venerdì 31 agosto 2007

Monopolisti della ricevuta di ritorno

Oggi L'Espresso pubblica un bel servizio di Luca Piana sul nuovo "Focus" IBL, scritto da Ugo Arrigo - sul tema del mercato (del monopolio) dei servizi postali. L'aneddoto di Ugo, sugli aiuti ai candidati alle elezioni, vale un corso di public choice.

Poste ricche a spese nostre
di Luca Piana
Un risanamento straordinario, un caso più unico che raro tra le aziende statali. E' questa l'immagine delle Poste italiane che anno dopo anno viene consegnata all'opinione pubblica. La vulgata si basa sui numeri esibiti in bilancio. Quando, nel 1998, l'Ente Poste venne trasformato in società per azioni perdeva l'equivalente di 1,3 miliardi di euro. Otto anni più tardi, il 2006 si è chiuso con un utile netto di 483 milioni, un valore che sale a 676 milioni se si considera anche Poste Vita, la compagnia assicurativa inclusa nei conti consolidati soltanto dal 2005.
In un Paese dove alcuni vecchi monopoli come l'Alitalia o le Ferrovie appaiono in perenne emergenza, un'impresa interamente in mano pubblica capace di non dare troppi grattacapi rappresenta un caso degno di nota. Così l'attuale amministratore delegato, Massimo Sarmi, in sella dal 2002, può vantare il primato delle "Poste più redditizie d'Europa", come ha fatto di recente. Se però si scava dietro i risultati emergono alcune sorprese che contrastano con l'immagine di azienda sempre più votata al mercato. L'Istituto Bruno Leoni di Torino, un centro studi nato nel 2003 per promuovere la cultura del libero mercato, ha effettuato un'analisi per individuare i fattori che hanno reso possibile la rivoluzione delle Poste. L'obiettivo era comprendere perché il settore resti uno dei meno liberalizzati, a meno di due anni dalla completa apertura imposta dall'Unione europea dal gennaio 2009.
Nello studio curato da Ugo Arrigo, professore di Economia pubblica all'Università Milano Bicocca, sono stati confrontati i bilanci della capogruppo (che comprende le due principali attività, il recapito posta e il Bancoposta) a partire dalla trasformazione in società per azioni. Due dati colpiscono più di tutto. Primo: dal 1998 a oggi i ricavi dell'azienda che derivano dal settore pubblico sono passati dal 30,8 al 38,7 per cento del totale. Secondo: dietro il consistente boom dei proventi registrati dalla società (più 60 per cento), c'è soprattutto lo Stato, visto che i ricavi dal settore pubblico sono raddoppiati (più 100,7 per cento, a 3,5 miliardi) mentre quelli del privato sono aumentati del 41,8 per cento (a 5,6 miliardi di euro).
La mano protettiva dello Stato si fa sentire su entrambi i fronti. Nel recapito della corrispondenza l'aumento più consistente (più 92,5 per cento, a 703 milioni di euro) è infatti quello segnato dai contributi a fondo perduto per garantire la consegna delle lettere sul territorio nazionale, dalle agevolazioni per l'editoria e le organizzazioni non profit, nonché dagli aiuti ai candidati alle elezioni, che possono spedire i loro volantini a poco prezzo. "Ricordo che questi ultimi, quando nel 1997 ero consulente del Tesoro, riuscimmo ad abolirli. Vennero immediatamente ripristinati dopo le prime elezioni, quando i partiti si resero conto di quel che era accaduto", racconta Arrigo.
Per l'attività bancaria non c'è dubbio che l'offerta di servizi rivolti al grande pubblico abbia avuto grande successo. Negli otto anni presi in considerazione i proventi generati dai conti correnti e dagli altri servizi sono più che raddoppiati, salendo a 910 milioni. A una velocità quasi uguale, però, sono cresciute anche le commissioni pagate al Bancoposta dal settore pubblico per la raccolta sui conti correnti postali, quella in favore della Cassa depositi e prestiti e i servizi statali. Voci che, in valore assoluto, ancora oggi contano di più: 1,4 miliardi.
L'immagine delle Poste che deriva dall'analisi di Arrigo è, dunque, quella di un'azienda paradossalmente più protetta dalla concorrenza, che può andare a caccia in nuovi territori grazie alle munizioni garantite dallo Stato. Il sospetto legittimo è che lo strabiliante risanamento, iniziato sotto la guida di Corrado Passera e terminato da Sarmi, sia stato in realtà pagato con i soldi dei contribuenti, grazie alle tariffe decise dallo Stato. E' vero che il risultato non sarebbe stato raggiunto senza i tagli ai dipendenti, che all'inizio degli anni Novanta erano circa 230 mila e nel 2004 erano scesi a 153 mila (nell'ultimo bienno si registra però un'inversione di tendenza). Allo stesso tempo, sostiene Arrigo, il boom dei ricavi che ha trasformato le Poste in una sorta di slot machine dalla vittoria assicurata è stato però realizzato per oltre due terzi attraverso aumenti di tariffe e commissioni. Una strategia favorita da un'assenza sostanziale di concorrenza alla quale i governi che si sono susseguiti hanno fornito molti puntelli, a cominciare dalla revoca delle concessioni alle agenzie che fino al '99 operavano nel recapito cittadino. Lo studio dell'Istituto Bruno Leoni si conclude così con un'osservazione. Il 1998 fu l'ultimo anno in cui l'Alitalia registrò un buon utile di bilancio, ma segnò anche l'apertura alla concorrenza dei cieli europei. Se alla compagnia aerea fossero state garantite le condizioni protette delle Poste, forse oggi non sarebbe sull'orlo del baratro. Ma il costo del suo sostentamento l'avrebbero pagato i contribuenti. Come è accaduto alle Poste.

giovedì 30 agosto 2007

Dagli allo straniero

Secondo alcune indiscrezioni pubblicate oggi dal Financial Times, la Commissione europea starebbe esaminando un dossier riservato per valutare "una serie di misure per restringere l'accesso di compagnie straniere al settore energetico europeo, e in particolare alle reti di trasmissione di elettricità e gas". Per esempio, una tra le opzioni in ballo sarebbe l'introduzione di una clausola di reciprocità, in virtù della quale compagnie (per esempio) russe perderebbero l'opportunità di entrare sul mercato continentale. E tutto ciò, ironicamente, dovrebbe rientrare nel pacchetto per aumentare la competizione sul mercato interno la cui diffusione è prevista per il 19 settembre.

Nella migliore delle ipotesi, la Commissione sta cercando di fare realpolitik spicciola: chiude il mercato interno allo scopo di indebolire le opposizioni di quanti temono incursioni straniere. Ma è davvero una tattica saggia? Non credo proprio. Intanto, così facendo si dà di fatto ragione a coloro che ritengono vi sia una differenza "biologica" tra le compagnie europee e quelle straniere. Sebbene possano effettivamente esistere casi in cui un gruppo straniero, controllato dallo Stato, segua logiche politiche anziché economiche nelle sue pratiche commerciali, tale verifica andrebbe condotta caso per caso, non generalizzata a tutti quanti. Secondariamente, è davvero curiosa la tesi secondo cui, per aumentare la concorrenza, bisogna ridurre la concorrenza. In terzo luogo, è semplicemente risibile l'argomento delle reti. Sia perché le reti lì sono e lì restano, a prescindere dalla nazionalità degli azionisti; sia, soprattutto, perché nel momento in cui venga fissato il principio dell'unbundling proprietario, esso riguarderebbe tanto le imprese europee quanto quelle extracomunitarie. Se cioé si decide che l'integrazione verticale va limitata, allora va limitata anche quando - per fare nomi e cognomi - c'è di mezzo Gazprom. A guardar bene, dunque, viene il sospetto che Gazprom non sia il problema, ma solo il paravento dietro cui i sempre meno ex monopolisti nascondono le loro strategie di dominio del mercato.

domenica 26 agosto 2007

Liberalizzazioni radicali

I radicali hanno presentato alcuni giorni fa la loro "campagna d'autunno". Si tratta di un documento in ventisei punti, attraverso i quali Marco Pannella ed i suoi cercano di chiarire le modalità con le quali essi stanno nella maggioranza. In una recente intervista, Pannella ha giustamente riconosciuto il ruolo del governo nel promuovere alcune liberalizzazioni - è la parte dell'esperienza a sinistra a cui mette il segno più. Forse le "lenzuolate" non bastano a pareggiare provvedimenti di ben altra marca, ma, sul tema, ognuno faccia le sue valutazioni.
E' interessante invece notare come molti dei ventisei punti radicali siano interessanti e possibili. Anche qui, diverse opinioni sulla contingenza che li ha generati sono legittime: qualche malizioso potrebbe notare che sono giusto ventisei, cioè il doppio dei tredici punti di Capezzone. Però se la civiltà in politica è anche occuparsi un po' meno delle faide, e un po' più dei contenuti, ce ne sono sicuramente di positivi - nel documento pannelliano.
Per esempio:
- PRIVATIZZAZIONE ALITALIA: fissare tempi certi per la vendita, svincolata da condizioni incompatibili con il mercato, o liquidare per non far pagare ai contribuenti 60 milioni al mese;
- POSTE E POLIGRAFICI: privatizzare e liberalizzare il mercato delle Poste italiane e privatizzare l’Istituto poligrafico dello stato, attuando l’impegno contenuto nel dpef;
- WIMAX: realizzare un’asta davvero aperta per le licenze Wimax, per favorire nuovi accessi in concorrenza con gli attuali operatori dominanti nel settore delle telecomunicazioni;
- FARMACIE: liberalizzare la vendita dei farmaci per garantire i diritti degli utenti-pazienti.
Cito questi quattro sia perché ricordano alcuni temi sui quali abbiamo lavorato all'IBL (basti uno sguardo ai nostri Focus e Briefing Papers), sia perché potrebbero essere cose "giuste e fattibili". Ho i miei dubbi che con questo esecutivo si possa avere "concorrenza nei lavori pubblici", o fare "politica attiva di attrazione degli investimenti esteri attraverso semplificazione burocratica e leva fiscale" (anche perché, almeno nei casi di Autostrade e Telecom, il premier è parso avere tutt'altra priorità che attirare gli investimenti esteri), e men che meno "legare i finanziamenti alla valutazione delle università" (anche questo promettono i radicali). Parallelamente, alcuni dei punti pannelliani sono vaghi in modo persin desolante: "introdurre meccanismi generalizzati di welfare to work", per esempio, che vuol dire?
Però privatizzare le poste (e soprattutto neutralizzare il bullismo di Poste Italiane), fare una vera asta wi-max, privatizzare bene Alitalia (at last), portare i farmaci di classe C (su ricetta ma non rimborsati) nei supermercati e nelle para-farmacie: ecco, queste sono cose alle quali un governo di sinistra, per nulla ideologicamente "liberista" ma semplicemente interessato a migliorare le condizioni del cittadino-consumatore, potrebbe mettere mano. Sono cose "alla Bersani", se volete. E sono cose di cui ci sarebbe bisogno.
Vedremo allora se i radicali tireranno fuori gli artigli e riusciranno a portare a casa almeno quattro dei loro ventisei punti, o se dopo l'agenda Giavazzi anche l'agenda Pannella resterà un libro dei sogni.

venerdì 24 agosto 2007

"Sicko" è una buona ragione, per non liberalizzare la sanità?

Il ministro Livia Turco ha visto, assieme con il regista Michael Moore, il film “Sicko” e si augura che facciano lo stesso anche molti italiani affinché “vedendo questo film riscoprano un tesoro che abbiamo di cui parliamo male e che spesso bistrattiamo”. Il tesoro in questione sarebbe il nostro sistema sanitario.
Quindi, se seguiamo bene il ragionamento del ministro, il film di Moore servirebbe per rendersi conto che altri se la passano peggio di noi, e pertanto stare zitti e quieti su quelle che ci sembrano essere le inefficienze dell’SSN.
Secondo Livia Turco, nel film “in modo obiettivo si racconta cosa significa il sistema assicurativo, che ha il profitto come obiettivo e quindi seleziona patologie e interventi da effettuare”.
In modo obiettivo? Pare piuttosto grave che un ministro della Repubblica faccia un’affermazione tanto pesante su di un altro Paese, senza apparentemente essere a conoscenza del fatto che il film di Michael Moore contiene alcune gravi imprecisioni, ed è stato seriamente contestato. A titolo esemplificativo, qui un articolo di Michael Tanner, qui un articolo di Michael Moynihan, e qui un articolo di Grace-Marie Turner.
Al di là della relativa “obiettività” di Moore, è fondamentalmente sbagliato dipingere il sistema americano come se non consentisse l’accesso dei più poveri alla sanità. Al contrario, un buon 20% della popolazione USA già ora dipende dallo Stato per le proprie cure. Si tratta delle persone sopra i 65 anni, a carico del programma “Medicare”, e degli indigenti, a carico del programma “Medicaid”. Questi “40 milioni di americani” senza assicurazione medica bisogna quindi guardarli da vicino: si tratta di larga misura di persone che volontariamente decidono di non assicurarsi, e, in alcuni casi, di persone che non sono tanto povere da essere fra gli assistiti da Medicaid, ma per diversi motivi non dispongono di una copertura.
Più in generale, però, Livia Turco sbaglia nel sostenere che quello che Michael Moore racconta sia un “sistema assicurativo”. In realtà, la situazione degli Stati Uniti non è poi così distante dalle nostra: lo spiega bene un bel libro di Arnold Kling (che di “Sicko” dice una cosa tanto ovvia quanto vera: “contrasting French yuppies with American homeless people does not really prove anything”), che Rosamaria Bitetti ha appena finito di tradurre per l’IBL e pubblicheremo nei prossimi mesi.
Kling sottolinea a ragione come il sistema sanitario americano sia caratterizzato anch’esso dall’esenzione dal pagamento diretto dei costi, da parte degli assicurati. La spesa privata non è in larga misura “diretta” ma mediata dalle contribuzioni dei datori di lavoro. E’ molto simile ad un sistema di welfare finanziato attraverso i contributi, solo che gestito – nella parte delle decisioni circa l’erogazione dei servizi – da parte di soggetti privati. Ma, sottolinea Kling, una copertura di una vasta gamma di rischi sanitari “non assicurabili” a rigore non è un’assicurazione. L’assicurazione dovrebbe essere un qualcosa grazie alla quale si finanzia oggi la possibilità di avere un aiuto quando domani si fosse colpiti da una necessità imprevista: esattamente com’è l’assicurazione contro il furto d’auto, per intenderci.
Il modello americano si caratterizza certamente per la presenza di compagnie di assicurazioni e strutture ospedaliere private, mantenendo quindi un minimo di pluralismo sul lato dell’offerta. Ma la natura "totale" della copertura assicurativa, rispetto ai rischi sanitari, la rende diversa dalle assicurazioni "private" che conosciamo. Lo si può considerare un sistema di mercato?
Solo in parte, secondo Kling. Quel che più conta, esso sta “scoppiando” per gli stessi motivi per cui sta scoppiando il nostro sistema sanitario: trend demografici che vedono una popolazione in rapido e vistoso invecchiamento (per fortuna), con tutta una serie di bisogni prima inediti in fatto di cure, che un sistema basato su una copertura “sconnessa” dal finanziamento diretto da parte dei pazienti non può sostenere... senza andare in bancarotta.
Mancando l'acquisto diretto delle cure, manca - per così dire - un sistema di prezzi per l'utente finale-consumatore-paziente. Tale assenza impedisce valutazioni costi-benefici "localizzate".
Ci sono problemi di iniquità di qui come di là dell’Atlantico: per esempio, “Medicare” copre i seniors indipendentemente dalle loro possibilità economiche. Anche da noi, Gianni Agnelli aveva un medico della mutua, e poteva approfittare della rimborsabilità dei farmaci.
Kling sostiene che l’alternativa di mercato onsisterebbe di un sistema nel quale la maggior parte delle spese per la sanità siano pagate direttamente dai pazienti (che possono permetterselo); le assicurazioni fossero vere assicurazioni che servono a tutelare da eventi catastrofici e non a "coprire" consumi sanitari di vario genere; lo Stato garantisse una “rete di sicurezza” a vantaggio di coloro che veramente non possono accedere alle cure in altro modo.
Quando gli Stati Uniti avranno adattato un sistema simile, e questo per qualche motivo avrà fallito nel garantire cure mediche di qualità, e Michael Moore ci farà un film-denuncia, Livia Turco avrà tutto il diritto di biasimare “il sistema assicurativo che ha il profitto come obiettivo”. Ma fino ad allora, meglio farebbe il nostro ministro della sanità a riflettere sulle similitudini fra il nostro SSN ed il modello USA. Sono le cose che abbiamo in comune (l'esenzione dei pazienti dal sostenere i costi, l'imponente regolazione), non quelle che ci dividono, a porre un’ipoteca sul futuro della sanità di qui e di là dell’Atlantico.

P.S.: Curiosamente, in occasione di un suo intervento pubblico, peraltro molto duro contro l'industria assicurativa, un altro ministro, Pierluigi Bersani, aveva espresso un'opinione sostanzialmente positiva circa il ruolo delle assicurazioni private nella sanità del prossimo futuro.

Citazione del giorno

Alitalia l'abbiamo difesa così bene che scomparirà come impresa italiana.
A forza di tutelare, tutelare, tutelare, l'impresa non ha avuto la capacità di stare in piedi.

Alessandro Profumo

ps: per i dettagli, vedete questo e questo Focus di Andrea Giuricin.

giovedì 23 agosto 2007

Un buon motivo per ternerci Prodi (forse, l'unico)

Giulio Tremonti non delude mai. Ogni volta che c’è domanda per una posizione populista espressa con finto intellettualismo, lui arriva. E’ il caso dell' intervista ad Aldo Cazzullo, nella quale l’ex ministro dell’economia annuncia assieme una rivolta fiscale “gandhiana”, e la crisi del paradigma “mercatista”.
Sul piano generale, quale sia la contraddizione di Tremonti è evidente. Lui è per tasse basse e dazi alti. Ma se il paradigma “mercatista” è davvero alla frutta, e se “il governo dell’Europa deve passare dall’inerzia all’iniziativa economica come nel New Deal di Roosevelt”, allora non c’è ragione di abbassare le tasse (fra parentesi, Roosevelt la pensava al contrario di Tremonti: semmai egli era per dazi bassi, ancorché a giorni alterni, e per tasse alte). Quando lo Stato deve intervenire massicciamente nell’economia, servono risorse importanti. E quelle risorse si possono reperire soltanto con una fiscalità elevata, che naturalmente deve concentrarsi laddove ci sono redditi più ingenti.
Annuncia Tremonti:
Agosto 2007: tempus revolutum. La crisi finanziaria è un tornante intorno a cui svolta un pezzo della nostra vita. Porterà conseguenze non solo economiche, anche politiche, anche "spirituali". Segna la fine di molte equazioni. Che la patria sia uguale al mondo, che l'euro contenga l'Europa; che il mercato sia tutto, che il denaro sia gratis; che i consumi siano la sublimazione dell'esistenza, che i desideri contino come i bisogni. Il vuoto lasciato alla finanza sarà colmato dal ritorno dei valori. I bisogni vengono prima dei desideri, Caino è diverso da Abele, la vita non è solo il pil e non è solo la scienza, il '68 non è il futuro ma il passato, il governo dell'Europa deve passare dall'inerzia all'iniziativa economica come nel New Deal di Roosevelt

E ancora:
La politica futura, il futuro della politica non è nel materiale. Gli interessi urlati, gli egoismi esibiti cederanno il passo al ritorno dei valori.

Cosa vuol dire? Francamente non ne ho idea. Detto senza ironia: mi piacerebbe avere le risorse intellettuali, per capire. In primo luogo, mi viene difficile comprendere la pretesa antinomia fra valori e globalizzazione, tenuto conto che uno degli a priori della globalizzazione è un certo universalismo: tutti gli uomini “sono creati uguali”, e da questa creazione su base di eguaglianza discende anche che si scambia con tutti loro, anziché ridurli in catene o farli salire su un vagone piombato (Carlo Lottieri ha scritto un meraviglioso saggio sullo “scambio miracolo profano”, che mi sento sempre di raccomandare).
Sembra dunque che per Tremonti i valori siano sempre, comunque ed inevitabilmente quelli di un particolarismo egoistico (“la patria non sia eguale al mondo” – addio Sondrio bella?), sostanzialmente gretto. Peccato che il resto del mondo la pensi, per quanto con un'amplissima differenza di sfumature, in modo diametralmente opposto: i “valori” misurano semmai l’incontro con l’altro, non la chiusura in noi stessi.

Una delle affermazioni di Tremonti è condivisibile:
L'intensità della crisi finanziaria in atto non è ancora ben stimata. E' probabilmente ancora sottostimata. In ogni caso, è una crisi che non avrà effetti limitati alla finanza ma estesi all'economia e a tanti altri elementi del nostro vivere.

Questo è molto probabile, ma ha davvero poco a che vedere con
la fine dell'"età dell'oro", la fine dell'ultima ideologia del '900, insieme pagana e postmoderna. Finisce l'idea del mondo a sviluppo continuo, della finanza come propellente universale di un motore che, superando il passato e il presente con tutti i loro limiti e con tutte le loro complessità, superando la storia, è finalmente capace di spingere l'umanità verso un futuro "nuovo", sempre più facile, sempre più gratuito. La crisi del 2007 rovescia questi termini, frena la fuga nel futuro, segna il ritorno della storia. Il ritorno nella storia.

Cerchiamo di andare oltre il gusto della buona punteggiatura ed il fraseggio raffinato. Cosa dice Tremonti? Niente. Che cosa significa parlare della “finanza come propellente universale di un motore che supera il passato e il presente”? Chiedetelo al gestore di un hedge fund. La finanza è semplicemente parte dell’economia, in nulla meno nobile dell’economia cosiddetta “reale”. E’ fatta da persone che hanno capitali, e persone che investono questi capitali. Né gli uni né gli altri vogliono “superare la storia”: vogliono semplicemente fare profitti. Per fare profitti, ci sono modi leciti e illeciti, modi saggi e modi poco saggi, modi innovativi e modi parassitari.
Un mondo nel quale è stato reso possibile, a coloro che investono capitali, di farlo a trecento sessanta gradi, ha creato le condizioni per una crescita senza precedenti nella storia dell’umanità: lo hanno ricordato bene sia Francesco Giavazzi e Alberto Giovannini, che Franco Debenedetti.
Ci sputiamo sopra? Immagino che nel mondo dei “valori” la crescita non sia importante, anzi magari la “de-crescita” è un male necessario: la ricchezza crea tentazioni ed attrae immigrati (gli immigrati rubano, puzzano, si sposano le nostre figlie, eccetera).

Continua Tremonti:
L'impressione è che sia giunta a termine una fantastica catena di sant'Antonio. Ha ceduto l'anello dei mutui facili americani. Ma ci sono altri anelli deboli. E il più debole sono gli hedge fund, le "banche irregolari" che nell'ultimo decennio si sono sviluppate fuori da ogni giurisdizione. Una data-chiave sarà la fine del mese, quando gli hedge fund dovranno fare i loro rendiconti e dire quanto valgono e quanto hanno perso. Questa crisi evidenzia in realtà le criticità che ho cercato di esporre per tanti anni, in Italia all'estero, sul Corriere e al G-7 e G-8: le riflessioni sui limiti del mercatismo, sui rischi fatali, le polemiche sul protezionismo e sul colbertismo, e anche sui limiti della "vigilanza", a partire dal caso Parmalat e dal rischio di una sua replica su scala mondiale. Allora la mia era vox clamantis in deserto.

Gli hedge fund dovranno fare i loro rendiconti e dire quanto valgono e quanto hanno perso: qualcuno perderà molti soldi, qualcun altro (verosimilmente) sfrutterà quest’opportunità per fare ancora più soldi. Il mercato è così. Le crisi lo disciplinano: non stanno “fallendo” le istituzioni del mercato, al contrario le istituzioni del mercato stanno lavorando!
E’ il mercato – sono gli investitori – a disciplinare pratiche non profittevoli o illegittime. Di che cosa stiamo parlando, allora?
E che cosa c’entrano il protezionismo ed il colbertismo? Che cosa c’entrano le magliette e le scarpe cinesi, alle quali il Tremonti ministro aveva dichiarato guerra? E, ancora, che cosa c’entra la possibilità che un’azienda italiana possa trovare capitali altrove e recuperare efficienza in virtù del management migliore “imposto” da investitori di mercato, interessati alla performance e non al controllo?
Se guardiamo all’Asia, vediamo che lì le ripercussioni della crisi sono – e probabilmente saranno – davvero modeste. Da che cosa ci voleva proteggere, il ministro Tremonti?

Ad Aldo Cazzullo, il vicepresidente di Forza Italia spiega di avere compreso come anche il resto del mondo avesse cominciato a condividere i suoi timori, in un’occasione molto particolare:
Downing Street, cena offerta da Gordon Brown in onore di Alan Greenspan. Si parla del passaggio di consegne, e Greenspan racconta la storia delle tre buste chiuse che il dimissionario lascia all'erede. Prima crisi; il successore apre la prima busta e trova scritto: "Dai la colpa a me". Seconda crisi, seconda busta: "Dai la colpa alla politica". Terza crisi, terza busta: "Prepara tre buste". In quel momento mi è parso che qualcuno avesse capito qualcosa.

A parte che l’aneddoto lascia il tempo che trova (come sempre gli aneddoti: servono solo a certi politici per chiarire a tutti che non si limitano a frequentare Umberto Bossi e le feste della Lega), Greenspan in quell'occasione veniva salutato come banchiere centrale. Il “maestro” ha ricoperto un ruolo di primissimo piano, nel gestire le crisi del recente passato, e forse anche nel contribuire a quella di oggi. Ma da quando le responsabilità (ed, eventualmente, gli errori) di un regolatore, diventano un argomento contro i mercati che egli regola?

Prosegue l’intervista:
La finanza fine a se stessa ha deresponsabilizzato. Mi indebito, e per uno che si indebita c'è uno che presta; tanto a entrambi la finanza consente di scaricare su altri le responsabilità.

Troppo comodo. Non è la finanza “fine a se stessa” che deresponsabilizza. Si può sostenere che vivere facendo tanti debiti non sia un modo “sano”. Si può anche sostenere che alcuni strumenti – il credito al consumo, per esempio – siano in un certo qual senso diseducativi: consentono alle persone di consumare “al di sopra delle proprie possibilità”. E siccome la vita magari non è più tanto short ma può sempre rivelarsi brutish and nasty, inevitabilmente si producono aggiustamenti poco gradevoli.
Ciò detto, la colpa è degli strumenti con cui uno si indebita troppo, o di colui che si indebita troppo? La responsabilità è sempre di altri – del mercato, della cultura, della società dell’abbondanza e dell’apparenza… - o non è piuttosto di individui in carne ed ossa che, come da sempre avviene ad individui in carne ed ossa, sbagliano e talvolta fanno il passo più lungo della gamba?

Mi piacerebbe sapere quale sia la risposta “della visione politica e spirituale”. Ma ancora di più mi piacerebbe sapere cosa ci sia di spirituale in quest’affermazione:
Già nel 2004, semestre italiano, avevo proposto di replicare il piano Delors: investimenti pubblici finanziati con eurobond.

Precisa Tremonti: “la reazione mercatista fu dire no alla produzione di nuovo debito”. Raramente capita di trovare nella stessa intervista, a quattro righe di distanza, una severa critica all’indebitamento privato, e poi una grande nostalgia per l’indebitamento pubblico. Evidentemente l'intervistato presta attenzione soprattutto agli aggettivi.

In conclusione. Volete un buon motivo per sopportare, stringendo i denti e tutto il resto, il governo Prodi, e quasi quasi per sperare in elezioni a fine legislatura? Non è facile trovarne uno, ma nondimeno uno c’è: prima si vota, più alta è la probabilità che questa calamità naturale sia di nuovo ministro dell’economia.

mercoledì 22 agosto 2007

Subprime, calma e sangue freddo

Franco Debenedetti ha scritto cose molto avvedute e condivisibili, sull'isterismo da subprime che sta contagiando un buon numero di aspiranti Cassandre. Di seguito, un copia-e-incolla dalla sua rubrica su "Vanity Fair":
Per chi scrive di rischi, il rischio è asimmetrico: é più vantaggioso essere pessimisti che ottimisti. L'errore del pessimista sarà facilmente dimenticato nel generale sollievo per lo scampato pericolo; la reputazione dell'ottimista che, dando poca importanza alle nuvole, aveva previsto sereno, sarà per sempre distrutta da chi si è preso una bagnata. Sono quindi comprensibili i commentatori che, di fronte agli sconquassi che hanno colpito i mercati finanziari, si sono lasciati andare a dipingere scenari foschi, a ingigantire i timori di fronte a fenomeni difficili da individuare come dinamica e da valutare come entità. Ma in questi giorni si è letto anche dell'altro: pessimismi che vanno aldilà della prudenza professionale, commenti in cui la ricerca del colpevole interessa più della individuazione delle cause. Se due persone che non sono d'accordo su niente, come Eugenio Scalfari e Giulio Tremonti, evocano entrambi lo spettro del 1929, è difficile che sia perché le loro diagnosi coincidono. Entrambi usano solo l'immagine della più devastante crisi del capitalismo moderno: l'uno per incolpare la globalizzazione senza regole; l'altro per accusare la finanza senza controlli, gli stessi eccessi che avrebbero condotto al "Grande crollo" e che ora, a suo dire, potrebbero lasciare senza introiti chi aveva affidato i suoi risparmi ai fondi pensione. Anche altri commentatori che scrivono sui grandi giornali d'opinione, sembrano godere, in preda a Schadenfreude, nel seminare panico, nel denudare un sistema marcio in tutte le sue articolazioni: agenzie di rating omertose, consulenti interessati solo alle proprie provvigioni e incuranti dei rischi che fanno correre agli ignari risparmiatori, banche centrali disposte a salvare i colpevoli di guai che erano state incapaci di prevenire, e hedge fund, soprattutto gli hedge fund, strumenti opachi di speculazioni spericolate. Come se ora potessero liberamente gridare quello che avevano sempre pensato dell'America e di Wall Street, degli americani stupidi e ingordi e dei banchieri disonesti che li tosano, dell'economia finanziaria che cresce come un bubbone sull'economia reale. E chiedono interventi dei Governi, per punire e vietare, per amputare e proibire. Evitare del tutto i disastri non sarà mai possibile, tanto meno nella finanza, un'attività che ha per sua natura lo speculare sul futuro, e in cui c'è chi guadagna e chi perde. Ma questo sistema, anche grazie ai nuovi strumenti finanziari, ha consentito una crescita dell'economia mondiale lunghissima, ha accompagnato l'emergere da fame e miseria di centinaia di milioni di persone: un fatto senza precedenti per durata e entità. Peccati ci sono stati e vanno corretti. Ma il terrorismo di certi commentatori e gli interventi di certi chirurghi potrebbero essere peccati davvero capitali.

martedì 21 agosto 2007

lunedì 20 agosto 2007

Nuove crisi, vecchie tentazioni

Non è certo il caso di minimizzare cause ed effetti della crisi dei mutui subprime: le dinamiche, e gli effetti sui mercati (e, di converso, sui nostri risparmi) non si sono certo ancora dispiegati appieno. Su marginal revolution c'è una discussione molto interessante. L'Economist non più tardi di due settimane fa sosteneva che si tratti in linea di massima di un aggiustamento inevitabile, anche se doloroso, del mercato.
In Italia, qualcuno non perde tempo e chiede "garanzie" al governo: lo fa, per esempio, il segretario della Cisl Bonanni il quale, pur nel contesto di un'intervista in cui dà prova di ragionevolezza difendendo la legge Biagi, non rinuncia a chiedere a gran voce "nuove regole per evitare altre crisi finanziarie". Chiedere non costa niente, ma talora le risposte posso invece rivelarsi molto costose - nel lungo periodo.
Mentre forse varrebbe la pena sospendere il giudizio sull'azione-tampone dei tecnocrati delle banche centrali, mi sembra molto saggio quanto scrivono Francesco Giavazzi e Alberto Giovannini sul Corriere della sera:
Situazioni di crisi come quelle che viviamo in questi giorni inducono due tipi di fenomeni. Da un lato il pubblico e variegati «predicatori» chiedono ai governi di non star con le mani in mano. Dall’altro i governanti stessi sentono il bisogno di dimostrare il loro impegno ad affrontare i problemi annunciando iniziative di vario genere: indagini sulle Agenzie di rating, l’introduzione di tasse sulle transazioni finanziarie, etc. E’ vero che talvolta una crisi può mettere in evidenza in maniera più netta i fallimenti del mercato e offrire l’occasione per riforme efficaci.
Questo è successo in più occasioni: nel 1987 ad esempio il collasso delle transazioni sui mercati americani ha avviato il processo di creazione del più efficiente sistema di infrastrutture di mercato che tuttora esista al mondo. Ma spesso l’attivismo, la fretta, l’illusione che problemi difficili abbiano soluzioni semplici, rischiano di buttar via «con l’acqua sporca», i benefici di un mercato finanziario che è diventato più efficiente nel diversificare il rischio e più aperto per tutti.

domenica 19 agosto 2007

Aeroporti: fermate quel piano

Andrea Giuricin ha scritto per l'IBL un eccellente "Briefing Paper" sul "piano Bianchi" per la riorganizzazione (leggi: pianificazione) del sistema aeroportuale. Qui è possibile leggere l'opportuna sintesi fatta da Gianni Dragoni per Il Sole 24 Ore.
E' importante comprendere, come bene spiega Andrea, che lo strepitoso sviluppo delle compagnie low cost è stato reso possibile solo grazie a quel poco o quel tanto di concorrenza che esiste fra scali aeroportuali. E' stata la possibilità di appoggiarsi a realtà come Orio al serio, Charleroi a Bruxelles, Orly a Parigi, che ha consentito alle compagnie a basso costo di innovare profondamente il mercato, forti di risparmi che in altri scali sarebbero stati inimmaginabili. Parallelamente, se ne è giovato anche "lo sviluppo del territorio" (espressione amatissima dai nostri politici), sia per l'indotto generato da un più intenso traffico aereo, sia per la rivalutazione di intere aree proprio a causa della presenza di un aeroporto attivo.
Il processo, insomma, sembrerebbe assolutamente virtuoso. Che vuole fare il ministro Bianchi? Nulla di nuovo: intende portare ordine nell'anarchia del mercato. Decidere centralisticamente quali-aeroporti-devono-fare-cosa.
Due argomenti classici dell'arsenale liberale lavorano benissimo contro questa intenzione:
- primo, la conoscenza come sempre è dispersa e localizzata. Il ministro pensa che, siccome dispone di una "visione d'insieme", possa fare meglio. Ma la sua visione d'insieme va poco oltre la mappa degli aeroporti: compagnie aeree ed operatori del turismo interagiscono in tempo reale con i consumatori, hanno un quadro delle loro preferenze più aggiornato e presente.
- secondo, appesantendo la "variabile politica", si passa dalla "anarchia del mercato" alla "arbitrarietà del potere". Si toglie spazio alla contrattazione puntuale fra compagnia ed aeroporto, passando ad uno schema nazionale che, essendo definito da persone che stanno dove stanno perché hanno avuto consenso in un'elezione democratica, dovrà analogamente tener conto delle pretese dei territori. Solo che lo sviluppo del territorio non è più una potenzialità alla quale uno scalo aeroportuale può contribuire, perché esso è interessante e sa rendersi interessante al traffico aereo. Diventa invece una "prerogativa" che i decisori politici locali cercano di "portare a casa" per sè in una negoziazione col governo di Roma.
Passare da una negoziazione di mercato a una negoziazione politica non è un gran passo avanti. La prima, poi, ha reso possibile uno sviluppo imprevisto delle compagnie a basso costo. La seconda potrà rendere possibile solo un prevedibilissimo sviluppo di nuove forme di "clientelismo aeroportuale".

sabato 11 agosto 2007

Farmaci e Coop: liberalizzare ma non troppo

Primo stop ai farmaci di classe C (su ricetta, ma non rimborsabili) nei supermercati: nei DS, passa la linea del ministro Turco, tempi duri per l'emendamento di Sergio D'Elia. Il Giornale parla di "coitus interruptus" del governo.
Certo spiace che un esecutivo che aveva se non altro mostrato determinazione nel prendere di petto la corporazione dei farmacisti, ora ammaini anche quella bandiera.
I diessini hanno bisogno di smarcarsi dalle Coop, indicate dalla stampa come gli unici veri beneficiari dell'allargamento della distribuzione dei farmaci da banco?
Forse. Fatto sta che indirizzare per quei canali anche le medicine non rimborsabili sarebbe stato utile. Anche per giustificare la spesa del "commesso in camice bianco" assunto dai supermarket. Per fare delle farmacie davvero dei "presidi del SSN". Tuttavia, per il ministro Turco, si tratta di "farmaci... da erogare quindi necessariamente accompagnati dal consiglio di esperti e in luoghi sicuri".
Ma non c'è il farmacista, nei corner nelle Coop? Se è un farmacista licenziato dalle stesse università in cui si è laureato il farmacista proprietario, come si fa a considerarlo "meno esperto"?
Più in generale, perché un supermercato non dovrebbe essere un "luogo sicuro"? Cosa c'è nel grande mall che lo rende più pericoloso del piccolo esercizio?

venerdì 10 agosto 2007

Se Bersani e Catricalà fanno il gioco dell'oca

Il dibattito estivo sui prezzi dei carburanti ha, se non altro, contribuito ad attirare l'attenzione sul tema della necessaria liberalizzazione della rete di distribuzione. Il presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà ha detto che "i nostri distributori devono rendersi conto che non possono fare l'unico profitto sulla benzina, occorre che abbiano anche altri prodotti". Il consigliere per le questioni petrolifere del ministro dello Sviluppo economico, Umberto Carpi, che oggi presiederà il tavolo tra ministero e compagnie, è pervenuto a conclusioni simili. Ma allora, se questo è il problema, viene da chiedersi di cosa abbiamo parlato per giorni. E viene da chiedersi, visto che lo stesso Catricalà riconosce che il differenziale con l'Europa dipende soprattutto da problemi di rete, perché mai l'Antitrust mantenga aperta una procedura che poggia su fondamenta fragili per usare un eufemismo.

Liberalizzare vuol dire rimuovere una marea di vincoli che impediscono una reale e piena concorrenza nel settore della distribuzione dei carburanti in rete: cancellare le barriere all'avvio di nuovi impianti ma anche quelle alla diversificazione del mix merceologico dei distributori; eliminare gli assurdi limiti a orari e turni; ed eliminare (come, giustamente, la "lenzuolata" di Pierluigi Bersani già ha cominciato a fare) le difficoltà all'apertura di stazioni di rifornimento presso super- ed ipermercati. Ma per fare questo ci vogliono coraggio e visione, perché l'opposizione sarà fortissima: dai gestori degli impianti (unici in Europa a essere organizzati in sindacati, e forse questo tema sarebbe più meritevole dell'attenzione dell'Antitrust) alle regioni, che oggi rappresentano la più resistente incrostazione legale.

Se dunque questo è il problema, il teatrino a cui abbiamo assistito in questi giorni è semplicemente ridicolo. Anziché parlare della questione vera - nelle stesse parole di Carpi e Catricalà, e con buona pace di Alfiero Grandi - e tentare di risolvere nodi che sono tutti politici, il governo ha convocato i petrolieri dando la sensazione di perseguire un obiettivo che nulla ha a che fare col prezzo della benzina: come ha scritto Alberto Clò, pare di aver assistito a una sorta di gioco dell'oca tra ministero e Antitrust, nel quale entrambi hanno tentato di accreditarsi presso l'opinione pubblica come i cavalieri bianchi che avrebbero sconfitto il caro-pieno.

giovedì 9 agosto 2007

Piove sempre sul bagnato

Massimiliano Trovato, nel suo ultimo post, giustamente esprime soddisfazione per il fatto che l'Autorità del garante della concorrenza e del mercato pare avere aperto gli occhi su Poste italiane. Quindi, ogni tanto, qualche spiraglio si apre.
Ma in generale, purtroppo, piove sempre sul bagnato. Si continua a regolare ciò che è già straregolato. Un esempio. La pubblicità dei medicinali è riservata a pochi prodotti (quella da automedicazione), mentre sulla più parte delle medicine grava un bando europeo all'informazione (Carlo Stagnaro ed io ce ne siamo occupati in uno dei primi Briefing Paper dell'IBL). Che cosa fa il ministro Turco? Ficca il naso nei contenuti pubblicitari relativi alle poche medicine di cui è possibile fare uno spot, per insegnare ai pubblicitari a parlare più piano.
Si tratta per inciso degli stessi prodotti la cui vendita è stata "liberalizzata" dal suo collega Bersani. Per i quali quindi i pazienti/consumatori avranno più opportunità d'acquisto, ma informazione ancora più regolata alla fonte, quindi più costosa, quindi disincentivata. Come dire che potremo comprare in più posti qualcosa rispetto alla quale saremo meno informati. Non è un problema per i prodotti da banco già forti e con un brand consolidato: ma per quelli nuovi, ai quali la pubblicità serve per farsi conosceere?
In generale, però, è un altro aspetto quello veramente irritante. L'assunto di base di questo provvedimento, come al solito, è che il consumatore è un fesso, incapace non dico di leggere, ma persino di accorgersi (dopo anni e anni che prende l'aspirina!) dell'esistenza del "bugiardino". Stato regolatore, o Stato mamma?

martedì 7 agosto 2007

Poste Italiane: IBL chiama, Catricalà risponde (kind of...)

L'ambizione di chi fa il nostro lavoro è certamente quella di dare diffusione alle idee, ma anche quella d'influenzare la pratica azione di politici e funzionari. Non sappiamo se questo sia il caso, e non è certo determinante. Ciò che balza all'occhio - con soddisfazione - è che qualcuno, all'AGCM, si sia finalmente accorto delle storture - per usare un eufemismo - del settore postale ed abbia deciso di guardare più a fondo (qui il comunicato; qui il provvedimento). Per parte nostra, avevamo denunciato la situazione in questo Briefing Paper e, soprattutto, in questo Focus, dedicato al tema specifico delle Agenzie private di recapito, la cui marginalizzazione ad opera di Poste Italiane ha dato il la all'indagine dell'Antitrust. Secondo l'Autorità:
[...] gli accordi di fornitura stipulati nel periodo dicembre 2000- gennaio 2007 con i concorrenti precedentemente titolari di concessione di servizi postali, insieme alle previsioni contenute nel Bando di gara emanato nel maggio 2007, potrebbero configurare una strategia unitaria di POSTE mirante a estendere e rafforzare la propria posizione dominante sui mercati dei servizi attualmente liberalizzati e su quelli che lo saranno in un prossimo futuro.
Esattamente la tesi da noi sostenuta. Ora, se veramente a Piazza Verdi si consultino le nostre analisi non ci è dato sapere, sebbene questa bella intervista ad Antonio Pilati, autorevole componente dell'AGCM, autorizzi a crederlo; ma che - nel caso specifico - si sia giunti alle nostre medesime conclusioni, e s'intenda combattere un vero monopolio (alias un monopolio pubblico) è di per sé una notizia da celebrare.

venerdì 3 agosto 2007

Sanità, o cara

Oggi Daniele Capezzone, presidente della Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati e deus ex machina di Decidere.net, ha un articolo molto istruttivo sul Wall Street Journal. Il link è sub only, e pertanto mi permetto di fare una breve sintesi degli argomenti di Capezzone. Che sono da leggere e meditare, perché attengono uno dei più importanti servizi alla persona, specie - come giustamente egli stesso rimarca - in una fase nella quale l'invecchiamento della popolazione è una novità entusiasmante per la popolazione, appunto, ma tragica per le casse dello Stato.
Capezzone sfida a distanza Michael Moore, sostenendo che:
It is both a tragedy and an embarrassment that Europe hasn't kept up with the U.S. in saving and improving lives. What's to blame? The Continent's misguided policies and state-run health-care systems. The reasons vary from country to country, but broadly speaking, the custodians of public health budgets aren't devoting the necessary resources to get patients the most modern and advanced medicines, and are happier with the status quo. We often see news headlines about promising new cures and vaccines next to headlines about patients who can't get life-saving drugs as politicians impose ever stricter prescription controls on doctors.
The human toll can be measured in deaths and unnecessary suffering. It also costs us a lot of money. Prevention is cheaper than treatment. Modern medicine can prevent many medical complications that would otherwise require hospitalization and other expensive care. For every euro spent on new medicine, national health-care systems could save as much as €3.65 in later treatments, according to a National Bureau of Economic Research study.
This situation is especially dire in Italy. The government has capped spending on pharmaceuticals at 13% of total health-care expenditures while letting expenses for infrastructure and staff skyrocket. From 2001 to 2005, general health expenses in Italy grew by 31% while expenditure on medicines increased a mere 1.7%. Italian patients might well have been better off if the reverse was the case, but the state bureaucrats who make these decisions refuse to acknowledge the benefits of advanced drugs.
Also as a result, pharmaceutical research in Italy is falling behind even faster than in the rest of Europe. In 2004, pharmaceutical R&D spending was €3.9 billion in Germany, €3.95 billion in France and €4.78 billion in Britain, compared to only €1.01 billion in Italy.

Cosa aggiungere? Che l'aumento della spesa farmaceutica pubblica non può essere una soluzione, francamente, e pertanto misure di contenimento anche drastico sono necessarie.
Il punto è che il contenimento non diventi razionamento. Perché questo sia il caso, bisogna cambiare il bilanciamento fra pubblico e privato. Togliere terreno alla sanità pubblica.
E, sul fronte della ricerca, liberalizzare. Che vuol dire, su questo fronte, ridurre il potere discrezionale delle agenzie del farmaco, e sapere che se è vero che la sicurezza nella ricerca è una domanda sociale, è pur vero che il principio di precauzione segna la morte non solo del rischio, ma anche della speranza.

giovedì 2 agosto 2007

Breaking News: Prodi, sì alla flat tax

Nella sua lettera al Corriere su fede e tasse, il presidente del Consiglio Romano Prodi scrive: "Finché il peso [del fisco] non sarà distribuito equamente fra tutti in proporzione dei loro redditi vi sarà sempre ingiustizia e mancherà all'Italia quel senso di solidarietà che condiziona il progresso di ogni paese moderno". Scartando l'ipotesi che il premier utilizzi le parole a casaccio, il testo è chiarissimo: Prodi sostiene che in un paese moderno ciascun contribuente paga "equamente" e "in proporzione al suo reddito". Cioé il sistema di imposte progressivo è ingiusto e indegno di un paese civile. A questo punto ci aspettiamo un ddl governativo per la riforma fiscale nel segno della flat tax.

mercoledì 1 agosto 2007

Un giornale di mercato, sul mercato, per il mercato

L'acquisto di Dow Jones da parte di Rupert Murdoch riempie i giornali. In Italia, si scatenano i commenti. E' normale, in un Paese nel quale in molti (e molte persone intelligenti e perbene) sono convinti che il modo migliore per garantire l'indipendenza della stampa sia sostanzialmente evitare che i giornali possano essere contendibili.
Invece chi crede nel mercato si sente scaldare il cuore, leggendo l'editoriale che il Wall Street Journal stesso ha dedicato oggi al suo nuovo padrone. Questo il passo saliente:

Both the New York Times and the Financial Times have been especially aggressive in assailing the potential News Corp. purchase of the Journal. These also happen to be the two publications that Mr. Murdoch has explicitly said he might invest more to compete against. Readers can judge if the tears these papers and their writers claim to shed for the Journal's future are real, or of the crocodile variety.

The nastiest attacks have come from our friends on the political left. They can't decide whose views they hate most -- ours, or Mr. Murdoch's. We're especially amused by those who say Mr. Murdoch might tug us to the political left. Don't count on it. More than one liberal commentator has actually rejoiced at the takeover bid, on the perverse grounds that this will ruin the Journal's news coverage, which in turn will reduce the audience for the editorial page. Don't count on that either.

Such an expectation overlooks that the principle of "free people and free markets" promoted in these columns has an appeal far beyond this newspaper. We fill a market niche for such commentary that is too little met by other newspapers and media outlets. But we have every confidence that if we vanished, or let our standards fall, the marketplace would find an alternative. What ultimately matters are the ideas, and their basic truth.