre 2007

Fumo negli occhi...

La corte Ue impone all'Ente Tabacchi Italiano 20 milioni di euro di multa per un «cartello» organizzato con il colosso americano Philip Morris per tenere «artificialmente alto» il prezzo delle sigarette.
Ora, consideriamo che:
Nei Paesi UE, il livello medio dell'imposizione per le sigarette è pari a circa il 75% del prezzo di vendita al pubblico, sulla base di quanto previsto dalla legislazione comunitaria.
Attualmente in Italia prezzo medio di vendita di un pacchetto di sigarette viene ripartito come segue:
- il 58,5% è costituito dall'accisa sul tabacco;
- il 16,7% è l'incidenza dell'IVA (che con aliquota ordinaria del 20% viene applicata sulla somma del margine ai produttori, dell'aggio ai rivenditori e sull'accisa);
- il 10% è il compenso (aggio) riconosciuto ai rivenditori (tabaccai);
- il 14,8% è il margine riconosciuto al produttore. (fonte: Bat Italia)

Più di tre quarti del prezzo di un pacchetto sono costituiti da tasse, fortemente caldeggiate dall'Unione Europea: in ogni pacchetto da venti, quindici le paghiamo allo stato, e solo cinque a produttori e distributori...
Crediamo davvero che l'Ue stia dalla parte del consumatore, ed abbia qualche titolo per condannare il perfido cartello del tabacco che cerca di alzare il prezzo delle sigarette?

mercoledì 12 dicembre 2007

Taxi a Roma: aumenta l’offerta, aumentano le tariffe.

In un mondo retto dalle regole del libero scambio – ad un aumento dell'offerta segue un abbattimento dei prezzi, in quanto più produttori concorrono per soddisfare le esigenze dei consumatori. Non è così nella bella capitale, dove Veltroni annuncia esultante l'accordo raggiunto con i sindacati per l'aumento delle licenze a disposizione. In una città paradossale che è stata, un paio di settimane, fa bloccata da un (non annunciato) sciopero incrociato degli operatori dei call centers delle cooperative dei taxi (che giustamente lamentavano la carenza di veicoli) e dei tassinari (in protesta contro la regolarizzazione di 500 ulteriori licenze), appare normale che, all'aumentare delle macchine in circolazione aumentino anche i prezzi. Ieri, la giunta comunale ha approvato il risultato dell'intesa, che prevede 250 nuove licenze entro il giugno del 2008 e
altrettante nello stesso mese del 2009, e, contestualmente si è approvato un adeguamento delle tariffe pari al 18% in più. Con buona pace del consumatore, che sperava di guadagnar qualcosa dalla bersanata – chiamarla liberalizzazione è fuorviante – dei taxi, gli interessi concentrati prevalgono sempre su quelli diffusi…

martedì 11 dicembre 2007

Dutch do it worse

Anche gli olandesi si propongono di sostituire, almeno parzialmente, la tassa sulla proprietà dei veicoli con un’imposta basata sull’utilizzo delle strade, calcolando le distanze percorse attraverso i sistemi satellitari. Peccato che abbiano preannunciato di impostarla in base a criteri progressivi determinati dal potere inquinante della vettura...

British do it better

Mentre da noi si continuano a sfornare proposte inefficienti e fuorvianti, ed a prendere per i fiaschi del congestion charge i fischi del pollution charge, ecco un progetto di road pricing come Dio comanda. Perché, se la strada è una risorsa scarsa, qualcuno dovrà pur mettere mano al portafogli. Ma per pagare un prezzo: e non l'ennesimo balzello.

martedì 4 dicembre 2007

Compensi di Stato e affini

Negli ultimi giorni si è discusso circa il compenso dell’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato. Durante il programma televisivo Ballarò, andato in onda martedì 27 Novembre, è stato affermato che il compenso annuo dell'A.D. ammonterebbe a 2,6 milioni di Euro l’anno. Questa cifra credo non sia quella corretta: in realtà la stima fatta da Sandro Iacometti su Libero Mercato mi sembra più attendibile. In un suo ottimo articolo sulle Ferrovie dello Stato dello scorso novembre il compenso di Moretti è stimato essere di circa 1,1 milioni di Euro.

Questa cifra è frutto di una stima perché dati certi non esistono.
I bilanci della società pubblica riportano i compensi totali per gli Amministratori nell’anno 2006. Lo scorso anno gli stipendi per gli amministratori ammontavano a 10,085 milioni di Euro. Bisogna tuttavia tenere conto della liquidazione data al precedente amministratore delegato Catania di FS, che varia tra 6,7 e 7,8 milioni di Euro. Non è possibile sapere precisamente i soldi percepiti dall’ex A.D. per la cessazione dell’incarico poiché vigeva una clausola di riservatezza nel contratto.
Sottraendo dunque ai compensi 2006 la liquidazione di Catania risulta che i compensi per gli amministratori non sono diminuiti rispetto al 2005, poiché l’incremento di questa voce di costo è di 7,841 milioni di Euro (pari alla stima massima della liquidazione di Catania).

Nell’ultimo periodo dell’anno, da quando l’amministratore delegato è diventato Moretti, i costi per i compensi ad amministratori non sembrano essere dunque variati; non sembra esserci una discontinuità.
Nei conti, è necessario aggiungere altre spese per i compensi agli organi sociali per 4,6 milioni di Euro.

I dati relativi al compenso dell’amministratore delegato della società controllata dal Tesoro, sono purtroppo stime; infatti i compensi per singolo amministratore non sono facilmente reperibili. Questo potrebbe rispondere all’esigenza di salvaguardare la privacy dell’amministratore delegato, ma essendo la società Ferrovie dello Stato pubblica, sarebbe quantomeno corretto avere i dati precisi sui compensi elargiti agli amministratori.
Bisogna infatti ricordare che i soldi versati alle FS ogni anno da ciascun italiano, anche se non fruitore del servizio ferroviario, , ammontano a circa 75 Euro (media ultimi 9 anni).

La trasparenza potrebbe giovare alla compagnia stessa, in un momento in cui vengono richiesti maggiori contributi da parte dello Stato e al contempo si aumentano le tariffe dei servizi ferroviari.

Il capitolo spese nel bilancio delle Ferrovie dello Stato S.p.A. è composto da altre voci alquanto particolari; siccome circa 4,7 miliardi di Euro di spese per il personale non sono pochi, vengono aggiunti altri 19 milioni per i servizi di consulenza. Evidentemente i 98 mila dipendenti di FS non sono in grado di svolgere tutti i lavori…
I costi operativi superano di 3 miliardi i ricavi delle vendite, ma Ferrovie dello Stato trova 15,5 milioni di Euro da dispensare come contributi ad enti vari e quote associative.

L’impresa gode di una posizione dominante derivante dalla situazione di monopolio legale. La liberalizzazione reale dei servizi ferroviari sarebbe sicuramente la giusta medicina agli sprechi dovuti alle inefficienze.
Manca solo la volontà politica…

domenica 25 novembre 2007

Fine del terzismo riformista?

Sul Corriere della sera, Mario Monti giustamente plaude al coraggio di Sarkozy nell'affrontare i sindacati, e si compiace del fatto che il Presidente francese disponga di robuste riserve di consenso, pure dopo una serie davvero estenuante di proteste.
L'articolo di Monti (che in passato aveva pure criticato Sarkozy, per il suo approccio protezionista alle politiche commerciali) è interessante perché tradisce un distacco dall'aplomb tecnocratico dell'ex Commissario europeo. Monti, per due anni buoni, è andato proponendo anche per l'Italia soluzioni di "grande coalizione": in base alla bizzarra idea che un governo composto da esponenti di destra e sinistra assieme, potesse permettere alle forze politiche di condividere, pagandolo tutti assieme, il costo in termini di consenso delle riforme.
Ora Monti applaude Sarkozy che accetta un "contributo" dagli avversari, ma non cerca l'inciucio. Che è successo? Avanzo tre ipotesi:
(1) I tecnocrati riscoprono il fascino dell'uomo forte. Del resto, non è più piacevole e comodo fare il "consigliere del principe" di un principe che sa farsi rispettare?
(2) Lo scarso successo (da un punto di vista liberale) dell'esperienza tedesca suggerisce che i comportamenti degli attori della "grande coalizione" sono opportunistici: non è che si riforma con decisione per dividersi il prezzo da pagare, ma ognuno cerca di evitare che lo scotto delle riforme sia pagato dal suo elettorato, in modo che paghino gli altri. Da questo punto di vista, la coalizione che regge il governo Prodi è "grande abbastanza" da fornirci un'anteprima di come funzionerebbe una "grande coalizione"...
(3) Monti crede che l'azione di Sarkozy dimostri comunque che "nessun Paese è irriformabile", il che apre una speranza per l'Italia ma fino a un certo punto, guardando le facce dei nostri rappresentanti. E comunque rende chiaro che non è mettendo assieme due coalizioni illiberali, che si può ottenere un governo liberista.

ps: Monti dice per inciso che la sua "grande coalizione", "sul piano della pedagogia", Sarkozy ce l'avrebbe già. Ma più che un'osservazione, pare un vezzo.

venerdì 23 novembre 2007

Alitalia: le responsabilità di una privatizzazione troppo lenta

Vendere una compagnia in “stato comatoso”, come lo stesso Amministratore Delegato Prato definisce Alitalia, non è sicuramente semplice; tuttavia 12 mesi per scegliere il futuro proprietario sono decisamente troppi.

Il vettore italiano, tre giorni fa, ha comunicato che “la riunione del CdA per individuare il soggetto con cui avviare il negoziato in esclusiva possa tenersi entro la metà di Dicembre”; il processo di vendita è cominciato pochi giorni dopo il Natale 2006 e nel frattempo Alitalia avrà perso altri 400 milioni di Euro circa, secondo le stesse previsioni della compagnia.

Dopo avere bruciato almeno 3 miliardi di Euro negli ultimi 9 anni, un processo di vendita più veloce era quantomeno auspicabile (Vd. IBL Focus N°78).

La responsabilità della lentezza della privatizzazione è totalmente del primo azionista della compagnia, lo stesso sulla cui coscienza grava la responsabilità delle perdite accumulate.
In generale la responsabilità è della classe politica che crede di poter utilizzare Alitalia per interessi propri.
Le continue invasioni di campo dei diversi Ministri, Presidenti Regionali, Provinciali e Sindaci hanno ulteriormente rallentato il processo di vendita già penalizzato nell’asta indetta a fine dello scorso anno da clausole assurde, tra le quali le diverse clausole di salvaguardia.
Salvaguardare significa voler mantenere la situazione antecedente alla privatizzazione, cosa che sicuramente, nel caso del vettore di bandiera, non è il massimo dal punto di vista del cittadino contribuente italiano.

La difficile situazione di Alitalia è dunque molto grave per l’intero paese; più grave ancora è voler estendere le difficoltà del vettore a tutto il sistema del trasporto aereo nazionale.
La riforma del ministro Bianchi va in questa direzione; per cercare di salvare la compagnia aerea di bandiera con mezzi diversi da quelli del mercato, penalizza l’intero mercato (Vd. IBL Briefing Paper N°43)
La limitazione della concorrenza causerebbe delle perdite superiori ai 3 miliardi di Euro persi da Alitalia.
La perdita netta per l’intero territorio italiano sarebbe pesantissimo: di questo bisognerebbe tenere in considerazione quando si fanno le leggi.

Non estendiamo la crisi Alitalia all’intero paese, s’il vous plait (Vd. IBL Focus N°69).

giovedì 22 novembre 2007

Ricordando Bruno Leoni

A quarant'anni dalla scomparsa di Bruno Leoni (1967-2007), l'IBL organizza un importante convegno a Moncalieri, la prossima settimana.
Sul Sole 24 Ore, Salvatore Carrubba ha scritto un interessante articolo in ricordo di Leoni. Lo stesso Sole ha pubblicato ampi stralci di uno degli editoriali leoniani inclusi in un volume di prossima uscita nella collana "Mercato, diritto e libertà". E' un micro-saggio bellissimo.

ps: per inciso, nel pezzo di Carrubba, che giustamente rammenta le condizioni di assoluta ostilità nella quale intellettuali come Leoni si dovevano muovere, in Italia, manca solo un tassello, che però mi sembra di importanza non indifferente. Cioè, un'analisi più che della sordità e del provincialismo della cultura italiana in generale, un'analisi della sordità e del provincialismo della cultura liberale in particolare. E' interessante notare - come fa Carrubba - che al momento della sua morte era tutt'altro che alla periferia dei dibattiti intellettuali. Della sua "rimozione", e in generale della marginalizzazione del liberalismo liberista che ha avuto per tanti anni dopo la morte di Leoni pressoché un solo campione (Sergio Ricossa), gli intellettuali "amici" e "liberali", costantemente tentati dallo statalismo, hanno qualche responsabilità o no?

domenica 18 novembre 2007

Class action, il frutto bacato della "spallata"

La spallata non c'è stata, in compenso il senatore Antonione ha votato a favore dell'emendamento Manzione che introduce la class action in Italia. Che c'azzecchi, la class action, con la Finanziaria non è dato sapere: ma siamo in un Paese che non è certo tirchio, quanto a "miracoli politici".
Silvio Boccalatte ha scritto una bella analisi dell'emendamento Manzione, mentre qui è possibile leggere un interessante articolo del Foglio - che riporta l'opinione di Boccalatte e quella di Alessandro De Nicola. Per un "second look" alla class action negli States, c'è invece questo illuminante paper di Richard Epstein.

mercoledì 14 novembre 2007

Alitalia e la regola del "meno voli, meno perdi"

I conti Alitalia sembrerebbero migliorare nel terzo trimestre dell’anno. Le perdite operative sono state di “soli” 19 milioni di Euro nel periodo, in miglioramento rispetto ai 42 dell’anno precedente.
La perdita netta prima dalle tasse nel terzo trimestre passa da 66 a 58 milioni di Euro; inoltre le entrate sono in aumento passando dai 1254 milioni di Euro del 2006 ai 1267 milioni di Euro del 2007 (+13 milioni di Euro).

Questi dati potrebbero far pensare ad un lento procedere verso un risanamento dell’azienda, ma andando a fare una prima analisi dei conti risultano chiari alcuni aspetti:

  • Le entrate dei passeggeri sono diminuite del 2,2 per cento, mentre sono aumentate le entrate alla vendita di opzioni di carburante (circa 50 milioni di Euro). Sembra che Alitalia abbia fatto cassa in un periodo nel quale il petrolio incrementa il suo valore. In generale le entrate dai passeggeri sono diminuite del 5 per cento, comparando il terzo trimestre 2007 con quello 2006.
  • Il load factor, già tra i più bassi tra le compagnie aeree europee è diminuito dello 0,2 per cento.
  • I costi del carburante sono diminuiti, grazie al rafforzamento dell’Euro contro il Dollaro ed in parte grazie al fatto che la compagnia italiana abbia volato di meno. Vale quindi per Alitalia la regola “meno voli, meno perdi”.
  • Gli altri costi, escluso quindi il carburante, sono aumentati di 12 milioni di Euro, tra i quali i costi del personale (+8 milioni di Euro, qui non vale la regola del “meno voli, meno perdi”) e gli altri costi operativi (+3 milioni di Euro).
  • Un dato molto interessante è l’incremento della produttività dei piloti, in particolari di quelli di Alitalia Express. Questa parte della compagnia di bandiera è quella che subirà a partire dal prossimo Marzo 2008 gli effetti maggiori del piano industriale con il ridimensionamento di Milano Malpensa. Il vettore afferma che l’incremento dell’11 per cento di produttività dei piloti Alitalia Express è “anche dovuto alla diminuzione del livello di assenteismo”.

In definitiva non credo si possa parlare di miglioramento dei conti, in quanto le maggiori entrate non sono dovute ad un miglioramento del core business aziendale, anzi si rileva uno yield in diminuzione di più del 5 per cento; i costi inoltre sono destinati ad aumentare, in quanto l’aumento del prezzo del carburante si farà sentire nei prossimi mesi (VD. IBL FOCUS N°78).

La concorrenza delle compagnie low cost continua a crescere e la compagnia di bandiera non riesce ad essere competitiva.
La stessa Alitalia ammette che la perdita per il 2007 sarà pari a quella del 2006 e quindi non è previsto alcun miglioramento (IBL – BRIEFING PAPER N°46).

L’ultimo trimestre dell’anno si prevede dunque molto difficile per la compagnia di bandiera, anche perché il quarto trimestre è un periodo dove i ricavi sono inferiori per i vettori aerei, in quanto il load factor decresce.

La liquidità è scesa a fine settembre sotto i 300 milioni di Euro e difficilmente a fine dell’inverno sarà ancora presente, in quanto nello stesso periodo dello scorso anno sono state presenti perdite nette prima delle tasse di circa 250 milioni di Euro.

La compagnia ha oramai solo una via d’uscita all’esito scontato del fallimento che attuerebbe la regola “meno voli, meno perdi”: la privatizzazione con la necessaria ristrutturazione della compagnia e la contemporanea ricapitalizzazione.

lunedì 12 novembre 2007

Stadio di Polizia

I tristi episodi di cronaca di questi giorni rendono nuovamente attuale un bel focus IBL sulla violenza negli stadi: mentre tutti si indignano e minacciano sospensione del campionato (mogli e fidanzate d’Italia, non esultate, non lo faranno mai) o sanzioni irrealisticamente pesanti, paragonando gli ultrà ai terroristi, potremmo provare a chiederci se il mercato non possa risolvere un problema che la politica rende solo più complesso. Per leggere il focus, clicca qui.

domenica 11 novembre 2007

Liberalizzare sciué-sciué: associazioni di consumatori e corporativismo

Da noisefromamerika, segnalo questo interessante sfogo di Michele Boldrin, su bersanate e portabilità dei mutui. L'elemento più interessante mi pare essere l'esplicita equiparazione di associazioni di consumatori, e sindacati:
In Italia pensano ancora di ridurre i costi e fare la concorrenza a botte di trattative sindacali. Dove vivono? Neanche in Francia, oramai, si sentono proporre queste cose! L'assurdo viene raggiunto con l'auto-proclamazione di queste "associazioni di consumatori" che rappresenterebbero tutti noi al tavolo delle trattative! Si rendono conto della follia? Soprattutto, si rendono conto che la pura esistenza dell'associazione consumatori che va a fare la trattativa con i sindacati dei banchieri e dei notai legittima, giustifica e consolida l'esistenza di lobbies anticompetitive come, appunto, l'ABI ed il Consiglio del Notariato?

I sindacati di consumatori giustificano le corporazioni, nota Boldrin, e gli uni e gli altri sono il riflesso della cultura ancora dominante qui da noi. Che è più forte di quanto sembra: non solo non viene archiviata la concertazione con le parti sociali, ma si moltiplica il numero di parti sociali con cui concertare. Questo fatto di per sè dice che non stiamo de-politicizzando mercati (il che sarebbe l'ovvio corollario di una liberalizzazione): consumatori e produttori, lasciati liberi, non "concertano", scambiano. Del resto, perché la classe politica dovrebbe - in assenza di una autentica e forte pressione sociale a muoversi in quel senso - ridurre l'ambito della vita economica su cui ha potere? Preferisce dissimulare (travestire operazioni in cui "detta" i prezzi come liberazzazioni), ridefinire il proprio ruolo (fare sponda coi consumatori, e non coi "lavoratori"), giocare con le parole, che lasciare il banco.
Boldrin chiude il suo articolo chiedendosi dove sia l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (i cui componenti sono spesso ex politici o aspiranti politici, comunque nominati da altri politici), e qui la risposta è complessa. L'Antitrust fa anche cose utili e giuste, ma investe molto tempo e capitale di reputazione nel fare da grancassa proprio alle associazioni di consumatori. Bisogna capirli: piace a tutti, essere applauditi.

venerdì 9 novembre 2007

Privatizziamo la Rai (e Biagi non sarà vissuto invano)

Criticare i defunti non è certo elegante, men che meno quando si tratti di mostri sacri. Se a ciò aggiungiamo che viviamo nel paese del buonismo, è evidente come non si potrebbe sostenere, ad esempio, che gli articoli di Enzo Biagi fossero irrimediabilmente sciatti senza essere tacciati di blasfemia.

Sarebbe però forse il caso di trarre qualche insegnamento dalla vicenda dell'allontanamento dalla Rai dell'illustre pianacciano, vicenda che suscita tuttora veementi passioni - come testimonia il fatto che un uomo posato come Ersilio Tonini, certo toccato dalla perdita dell'amico Biagi, si sia prestato ad arringare il pubblico di Santoro come un Travaglio qualsiasi.

In primo luogo, è il caso Biagi un caso di censura? Non si direbbe. Biagi è stato legittimamente sostituito dal suo editore, ed ha continuato a dispensare la sua saggezza dalle pagine del primo quotidiano nazionale. Certo, si dà il caso che l'editore della Rai sia il Parlamento: ma così è sempre stato, e di ciò Biagi non si è dispiaciuto quando ha messo piede a Viale Mazzini nel 1961, né per tutto il tempo in cui ci è rimasto, e men che meno quando quello stesso editore gli ha assegnato la conduzione de "Il fatto".

Il problema, insomma, sta a monte: nelle relazioni pericolose tra politica ed informazione che la natura pubblica della Rai perpetua, e nell'illusione che il controllo dei partiti sia garanzia di pluralismo e, dunque, di obiettività. Se l'imparzialità sia di questo mondo, non ci è dato sapere, ma che essa equivalga alla giustapposizione di diverse faziosità appare altamente improbabile.

Se mai fossero esistite giustificazioni d'ordine tecnico per l'esistenza di una televisione pubblica, esse sono state senz'altro rimosse dall'innovazione di questi decenni. L'unica soluzione credibile a tale stallo è dunque la pronta privatizzazione della TV di stato, per risolvere questa paradigmatica tragedy of the commons con la sostituzione della concorrenza dei punti vista ad un (mica tanto) asettico pensiero unico.

Cosicché ciascuno si possa scegliere (e pagare) i propri Biagi, e l'acrimonioso dibattito possa essere cancellato con un colpo di telecomando.

Contrordine compagni: giù le mani dal Dr. House!

Pare che l'endorsement delle idee di Moore da parte del medico più amato della TV fosse solo una bufala. Pare che, nel sesto episodio della quarta stagione, House stesse, ancora una volta, cercando di indisporre la Cuddy, suo superiore, prescrivendo "cure costose per tutti". Pare che l'affermazione fosse ironica - cosa assolutamente in linea con il personaggio - ed il Dr. House stesse in realtà scimmiottando, sbeffeggiando Sicko. Pare che quelli di via Solferino abbiano deciso di interpretare una frase fuori dal contesto. Così pare... cliccando in basso, il frammento (assolutamente spoiler-free) dell'episodio... decidete voi.

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martedì 6 novembre 2007

In difesa del Dr. House (e dei suoi colleghi)

Ok, ha detto che ha ragione Michael Moore. Ma l’hanno costretto, il Dr. House non lo pensa davvero: si sa che lo star system americano non è esattamente libertarian

Gregory House deve rimanere un’icona liberale. In un mondo in cui la regolamentazione invade sempre più ogni sfera della nostra vita, in cui il sistema sanitario non è di certo immune, e persino quello americano (che Mankiw ci ricorda non essere poi così estremista) è sommerso di linee guida, permessi, protocolli (si veda il bel focus di Pitts sull’Evidence Based Medicine). Il burbero Dr. House ci mostra come quella che è da molti intesa come una scienza esatta è in realtà lavoro di deduzione, basata sul ragionamento, sul calcolo di rischi e benefici per ogni caso specifico, per ogni singolo paziente. Ci ricorda che sono i medici a salvare i pazienti, e non protocolli basati su statistiche ed imposti da burocrati governativi.
Ancora, House in realtà non è abilitato a fare il medico: ma è un medico eccezionale. Dovrebbe farci riflettere sul valore legale dei titoli, sulle abilitazioni e sulle trafile amministrative che dovrebbero garantirci che solo i migliori vestano un camice bianco e ci somministrino le cure, mentre servono solo ad ergere barriere protezionistiche intorno a chi lavora già nel settore. In un sistema sanitario socializzato come quelli europei, le eccezionali capacità mediche di House verrebbero sprecate: invece di potersi permettere di “prescrivere cure costose per tutti”, in un sistema come quello auspicato da Moore House non potrebbe neanche fare l’infermiere. Ma un ospedale privato può assumerlo come consulente: è il mercato che riesce sempre a riallocare al meglio le risorse.

In questo momento, le serie tv più amate sono due serie mediche, tutte ambientate in ospedali americani. Ci mostrano un’efficienza, o semplicemente delle strutture, che di certo non rispecchiano le aspettative di un cittadino italiano medio che, per sua sfortuna, si avvicini ad un ospedale. Eppure, questi telefilm ci mostrano un’umanità variegata per ceto, storia, etnia mentre richiede cure di ogni genere. Non solo i ricchi-ricchissimi accedono ai servizi sanitari, come gente della schiatta di Moore vorrebbe farci credere: è il cittadino medio a farsi curare dal Dr. House o dai medici di Grey’s Anatomy.

Quest’ultima è la serie medica che più si occupa dell’aspetto amministrativo-economico della vita ospedaliera in un sistema sanitario così diverso dal nostro (a cominciare dai protagonisti, tirocinanti che si fanno ogni sorta di sgambetto per lavorare di più). Tutto è concentrato intorno al prestigio: per il buon nome dell’ospedale, il Capo fa di tutto per accaparrarsi i medici più affermati, quelli con le migliori credenziali ed i migliori risultati. Come primario, deve fare scelte economiche per assicurare questo prestigio, scegliendo, ad esempio se destinare fondi ad una maggiore specializzazione (nuovi macchinari) o maggiore incentivazione dell’assistenza di base (aumentare lo stipendio delle infermiere – non chiedetemi come va a finire ;-P !). Talvolta, alcuni interventi sono troppo costosi, o i pazienti non sono coperti: si vede come i vari medici cercano di trovare una soluzione che riduca i costi, come i casi più gravi vengano sovvenzionati dall’ospedale stesso, ancora una volta perché ne aumenteranno il prestigio, e come talvolta debba intervenire la generosità di donatori privati. Infine, per migliorare la qualità dell’ospedale, nell’ultima serie viene aperta una clinica gratuita “per i bisognosi ed i non assicurati”. Milioni di persone che muoiono senza cure, secondo Sicko. È buffo che, nella puntata in cui viene inaugurata, il vero problema è quello di trovare pazienti, tanto che due dei tirocinanti vengono mandati a “rubarli” dalla clinica vera.

Va bene, si tratta di fiction e non di documentari, non possiamo prenderli come prove della realtà: ma se tanta gente li guarda devono essere quantomeno verosimili, no?

lunedì 5 novembre 2007

Leggi questo, Dr House!

E' notizia di oggi che persino il Dr House, personaggio ruvido e politicamente scorretto, si lancia contro la sanità americana, apparentemente "mercatista". In un episodio della quarta stagione, il medico prescriverebbe "cure costose per tutte", proclamando che "aveva ragione Michael Moore". E' curioso che l'icona televisiva condisca la sua filippica con un "Fight the power": curioso perché non si capisce bene da che punto di vista "combatta il potere", chi propone un vistoso ampliamento della sfera d'influenza di quel potere medesimo, sulla salute dei cittadini.
Senza nulla togliere a fiction e film, consiglieremmo al Dr House la letteratura del bellissimo articolo di Greg Mankiw uscito oggi sul "New York Times". Mankiw spiega perché gli americani non devono "farsi spaventare dalle statistiche sulla salute". Il suo ragionamento collima con quanto ha spiegato Grace-Marie Turner in un utile "Occasional Paper" dell'Istituto Bruno Leoni.
Segue copiaincolla dell'articolo di Mankiw. Speriamo lo legga anche il Dr House.

STATEMENT 1 The United States has lower life expectancy and higher infant mortality than Canada, which has national health insurance.

The differences between the neighbors are indeed significant. Life expectancy at birth is 2.6 years greater for Canadian men than for American men, and 2.3 years greater for Canadian women than American women. Infant mortality in the United States is 6.8 per 1,000 live births, versus 5.3 in Canada.

These facts are often taken as evidence for the inadequacy of the American health system. But a recent study by June and Dave O’Neill, economists at Baruch College, from which these numbers come, shows that the difference in health outcomes has more to do with broader social forces.

For example, Americans are more likely than Canadians to die by accident or by homicide. For men in their 20s, mortality rates are more than 50 percent higher in the United States than in Canada, but the O’Neills show that accidents and homicides account for most of that gap. Maybe these differences have lessons for traffic laws and gun control, but they teach us nothing about our system of health care.

Americans are also more likely to be obese, leading to heart disease and other medical problems. Among Americans, 31 percent of men and 33 percent of women have a body mass index of at least 30, a definition of obesity, versus 17 percent of men and 19 percent of women in Canada. Japan, which has the longest life expectancy among major nations, has obesity rates of about 3 percent.

The causes of American obesity are not fully understood, but they involve lifestyle choices we make every day, as well as our system of food delivery. Research by the Harvard economists David Cutler, Ed Glaeser and Jesse Shapiro concludes that America’s growing obesity problem is largely attributable to our economy’s ability to supply high-calorie foods cheaply. Lower prices increase food consumption, sometimes beyond the point of optimal health.

Infant mortality rates also reflect broader social trends, including the prevalence of infants with low birth weight. The health system in the United States gives low birth-weight babies slightly better survival chances than does Canada’s, but the more pronounced difference is the frequency of these cases. In the United States, 7.5 percent of babies are born weighing less than 2,500 grams (about 5.5 pounds), compared with 5.7 percent in Canada. In both nations, these infants have more than 10 times the mortality rate of larger babies. Low birth weights are in turn correlated with teenage motherhood. (One theory is that a teenage mother is still growing and thus competing with the fetus for nutrients.) The rate of teenage motherhood, according to the O’Neill study, is almost three times higher in the United States than it is in Canada.

Whatever its merits, a Canadian-style system of national health insurance is unlikely to change the sexual mores of American youth

The bottom line is that many statistics on health outcomes say little about our system of health care.

STATEMENT 2 Some 47 million Americans do not have health insurance.

This number from the Census Bureau is often cited as evidence that the health system is failing for many American families. Yet by masking tremendous heterogeneity in personal circumstances, the figure exaggerates the magnitude of the problem.

To start with, the 47 million includes about 10 million residents who are not American citizens. Many are illegal immigrants. Even if we had national health insurance, they would probably not be covered.

The number also fails to take full account of Medicaid, the government’s health program for the poor. For instance, it counts millions of the poor who are eligible for Medicaid but have not yet applied. These individuals, who are healthier, on average, than those who are enrolled, could always apply if they ever needed significant medical care. They are uninsured in name only.

The 47 million also includes many who could buy insurance but haven’t. The Census Bureau reports that 18 million of the uninsured have annual household income of more than $50,000, which puts them in the top half of the income distribution. About a quarter of the uninsured have been offered employer-provided insurance but declined coverage.

Of course, millions of Americans have trouble getting health insurance. But they number far less than 47 million, and they make up only a few percent of the population of 300 million.

Any reform should carefully focus on this group to avoid disrupting the vast majority for whom the system is working. We do not nationalize an industry simply because a small percentage of the work force is unemployed. Similarly, we should be wary of sweeping reforms of our health system if they are motivated by the fact that a small percentage of the population is uninsured.

STATEMENT 3 Health costs are eating up an ever increasing share of American incomes.

In 1950, about 5 percent of United States national income was spent on health care, including both private and public health spending. Today the share is about 16 percent. Many pundits regard the increasing cost as evidence that the system is too expensive.

But increasing expenditures could just as well be a symptom of success. The reason that we spend more than our grandparents did is not waste, fraud and abuse, but advances in medical technology and growth in incomes. Science has consistently found new ways to extend and improve our lives. Wonderful as they are, they do not come cheap.

Fortunately, our incomes are growing, and it makes sense to spend this growing prosperity on better health. The rationality of this phenomenon is stressed in a recent article by the economists Charles I. Jones of the University of California, Berkeley, and Robert E. Hall of Stanford. They ask, “As we grow older and richer, which is more valuable: a third car, yet another television, more clothing — or an extra year of life?”

Mr. Hall and Mr. Jones forecast that the share of income devoted to health care will top 30 percent by 2050. But in their model, this is not a problem: It is the modern form of progress.

Even if the rise in health care spending turns out to be less than they forecast, it is important to get reform right. Our health care system is not perfect, but it has been a major source of advances in our standard of living, and it will be a large share of the economy we bequeath to our children.

As we look at reform plans, we should be careful not to be fooled by statistics into thinking that the problems we face are worse than they really are.

venerdì 2 novembre 2007

Il liberismo è di sinistra

Un piccolo spot. Il nuovo libro dell'Istituto Bruno Leoni, "Libertà e proprietà" (104 pp., € 10), ruota attorno a un formidabile e leggibilissimo saggio di Ludwig von Mises.
In "Libertà e proprietà", l'esemplare lucidità di Mises ci consegna una sintetica e persuasiva dimostrazione del perché il liberismo sarebbe "di sinistra", cioé, fuor di metafora, il sistema capitalistico si riveli il più attento agli umili (fra parentesi, ieri sera ad "Annozero" l'ex ministro Giulio Tremonti ha negato che sia effettivamente questo il caso - come invece sostenevano in diverso modo, e con argomenti di ben altro spessore, sia Alessandro De Nicola sia Federico Rampini).

Nel capitalismo, la proprietà privata dei fattori di produzione ha una funzione sociale. Gli imprenditori, i capitalisti e i proprietari terrieri sono dei delegati dei consumatori; e il loro mandato è revocabile. Per essere ricco, non è sufficiente avere risparmiato e accumulato il capitale una volta. È necessario investirlo ripetutamente in quelle produzioni che meglio soddisfano i bisogni dei consumatori.


Questo testo è una strepitosa introduzione alle idee di libertà. Da leggere e da diffondere. Per difendersi dai tremontismi di destra e di sinistra.

giovedì 1 novembre 2007

Class Action all'italiana

L’emendamento Bordon-Manzione introduce in Finanziaria la class action, strumento legale tipicamente americano, e che già riceve numerose critiche in patria. La class action mantiene una certa allure ideologica: tanti piccoli Davide si uniscono e sconfiggono Golia. Ma farà davvero bene ai consumatori la possibilità di agire in sede legale per chiedere un risarcimento "di classe"? (e dimenticate i tempi in cui a classe associavate le lotte marxiste: ora si fa "classe" acquistando un frullatore difettoso!) L'esito dell'azione si riduce spessissimo a cifre irrisorie per il singolo consumatore - molto meno irrisorie per lo studio legale che porta ha difeso la classe, per nulla irrisorie per le aziende convocate in giudizio. Le spese legali, insieme ai maggiori costi in controlli qualità, impatterano sull'efficienza produttiva delle imprese, aumentando il prezzo dei beni sul mercato, e di conseguenza meno consumatori potranno permettersi frullatori. Siamo sicuri di volerlo? In un contesto come quello europeo, poi, in cui la regolamentazione è soffocante, e dove sono già previsti due anni di garanzia obbligatoria per qualsiasi prodotto venduto? Certo, non tutte le azioni di classe (ma quasi) si riducono a chiedere risarcimenti per frullatori difettosi. Ma la class action ha senso in un sistema giuridico come quello americano, in cui non vi è la cosiddetta english rule, cioè non è previsto che chi perde una causa debba sobbarcarsi anche le spese legali dell'altra parte - cosa che avviene in Italia. In questo sistema la class action riequilibra l'accesso alla giustizia per le small claim, quelle cause di poca entità la cui vittoria non coprirebbe le spese legali, che da noi più facilmente rientrano - e sovraccaricano - il sistema giurisdizionale. Va bene il "tu vuò fa l'americano", ma dobbiamo proprio scimmiottare un istituto che non c'entra nulla con l'economia del nostro sistema giuridico, che aggrava ancora il nostro sistema produttivo, e che aggiunge così poco al benessere dei consumatori?

Trasporto Aereo: perché la Francia non può essere un esempio.

La settimana che si sta concludendo non è stata facile per il trasporto aereo francese. Dal 25 ottobre al 29 ottobre lo sciopero del personale di bordo di AirFrance ha messo in grave difficoltà la prima compagnia europea. Una prima stima dei danni subiti porta a delle cifre considerevoli: 60 milioni di Euro dovuti al mancato trasporto dei clienti.

Un bel articolo di Fabrice Gliszczynski, su “La Tribune”, analizza perfettamente le cause del malessere che hanno portato a questo sciopero. L'astensione al lavoro, in definitiva, è servito a ben poco, tanto che le trattative tra direzione e sindacati sono ripartite laddove si erano fermate.

Il campione nazionale francese conta più di 100 mila dipendenti ed è, caso non unico francese, molto tenuto in considerazione dal governo della Republique. Negli ultimi anni, il mercato aereo francese è quello che si è sviluppato meno in Europa a causa della forte protezione degli interessi del vettore di bandiera (Vd. IBL Focus N° 69). La difesa degli interessi del “champion national”, se da un lato ha fatto si che AirFrance abbia avuto dei conti positivi negli ultimi anni, ha tuttavia distorto e non ha permesso uno sviluppo compiuto del mercato del trasporto aereo francese.
In definitiva, la perdita netta per i consumatori è molto elevata.

La compagnia francese versa in una situazione molto diversa dal nostro vettore di bandiera che probabilmente si accinge ad acquistare.
L’EBITDA nel primo trimestre contabile è stato positivo per più di 400 milioni di Euro; i ricavi di un trimestre di AirFrance hanno superato i ricavi annuali di Alitalia.
Sono importanti da rimarcare dei possibili punti di debolezza nella probabile, ma non certa fusione tra le due compagnie: il peso dei sindacati, già molto forti in Alitalia, potrebbero rallentare il processo di ristrutturazione necessario alla compagnia di bandiera italiana.

Concluso questo sciopero, due giorni dopo, il personale di un’altra compagnia aerea francese, la CCM, specializzata nei voli tra la Corsica e il resto della Francia si è astenuto dal lavoro per protestare contro la volontà di rivedere il regime di Oneri di Servizio Pubblico vigenti tra l’isola e il continente.
Questo regime, nato per salvaguardare gli interessi di piccoli territori svantaggiati geograficamente, è diventato in alcuni Stati europei una barriera all’entrata a nuovi concorrenti. Ad oggi, nessuna compagnia low cost può collegare la Corsica con altre regioni francesi. Fino a meno di sei mesi fa, anche la Regione Sardegna attuava il regime OPS, ma una decisione della Commissione Europea, ne ha stabilito l’abuso.

Il trasporto aereo italiano non è perfetto; tuttavia l’entrata di nuovi player ha aumentato la concorrenza, ha acuito la crisi Alitalia (Vd. IBL - Briefing Paper N°46) ed ha permesso il grande sviluppo del mercato. In Francia, i diversi governi hanno voluto difendere gli interessi particolari di compagnie nazionali, in particolare AirFrance, ma il trasporto aereo non ha beneficiato come altrove della liberalizzazione europea avvenuta nel 1997.

Se il vettore francese acquisterà Alitalia, il governo italiano non dovrà difendere il vettore italiano inglobato nel colosso franco – olandese (Vd. IBL - Briefing Paper N°43), ma dovrà difendere l’unico vero interesse italiano: la concorrenza del mercato del trasporto aereo.

mercoledì 31 ottobre 2007

Editoria & Poste: è meritorio il messaggio o il medium?

Come è stato ricordato da Rosamaria Bitetti in questo blog, l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha segnalato due settimane fa al governo il carattere anticoncorrenziale della disciplina vigente in materia di agevolazioni per l’editoria la quale prevede, in un segmento del mercato legalmente aperto alla concorrenza, tariffe postali scontate applicate sotto forma di contributi statali destinati esclusivamente a favore di Poste Italiane. Accedono storicamente al regime agevolato, oltre ai prodotti editoriali, anche le associazioni ed organizzazioni senza fini di lucro e gli invii propagandistici dei candidati alle elezioni.
Riflettendo su questo tema una domanda sorge spontanea: se i prodotti editoriali sono meritori, perché lo stato impone tariffe agevolate alle Poste che li recapitano ma non prezzi scontati alle tipografie che li stampano e margini ridotti agli edicolanti che ne distribuiscono la maggior quantità? E’ meritorio il messaggio o solo lo specifico medium distributivo? Se le attività del settore no profit sono meritorie, perché lo stato impone tariffe agevolate per i loro invii postali e non prezzi scontati quando si approvvigionano di altri beni e servizi assai più essenziali per la loro attività? La risposta è ovvia: gli altri fornitori fanno parte, nei due esempi, del mercato ed è il mercato che regola i loro prezzi; i servizi postali no: di stato pur sempre si tratta e quindi è legittimo derogare dalle leggi di mercato e chiedere/concedere prezzi politici.
Il problema delle tariffe postali agevolate in Italia nasce dal fatto che nessuno, neppure gli editori più liberali, crede (ancora) al mercato dei servizi postali e all’idea che Poste Italiane debba essere una normale azienda di mercato. Se fosse vero il contrario, nessuno oserebbe più chiedere tariffe politiche. Come fare per ribaltare la convinzione? E’ semplice: liberalizzare il mercato postale e privatizzare il recapito di Poste Italiane. Una grande riforma come questa, opponendo le regole del mercato alle richieste delle categorie interessate, renderebbe superflua l’esigenza di fare la piccola riforma delle tariffe agevolate per l’editoria.

lunedì 22 ottobre 2007

sabato 20 ottobre 2007

Antitrust: basta girare a Poste Italiane i sussidi per l'editoria

L'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato sta svolgendo un' indagine conoscitiva sul mezzi d'informazione della stampa quotidiana, periodica e multimediale. A conclusione della prima parte dell'indagine, a luglio, ha sottolineato come il sistema degli incentivi, così come la regolamentazione del settore, siano altamente distorsivi del mercato. Oggi, bacchetta il tentativo di far passare in finanziaria un altro rinnovo del regime a sostegno all'editoria e ai settori no-profit. Nel comunicato stampa odierno «l'Autorità ricorda che a Poste Italiane viene riconosciuta annualmente una compensazione per le tariffe postali scontate applicate alle spedizioni di prodotti editoriali eper il settore no-profit. Si tratta di un meccanismo che determina un'evidente e grave distorsione concorrenziale: operatori postali diversi da Poste Italiane non sono infatti in grado di praticare offerte competitive agli editori e agli enti no-profit per questo tipodi prestazione. Attraverso la normativa vigente, si è quindi sottratto di fatto al mercato uno spazio di attività che di diritto sarebbe liberalizzato». Ovviamente, chi crede nel mercato pensa che ogni forma di sussidio qualsiasi attività, per quanto meritevole, non sia né benefica né necessaria. Ma trasformare un agevolazione all'editoria in un sussidio ad un'impresa ancora, ricordiamolo, parzialmente pubblica, è doppiamente scorretto, in un mercato che attraversa una difficoltosa liberalizzazione. Meglio sarebbe, se pure, assegnare direttamente gli aiuti agli editori ed agli enti no-profit, e permettergli di spenderli con un operatore postale a loro scelta…

Celebrazioni: un augurio ed un addio

Una piccola digressione dai temi abituali del blog, ma per un buon motivo: si chiude una settimana intensa per chi ama il mercato, con due notizie su tutte da celebrare. La bella è che il Ludwig von Mises Institute ha appena festeggiato i suoi primi 25 anni con un grande evento a New York, dove la seconda vita americana della Scuola Austriaca ha avuto inizio. Al Mises Institute molti di noi devono una parte importante della propria formazione, e tutti noi dobbiamo questo incredibile monumento (telematico) alla libertà. Tanti auguri e cento di questi anni!

La brutta notizia avrebbe dovuto rimanere segreta ancora per un po', ma sta invece già scuotendo la blogosfera libertaria: dopo trentasei anni di meritoria attività, sta per chiudere i battenti Laissez Faire Books, un'autentica istituzione più che una semplice libreria, oramai impossibilitata a competere con i prezzi ed i servizi di Amazon. Come ha osservato la responsabile Kathleen Nelson nel dare l'annuncio, il mercato ha probabilmente detto la sua. A suo modo, una bella lezione di quel che davvero significa concorrenza.

UPDATE Pare che qualche organizzazione si stia muovendo per riuscire a mantenere online almeno le preziosissime recensioni di Roy Childs. Non sarebbe una magra consolazione.

mercoledì 17 ottobre 2007

Lavoce.info sul caso Microsoft

Lavoce.info ha pubblicato un utile contributo di Vincenzo Denicolò sulla sostanziale obliterazione, da parte del tribunale di prima istanza, della decisione della Commissione europea su Microsoft. E' un tema del quale ci siamo occupati sia su questo blog, sia altrove, e non è il caso di ritornare sugli argomenti che all'Istituto Bruno Leoni ci paiono sensati e ragionevoli - e che invece non godono di molta fortuna, in sede europea.
L'articolo di Denicolò parte da premesse diverse da quelle di chi ha difeso Microsoft leggendo le teorie della concorrenza come se fossero, fondamentalmente, "teorie della giustizia" (ovvero pensando che in una certa misura vi sia una "teoria del titolo valido" che si applica anche alle quote di mercato - scusate la rozzezza dell'approssimazione). Tuttavia, sostiene che "la tutela della concorrenza e della proprietà intellettuale hanno, o dovrebbero avere, lo stesso obiettivo: garantire agli innovatori un livello di remunerazione appropriato a stimolare l’attività innovativa senza però escludere i consumatori dai benefici delle innovazioni". Se questo è per Denicolò l'orizzonte ideale, basandosi su una valutazione di ciò che è stato fatto nel caso Microsoft egli arriva in fretta a stilare la lista dei prossimi bersagli nel mirino della Commissione europea: "È facile stilare l’elenco dei prossimi possibili bersagli: Apple, Ibm, Qualcomm, Intel. Un elenco che ricalca pericolosamente quello delle imprese più innovative nei rispettivi settori".
Nel caso di Qualcomm (l'indagine è aperta), l’UE parla di abuso di posizione dominante perché Qualcomm chiederebbe troppe royalty per l’utilizzo del suo brevetto. E' interessante scorrere la lista delle imprese che hanno sollecitato l’indagine: vi si trovano quattro clienti di Qualcomm, fabbricanti di telefonini, e due competitori di Qualcomm, nel mercato dei chip. Il parallelo con il caso Microsoft ("mosso" da concorrenti che cercavano rivalsa) è evidente.
Oltre all'articolo di Denicolò, sono interessanti i commenti dei lettori (lo sono sempre, a dire il vero, su Lavoce). Gli argomenti dell'autore non sono stati ben ricevuti. E da più parti si vanta la migliore qualità del software libero.
Non so se sia un fenomeno prettamente italiano, ma è surreale che anche una questione complessa come questa venga ridotta a derby di calcio: la squadra del software libero contro la squadra del software proprietario, i piccoli developers contro le grandi multinazionali. In realtà i due fenomeni coesistono senza grossi problemi. Come ha ricordato Richard Epstein, tutti i sistemi di tutela della proprietà intellettuale sono composti di un mix di commons e diritti di proprietà invece stringentemente regolati. Parlando di Microsoft a Bruxelles, poi, si arriva molto vicino a discutere di segreti industriali, che reggono (reggerebbero) anche in assenza di un sistema (gestito dagli Stati) di tutela di diritti di sfruttamento monopolistico delle innovazioni.
Non c'è nulla di facile in questi problemi, e strizzarli in un post è di per sè riduttivo. Ma a leggere certi commenti sembra quasi che il fatto che Explorer sia inserito in Windows leda la libertà degli utenti di scaricarsi Firefox. Da utente Apple che scrive questo blog in una tag di "Camino", vi assicuro che non è così.
Le questioni che pone Denicolò sono molto più appropriate. Non mettono piede sul terreno della giustificazione delle teorie della concorrenza (anche se l'autore offre una prospettiva interessante, sull'intersezione di tutela della competizione e regimi di proprietà intellettuale). Ma cercano di soppesare le concorrenze dell'approccio di Bruxelles. E' vero o non è vero che le imprese che fanno innovazione sono disincentivate dal continuare a farla, nel nostro continente, dal momento che chi sul mercato arranca può rifarsi per via "europea"?
E' questa la domanda a cui rispondere. E non basta a salvarci la coscienza aggrapparci all'idea romantica per cui l'innovazione si consuma spesso e volentieri in aziende piccole, sul piano dimensionale. Perché in discussione non è il loro diritto di essere e restare piccole - e lo è solo in parte il loro diritto di provare a crescere. Il vero diritto che è in discussione è la libertà dei consumatori, di confrontarsi con una offerta che non sia manipolata politicamente.

martedì 16 ottobre 2007

Un (altro) Nobel a Hayek?

Su epistemes.org un articolo molto chiaro sul Nobel a Hurwicz, Maskin e Myerson. Sul tema, c'è anche un bel commento di Pete Boettke sul Wall Street Journal. La parte centrale dell'argomento di Boettke è la seguente:

Mechanism design theory was established to try to address the main challenge posed by Ludwig von Mises and F.A. Hayek. It all starts with Mr. Hurwicz's response to Hayek's famous paper, "The Use of Knowledge in Society." In the 1930s and '40s, Hayek was embroiled in the "socialist calculation debate." (...)

Hayek's argument, a refinement of Mises, basically stated that the economic problem society faced was not how to allocate given resources, but rather how to mobilize and utilize the knowledge dispersed throughout the economy.

Hayek argued that mathematical modeling, which relied on a set of given assumptions, had obscured the fundamental problem. These questions were not being probed since they were assumed away in the mathematical models of market socialism presented by Oskar Lange and, later, Abba Lerner. Milton Friedman, when he reviewed Lerner's "Economics of Control," stated that it was as if economic analysis of policy was being conducted in a vacuum. Lange actually argued that questions of bureaucratic incentives did not belong in economics and were best left to other disciplines such as psychology and sociology.

Leonid Hurwicz, in his classic papers "On the Concept and Possibility of Informational Decentralization" (1969), "On Informationally Decentralized Systems" (1972), and "The Design of Mechanisms for Resource Allocation" (1973), embraced Hayek's challenge. He developed mechanism-design theory to test the logic of the Mises-Hayek contention that socialism could not possibly mobilize the dispersed knowledge in society in a way that would permit rational economic calculation for the alternative uses of scarce resources. Mises and Hayek argued that replacing the invisible hand of the market with the guided one of government would not work. Mr. Hurwicz wanted to see if they were right, and under what conditions one could say they were wrong.


Sul suo blog, Pete torna sul tema come storico del pensiero economico, e sottolinea come anche questo Premio Nobel confermi un fatto caro agli economisti 'austriaci', ovvero l'influenza di Hayek sul pensiero economico e politico del secondo Novecento:
Hayek has received more citations from Nobel Prize winners as either (a) the reason they did research along the path that was recognized, or (b) that in the later years they have come to appreciate his questions and analysis more than any other economist, than any other Nobel Prize winner. His work has proved fundamental to not only Buchanan, Coase, North, and Smith, but also Lucas, Phelps, and Stiglitz. Add Hurwicz to that list, and don't forget Koopmans from 1975.

sabato 13 ottobre 2007

Vedi alla voce Accountability

Pare che alle Ferrovie abbiano acquistato un orologio al plutonio per misurare i ritardi dei treni ex post. Fonti interne all'azienda informano che stanno valutando l'acquisto di una vecchia pendola scassata per prevenirli, i ritardi, almeno due volte al giorno.


(Cliccare per ingrandire l'immagine)

L’ Italianità delle imprese di trasporto

Lo scorso 10 ottobre, a Roma, è stata organizzata la prima assemblea di Trasporto Amico. L’iniziativa è molto importante poiché finalmente si vuole fare pressione per fare sistema nel settore dei trasporti in Italia. Troppe volte la visione in questo settore così importante per l’economia, è stata parziale. La necessità di recuperare il tempo perduto nei passati decenni nelle opere infrastrutturali ed in generale nei trasporti è stata sottolineata dai promotori di questo convegno.
L’intervento del Prof. Arrigo (CRIET – Università Milano Bicocca) ha messo in luce i diversi punti di debolezza nel trasporto italiano. Il lavoro svolto insieme al prof. Beccarello (Università Milano Bicocca) mostra come il ritardo sia riscontrabile in quasi tutti i settori considerati.
Lo sviluppo dei trasporti è stato quasi nullo in quei settori dove non è presente la concorrenza, mentre si nota una crescita importante in quei settori dove il mercato è stato aperto a nuovi player italiani e stranieri.
Vorrei sottolineare la non importanza della nazionalità del player entrante o già presente sul mercato, in quanto un operatore economico, straniero o non, ha tutto l’interesse di sviluppare il proprio business.
Alcuni interventi politici hanno sottolineato invece la necessità di un operatore italiano di notevoli dimensioni nel campo logistico. Il caso del trasporto aereo è l’esempio che mette in crisi questa visione e voglia di italianità.
Tutti noi conosciamo il maggiore operatore aereo italiano: Alitalia. Non gode di ottima salute, lo stato della compagnia è definito “comatoso” dallo stesso amministratore delegato. Non ha saputo inoltre sviluppare il mercato aereo in Italia. Come mostrato da altri lavori dell’Istituto Bruno Leoni (IBL – Briefing Paper N°43), il mercato aereo italiano si è sviluppato grazie alla liberalizzazione europea, con un raddoppio del numero di passeggeri internazionali dell’Unione Europea in un periodo relativamente breve (10 anni).
L’italianità sembra quindi una necessità politica, per poter mantenere potere di decisione e di influenza, mentre il mercato si sviluppa e il cittadino consumatore trae benefici.
L’italianità dunque sembra essere non solo non necessaria, ma alquanto fuori luogo. Vogliamo davvero che in tutto il settore dei trasporti esistano dei grandi player italiani che non sappiano reggere il peso della concorrenza internazionale?
Non sarebbe meglio forse che invece di difendere l’italianità, i politici si adoperassero per un mercato più competitivo che faccia nascere e crescere player italiani e non, giudicati dalle regole del mercato e non dalla propria carta d’identità?

venerdì 12 ottobre 2007

Va bene chiunque purché non sia italiano

Forse non è un tipo molto elegante, ma le dichiarazioni dell'amministratore delegato di Ryan Air Michael O'Leary, su Alitalia, sarebbero da incorniciare.
O'Leary non solo ribadisce di non essere per nulla interessato all'acquisto della nostra compagnia di bandiera (è persino strano che un giornalista gli abbia chiesto di un loro eventuale interesse, visto che il business model è radicalmente diverso), ma spiega che l'ideale è che Alitalia finisca in mani "non italiane". Razzismo? Sfiducia nell'italico talento per il business dei cieli?
No, sano pragmatismo. O'Leary suggerisce che il compratore migliore sarebbe il fondo Tpg, che ha una buona esperienza nel rilancio di vettori in traballante salute. Ma sa bene che la cosa importante - per la concorrenza, ma anche per noi contribuenti/consumatori - è che il compratore non benefici di aiuti da parte del governo, per non doverlo poi ripagare con la stessa moneta, finendo per generare ulteriori inefficienze. Per questo motivo, meglio uno straniero: uno che stia alla periferia del nostro "capitalismo relazionale", pensi a fare profitti servendo bene i suoi clienti. Meno un imprenditore sa orientarsi a Roma, insomma, e meglio è. Purtroppo, è probabile che i criteri di competenza geografica che verranno fatti valere siano esattamente quelli contrari...

domenica 30 settembre 2007

Il liberismo sta a destra o a sinistra?

Anch'io do il mio piccolo contributo al dibattito innescato dal libro di Alesina e Giavazzi, su cui è già intervenuto su questo blog Alberto Mingardi. L'argomento che ritengo utile sollevare è che, di per sè, il liberismo non è nè di destra nè di sinistra. E' di chi ne abbraccia i principi. La destra, quando è stata al governo, se ne è ben guardata, così come se ne guarda la sinistra prodiana. Del resto, le classifiche della libertà economica della Heritage Foundation fotografano impietosamente questo stanco galleggiare senza avere il coraggio o la capacità di fare riforme. Per questo, la provocazione dei due economisti è un utile sasso nello stagno. Certo, il libro non è perfetto e forse un po' di cura editoriale in più non avrebbe guastato. Ma il dibattito è utile e aiuta a rimettere il liberismo al centro della scena.

mercoledì 26 settembre 2007

Concorrenza nei cieli e su rotaia

L’articolo di Franco Debenedetti su Vanity Fair e quello di Andrea Boitani e Marco Ponti sul Sole 24 Ore di ieri, illustrano benissimo la situazione odierna del trasporto aereo e di quello ferroviario in Italia.

I due settori hanno il grave difetto dell’interesse politico in aziende operanti su di un mercato: Alitalia e Trenitalia non sono due esempi di gestione aziendale di successo.

Il trasporto ferroviario non conosce una vera concorrenza, nonostante la liberalizzazione del trasporto merci imposta dall’Unione Europea. In Italia la liberalizzazione tarda a mostrare i suoi benefici effetti, in quanto l’operatore dominante, come mostra bene oggi Bruno Dardani su Libero Mercato, ha una posizione alquanto strana. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha aperto un’istruttoria che potrebbe cominciare a dare il primo debole segnale di concorrenza alle aziende che operano nel settore.
Un’altra notizia importante per il settore è l’approvazione del terzo pacchetto ferroviario da parte del Parlamento Europeo che dovrebbe aprire alla concorrenza dal 1° Gennaio 2010 il mercato del trasporto passeggeri.

Il settore del trasporto aereo, ha conosciuto una buona liberalizzazione (Vd. IBL - Indice delle Liberalizzazioni 2007) grazie alle direttive comunitarie ad inizio anni ’90. La crescita del trasporto aereo è stato un successo dovuto all’apertura dei mercati europei. Sono potute svilupparsi nuove compagnie con un business completamente diverso dai vettori tradizionali: le low cost. Queste non solo hanno dato impulso a molte compagnie tradizionali ad incrementare l’efficienza, ma hanno saputo raggiungere una parte di domanda di trasporto aereo prima non soddisfatta a causa dei prezzi eccessivi.
La riforma del trasporto aereo dello scorso Dicembre 2006 mette a rischio il successo della liberalizzazione ed in pratica limiterebbe la concorrenza dei vettori low cost in Italia (Vd. IBL - Briefing Paper N°43).

I due settori sono in condizioni concorrenziali completamente diverse, ma hanno anche dei punti in comune.
Il trasporto aereo conosce una concorrenza molto elevata, mentre il trasporto ferroviario ha la posizione dominante di Trenitalia.
Alitalia e Trenitalia sono sostanzialmente controllate direttamente dal governo in quanto azionista tramite i Ministeri, ed entrambe hanno evidenziato bilanci con delle perdite elevatissime nel 2006 e negli anni precedenti.
Alitalia perde quote di mercato, mentre Trenitalia ha una quota di mercato stabile, ma il trasporto aereo cresce grazie alle low cost e agli altri vettori tradizionali, il trasporto ferroviario passeggeri e merci è stagnante da molti anni.

La liberalizzazione del settore ferroviario creerà un nuovo caso Alitalia nel settore ferroviario?
Bisogna agire per tempo, 3 anni non sono pochi, ma non sono nemmeno molti…

Un breve focus che approfondirà meglio le problematiche dei due settori sarà pubblicato nei prossimi giorni sul sito dell’Istituto Bruno Leoni. http://www.brunoleoni.it/.

martedì 25 settembre 2007

Malpensa: può esserci una soluzione di mercato?

Franco Debenedetti ha scritto un articolo molto saggio, su "Vanity Fair", sulla questione-Malpensa. In questi giorni, se ne sentono di tutti i colori. Qualcuno arriva ad ipotizzare addirittura la nascita di una "Alitalia del Nord". Posto che già l'espressione non è delle più felici, immaginare la comparsa di una nuova compagnia aerea solamente per riempire degli slot lasciati liberi da Alitalia pare abbastanza surreale. Ad ogni buon conto, la politica che improvvisamente scopre i problemi del trasporto aereo dovrebbe rispondere ai due interrogativi di Debenedetti:
In quindici anni, quanti tra i sindaci di Milano e gli altri azionisti, tutti pubblici, della SEA, si sono sbracciati per esigere che anche per Alitalia valessero le leggi di mercato, e che si smettesse di aiutarla, e che se falliva non avrebbero certo pianto? E, dato che questo è un mercato per modo di dire, non avrebbero fatto meglio a usare il loro potere politico per chiedere che Alitalia non bloccasse il mercato mantenendo il diritto di esclusiva sugli slot che non usa?

La prima regola di mercato è attirare i clienti e soddisfarli. Non si pensava a soddisfarli “deportandone” una parte da Linate a Malpensa. Avere un aeroporto a 20 minuti di taxi dal centro è un vantaggio competitivo per i milanesi: perché levarglielo? E poi, in 20 minuti si possono percorrere i 50 km per Malpensa: se non ci sono i soldi per costruire la tratta ad alta velocità, ci si può accordare con i sindaci di Saronno e Busto Arsizio perché il treno non si fermi nelle loro ridenti cittadine; e si può risparmiare sul tempo di attesa facendo partire un treno ogni 10 minuti. In quindici anni il tempo c’era. Taccio del raccordo autostradale con Novara.

Adesso Ryanair propone di investire 1 miliardo di $: non per voli intercontinentali, per i quali è ancora da vedere se funzioni il modello di business delle low cost. Ma se i piani sono seri e i soldi sono veri, i clienti sempre mercato sono. Ryanair chiede gli slot, ma esige anche un paio di altre cosette. I voli low cost richiedono che non passino più di 25 minuti tra arrivo e partenza dell’aereo (oggi un’ora e mezza), che i bagagli siano sul nastro in pochi minuti, tutti e integri: non esattamente il tipo di servizio offerto attualmente dal personale da Malpensa. Che ci sia anche questo tra i suoi peccati capitali?

domenica 23 settembre 2007

Trenitalia, RFI e FS: tre soggetti, un unico proprietario

L’Istituto Bruno Leoni, nell’Indice delle Liberalizzazioni 2007 aveva avvertito che il settore del trasporto ferroviario constava di scarsa concorrenza (Indice delle Liberalizzazioni 2007).
Il 22 Settembre l’Autorità Garante del Mercato e della Concorrenza (AGCM) ha aperto un’istruttoria conoscitiva sul trasporto ferroviario merci.

Il trasporto ferroviario merci, come quello passeggeri, vede una posizione dominante da parte dell’operatore Trenitalia. Tuttavia, mentre nel trasporto passeggeri, la normativa europea non impone la liberalizzazione del settore, il trasporto merci è stato aperto alla concorrenza il 1° Gennaio 2007.

La posizione dominante non implica un abuso di tale posizione. Trenitalia potrebbe benissimo essere leader del mercato e al contempo non porre nessuna barriera all’ingresso ai nuovi operatori sul mercato. L’indice di Herfindahl che il Bruno Leoni aveva calcolato, evidenziava bene la concentrazione nel mercato del settore merci in Italia e di conseguenza la posizione dominante di Trenitalia.
La debolezza del sistema ferroviario italiano, che non è il meno liberalizzato in Europa, è la separazione solo teorica tra il gestore della rete e il principale operatore di trasporto. Trenitalia e Rete Ferroviaria Italiana sono parte dello stesso gruppo con a capo Ferrovie dello Stato Holding.
Questa mancata effettiva separazione deriva dal decreto ministeriale 138 del 2000 che di fatto tende a lasciare la porta chiusa all’entrata della concorrenza nel mercato ferroviario.

L’istruttoria aperta dall’AGCM non scardina questa porta, ma comincia lentamente a dare i primi segnali di cambiamento.
In realtà l’istruttoria riguarda solo una piccola parte del problema principale appena illustrato: gli sconti K2 non applicati agli operatori diversi da Trenitalia da parte del gestore della rete RFI. Questa strategia sarebbe stata portata avanti dall’operatore dominante tramite RFI per ostacolare la concorrenza degli altri players.
Gli sconti sono piccole cifre se comparati al business delle compagnie ferroviarie, ma l’AGCM, con questo passo, sembra prendere di mira la mancata ed effettiva separazione tra la rete ferroviaria e Trenitalia.

Una maggiore concorrenza sul mercato ferroviario sarebbe molto importante, in quanto il settore ferroviario italiano conosce una stagnazione quasi trentennale sia del trasporto merci che di quello passeggeri.

L’istruttoria potrebbe essere il primo segnale di cambiamento: forse la concorrenza sta per portare i suoi effetti benefici anche nel trasporto ferroviario, dopo averli portati al settore del trasporto aereo.