lunedì 30 giugno 2008

Oscar per il miglior film realizzato da un'autorità antitust

... and the winner is:

"Leniency in cartel cases", diretto da Nederlandse Mededingingsautoriteit!




ps. un'affascinate confutazione della teoria Weberiana sulla nascita del capitalismo nei paesi protestanti spiega l'arresto dello sviluppo economico nei paesi cattolici con l'istituto della delazione nella Controriforma: poichè denunciando un "eretico" era possibile intascare parte dei suoi beni, la delazione creava incentivi potentissimi a denunciare gli impreditori migliori e di maggior successo, che a questo punto ben pensavano di emigrare in quei paesi in cui vi era maggiore libertà religione, contribuendo così alla nascita del capitalismo nei paesi protestanti (nonché del mito Weberiano).

sabato 21 giugno 2008

Strategie di risanamento ferroviario

Dopo aver abolito da molto tempo puntualità dei treni e pulizia delle carrozze, le Ferrovie hanno annunciato l'ennesima soppressione: questa volta tocca ai vagoni ristorante. La decisione di Moretti, motivata dalle perdite del servizio, permette di prevedere la prossima tappa: abolire le Ferrovie. Visto quanto perdono....

P.S.: Ma perchè l'azionista Tesoro non chiede a FS semplicemente di sopprimere le inefficienze? Anzi, in fondo non è neppure necessario che lo faccia; è sufficiente che:
  1. societarizzi le differenti tipologie di servizio (lunga distanza, regionale, merci) separandole dalla rete e destinandone la proprietà al mercato;
  2. liberalizzi l'accesso alle rete, aprendola alle compagnie che desiderano svolgere il servizio del trasporto;
  3. affidi a una nuova società una certa quota (ad esempio il 20%) del materiale rotabile di FS (carrozze e locomotori), e in ogni caso tutto il materiale che FS non usa, vagoni ristoranti compresi, affinchè lo possa dare in locazione alle nuove compagnie che sorgeranno.

Sono sicuro che il mercato sarà in grado di ridarci l'amato vagone ristorante al posto del gommoso panino morettiano della compagnia pubblica.

venerdì 20 giugno 2008

Lasciamo lavorare il manovratore

E' vero, c'è la Robin Hood tax - sulla quale, nonostante Massimiliano Trovato oramai scriva le battute a Tremonti, come Istituto abbiamo espresso pareri critici perché informati (per un altro parere critico, informato e per nulla antipazzante verso il Pdl, si veda qui). E' vero, c'è un aumento della tassazione su banche ed imprese che equivale ad una "tassa sulla borsa" - e che sembra presupporre, perlomeno nella vulgata, che tasse più alte le paghi il management e non gli azionisti (colpiremo i banchieri!), una corbelleria. Sul Foglio di oggi, Michele Boldrin parla di "peronismo economico". Utile e condivisibile commento sulla mentalità sottesa a questi provvedimenti: qui. C'è la faccenda - su cui i critici tacciono, e gli ammiratori suonano le campane - della "mancia" a Telecom per la banda larga.
Tutto vero. Ma se effettivamente, oltre a misure sacrosante (e rivoluzionarie) sul lavoro e sulla pa, si liberalizzassero servizi pubblici locali e servizi postali, non vivremmo in un'Italia migliore?
Non voglio dire che il gioco valga la candela, temo che se la situazione politica s'incrina della manovra resterà il peggio e si arenerà il meglio, non sono entusiasta del fatto che la centralità assunta da Tremonti in questa fase finalmente ci consenta di poter prevedere chi sarebbe primo ministro, se domani a Berlusconi ci venisse uno sciopone. Però forse, oltre a un po' di paura, qualche speranza possiamo concedercela, no?

lunedì 16 giugno 2008

Il vero conflitto d'interessi

Ovvero, come fara' Moratti a pagare lo stipendio di Ibrahimovic dopo che Tremonti avra' introdotto la sua Robin tax?

sabato 14 giugno 2008

Alitalia e il Tesoro (s)perduto

Nella prima metà degli anni '90 l'Italia avviò un impegnativo processo di riforma delle imprese pubbliche, caratterizzato da alcuni provvedimenti chiave:

  1. la trasformazione giuridico-istituzionale delle imprese pubbliche non s.p.a., requisito indipensabile per avviare in seguito processi di privatizzazione;
  2. la definizione di regole per le privatizzazioni e l'inserimento in programmi di privatizzazione delle imprese pubbliche che potevano essere oggetto d'interesse di investitori privati;
  3. la riforma della regolazione delle utilities attraverso la creazione di Autorità indipendenti di regolazione (l'Autorità per l'energia nel 1995 e l'AGCOM due anni dopo);
  4. l'assegnazione dell'esercizio della funzione proprietaria sulle partecipazioni pubbliche al Ministero del Tesoro (ora MEF, Ministero dell'Economia e Finanze).

Nel realizzare questo percorso, positivo per gli obiettivi generali perseguiti ma molto meno per le modalità adottate, gli obiettivi intermedi e i vincoli accolti, i governi di allora (e neppure i successivi) non si accorsero di un 'fallimento' rilevante che può essere definito come 'paradosso delle privatizzazioni':

  1. quando la proprietà di un'impresa passa dal settore pubblico a quello privato l'effetto atteso più rilevante è la crescita dell'efficienza produttiva che permette di ridurre i costi unitari di produzione e aumentare i profitti;
  2. le aziende pubbliche che possono essere oggetto di privatizzazione sono tuttavia solo quelle che realiz­zano livelli già soddisfacenti di efficienza produttiva, chiudono i bilanci in utile e sono in tal modo in grado di attrarre l'interesse dei sottoscrittori privati;
  3. le aziende pubbliche molto inefficienti e con bilancio in pesante deficit non sono privatizzabili, pertanto non è possibile accrescere la loro efficienza produttiva attraverso la privatizzazione;
  4. la privatizzazione, in conseguenza, accrescerà ulteriormente l'efficienza delle imprese pubbliche già abbastanza efficienti, aumentando il divario rispetto alle altre.

Vi è inoltre un secondo lato della medaglia, anch'esso problematico, relativo alla regolazione di questi settori produttivi:

  1. per i settori produttivi interessati da processi di privatizzazione una legge generale sulle privatizzazioni del 1994 aveva richiesto l'istituzione di Autorità indipendenti di regolazione;
  2. in tal modo si eliminava la possibilità per i governi di far ricadere obiettivi atipici di politica economica, o di politica tout cort, sulla gestione delle aziende privatizzate, evitando agli azionisti il rischio di caduta della redditività delle imprese e del valore delle azioni, conseguente all'apposizione da parte del soggetto pubblico di obiettivi discrezionali sulla gestione delle aziende;
  3. una regolazione indipendente, realizzata su basi esclusivamente tecnico economiche, ha (soprattutto) il vantaggio di proteggere i consumatori dal potere di mercato di gestori non concorrenziali, ponendo vincoli ai prezzi che essi possono praticare o alla loro crescita nel tempo; in tal modo il miglioramenti dell'efficienza produttiva delle aziende privatizzate va anche a favore dei consumatori anzichè tradursi esclusivamente, trasformando l'inefficienza produttiva dei monopoli pubblici in inefficienza allocativa dei monopoli privatizzati, in maggiori profitti peri gestori;
  4. le Autorità indipendenti, per contro, non sono state istituite nel caso italiano per i settori le cui aziende pubbliche erano talmente inefficienti (trasporti, servizio postale) da non poter neppure essere privatizzate; in tal modo, tuttavia, non sono stati attivati meccanismi per evitare la ricaduta su queste aziende di obiettivi politici e neppure per proteggere i consumatori, dal lato dei prezzi e della qualità, dalle scelte inefficienti dei gestori (un esempio per tutti: l'abolizione nel 2006 del francobollo ordinario delle lettere e, contemporaneamente, della qualità della corrispondenza prioritaria);
  5. in tal modo queste aziende già molto inefficienti hanno potuto continuare a rimanere tali, o anche a peggiorare le loro performance (Alitalia, recapito postale, trasporto locale ferroviario e su gomma, Tirrenia), associando in tal modo inefficienza produttiva e inefficienza allocativa.

La nostra medaglia sulle imprese pubbliche italiane non ha ancora esaurito le sue faccie. Mi perdoneranno i numismatici ma qui ve ne è persino una terza, legata al ruolo del Tesoro come azionista:

  1. affidare la gestione dei processi di privatizzazione al Tesoro era una scelta ovvia e ampiamente condivisibile; affidare al Tesoro l'esercizio della funzione proprietaria sulle partecipazioni privatizzande e sulle quote residuali delle imprese parzialmente privatizzate pure; ma per le imprese pubbliche non privatizzabili perché troppo inefficienti è lecito esprimere qualche dubbio;
  2. in questo caso, infatti, la risposta è positiva solo nel caso in cui il Tesoro fosse stato in grado di gestirle in un logica industriale, profondamente differente dalla logica finanziaria accettabile per la prima tipologia;
  3. il grosso problema è che il Tesoro non è stato in grado di farlo; a distanza di quasi un quindicennio nessuna di queste imprese è fuoriscita dall'occhio del ciclone, nessuna ha risanato i bilanci (tranne le Poste, ma ho spiegato in un'altra occasione come vi è riuscita), nessuna si caratterizza per performance industriali accettabili, nessuna opera in mercati liberalizzati (tranne Alitalia, per scelte dell'Europa e non certo nostre);
  4. poichè molte di queste imprese operano nel settore dei trasporti, anzi, se prese assieme, coprono praticamente tutta l'offerta collettiva di trasporto (sia merci, che passeggeri), la conseguenza è che in Italia il trasporto non funziona (le merci esportate dall'Italia per via area partono dall'aeroporto di Francoforte mentre le merci che dal sud est asiatico sono destinate alla pianura padana vengono sbarcate a Rotterdam) e non abbiamo ancora un servizio postale (né pubblico, perchè non funziona, nè privato perchè in parte vietato dalle leggi e in parte impedito dal regolatore, pubblico ma non indipendente);
  5. se il trasporto non funziona, non si comprende neppure come possa funzionare il sistema economico; ci vorrebbe Willy Wonka come Ministro dei Trasporti, visto che era in grado di teletrasportare (purtroppo solo cinematograficamente) le barrette di cioccolato;
  6. Alitalia è sull'orlo del fallimento e le altre non se la passano molto bene, tanto che si parla ormai frequentemente di 'Alitalia prossime venture', ma dal ministero dell'Economia e delle Finanze non si vedono ancora segnali di un cambiamento dall'approccio finanziario alle partecipazioni pubbliche, sinora dominante, ad un approccio industriale in grado di 'pensare' al risanamento di queste aziende prima che si instradino definitivamente sulla rotta di Alitalia, come accadrà inevitabilmente dopo la liberalizzazione dei rispettivi mercati.

Alitalia è un caso emblematico: ha chiuso in utile un solo bilancio nell'ultimo ventennio (il che deve essere avvenuto, intendo il solo esercizio in utile, per qualche inspiegabile errore che sarebbe interessante accertare); opera in un mercato completamente liberalizzato da dieci anni a questa parte (almeno sui cieli europei, sui quali volano tre passeggeri Alitalia su quattro); il settore è stato oggetto di crisi e turbolenze rilevanti (l'11 settembre, la Sars cinese, il nuovo shock petrolifero); l'azienda non potrebbe più ricevere sovvenzioni dal suo azionista principale sino al 2011; le altre grandi aziende, Usa ed europee sono state oggetto di ristrutturazioni talvolta pesanti e fusioni quando non amministrazioni controllate e fallimenti. Cosa ha fatto Alitalia in tutto questo tempo, nel quale ci saremmo aspettati almeno tre o quattro piani impegnativi di ristrutturazione: assolutamente nulla. Cosa ha fatto il Tesoro in tutto questo tempo su Alitalia: assolutamente nulla.

In realtà qualcosa hanno fatto che sarebbe stato invece meglio non fare.

Alitalia: pur avendo meno di trenta aerei idonei al lungo raggio, dieci anni fa ha raddoppiato il suo hub, aprendo Malpensa e gestendolo con dipendenti in onerose trasferte da Roma, ma dopo soli tre anni dall'inaugurazione, dopo l'11 settembre, ha drasticamente ridotto l'offerta intercontinentale senza più ripristinarla nei precedenti livelli ma continuando a mantenere il doppio hub per altri sei anni (sino a tre mesi fa).

Tesoro: ha concesso ai vertici Alitalia remunerazioni stellari, tra le più elevate dei vettori europei, per risultati economici sotto terra, i peggiori tra tutte le compagnie di bandiera; un anno e mezzo fa il Governo Prodi si è finalmente deciso a vendere l'azienda, unica scelta approvabile, ma il bando del Tesoro ha zavorrato la procedura con così tante condizioni per l'acquirente da rendere l'azienda non risanabile; nessun compratore, comprensibilmente, ha accettato. Ha quindi riprovato con Air France ma ha permesso che il vero azionista di Alitalia, il sindacato, la mettesse in fuga. Il vettore francese, che era l'unico soggetto interessato ad essere dotato di indiscutibile solidità economica e competenza industriale nel settore, aveva elaborato un piano di ristrutturazione molto serio ma non drastico che non potrà essere ripetuto da nessun altro, neppure dallo stesso vettore francese se decidesse di ritornare sui suoi passi. Bastava avere il coraggio di porre a referendum, nonostante il parere contrario dei sindacati, la proposta di Air France (si sarebbe ottenuto l'85% di adesioni dei lavoratori) e oggi Alitalia sarebbe un problema della compagnia francese ma non più del contribuente italiano. Infine, ciliegina sulla nostra torta, in ben due occasioni nel corso della procedura di privatizzazione ha lasciati i vertici di un'azienda in così grave crisi privi di una guida operativa manageriale: la prima volta è avvenuta al momento dell'uscita di Cimoli, quando ai vertici di Alitalia fu designato il prof. Libonati, insigne giurista ma certo non manager di imprese aeronautiche; la seconda volta all'inizio dello scorso aprile, con le dimissioni dell'Ing. Prato.

Il risultato è che oggi Alitalia, sull'orlo del fallimento, è gestita da un consiglio di amministrazione ridotto ai mimimi termini, all'interno del quale nessun componente apporta competenze di gestione di imprese di trasporto aereo; inoltre non ha neppure un direttore generale come guida operativa. Purtroppo, coerentemente con la logica con la quale il Tesoro ha gestito le partecipazioni pubbliche dagli anni novanta ad oggi, la mission che si riconosce è di trovare un compratore per l'azienda, non di risanarla. Ma se non si elaborano idee per risanarla, e dovrebbe essere in primo luogo nell'interesse del venditore farlo, non si troverà neppure un compratore. Questo vale per Alitalia e per tutte le altre aziende pubbliche nel limbo le cui reali criticità emergeranno con le liberalizzazioni dei rispettivi mercati. Alitalia, in fondo, è la più efficiente di queste aziende e ne rappresenta una piccolissima frazione (dei costi e delle inefficienze totali). Se se non si acquisiranno in tempi rapidi competenze per il loro risanamento sarà una catastrofe per il settore pubblico e l'economia nazionale.






martedì 10 giugno 2008

Italia libera al 47 per cento. Oggi presentazione dell'Indice 2008

L'Indice delle liberalizzazioni 2008 valuta al 47 per cento il grado di liberalizzazione dell'Italia, sulla base dell'analisi di dodici settori chiave della nostra economia. Lo studio, condotto annualmente dall'IBL, misura l'esistenza di barriere all'ingresso sui mercati analizzati.

Il rapporto sarà presentato oggi a Milano, a partire dalle ore 18,00 presso Palazzo Affari ai Giureconsulti (Piazza Mercanti 2). Interverranno Federica Guidi (presidente, Gruppo giovani imprenditori Confindustria), Massimiliano Magrini (country manager, Google Italia), Alessandro Ortis (presidente, Autorità per l'energia), Stefano Parisi (amministratore delegato, Fastweb) e Giuseppe Rotelli (presidente, Gruppo ospedaliero San Donato). Coordinerà i lavori Gianfranco Fabi (vicedirettore, Il Sole 24 Ore).

Dice Alberto Mingardi, direttore generale dell'IBL: "l'Indice delle liberalizzazioni vuole essere uno stimolo alla classe politica a prendere sul serio la sfida delle liberalizzazioni, che è uno degli snodi su cui si gioca il futuro della competitività del nostro paese. Inserendo anche alcuni settori 'anomali' - quali mercato del lavoro, fisco e pubblica amministrazione - abbiamo inteso sottolineare come l'idea di liberalizzazione sia a tutto tondo, e riguardi l'intera società. Solo rimuovendo le barriere che impediscono l'accesso ai mercati, il paese potrà ripartire".

L'Indice delle liberalizzazioni censisce dodici settori dell'economia italiani, confrontandoli col paese più liberalizzato d'Europa. I dodici settori sono: elettricità (74 per cento), gas naturale (56 per cento), telecomunicazioni (35 per cento), servizi idrici (27 per cento), trasporto ferroviario (49 per cento), trasporto aereo (70 per cento), trasporto pubblico locale (46 per cento), servizi postali (39 per cento), professioni intellettuali (46 per cento), mercato del lavoro (35 per cento), fisco (52 per cento), pubblica amministrazione (39 per cento). L'Indice per l'economia italiana si assesta al 47 per cento. L'intero rapporto è disponibile cliccando qui. Commenta Carlo Stagnaro, direttore Ricerche e studi dell'IBL e curatore dell'indagine: "il grado di liberalizzazione dell'economia è grosso modo stabile, ma la dinamica è preoccupante. Infatti, a fronte di alcuni settori che migliorano il loro grado di liberalizzazione grazie alle dinamiche inerziali - cioè alla fiducia degli operatori che sfruttano le opportunità offerte dalla liberalizzazione, pur essendo sostanzialmente invariato il set di regole - in alcuni casi, e in particolare per le telecomunicazioni e il mercato del lavoro, si rilevano significativi passi indietro dovuti alla volontà politica di interferire col funzionamento del mercato. La tenuta del sistema, dunque, non deve nascondere che nessuno dei problemi esistenti l'anno scorso è stato risolto, e altri se ne sono aggiunti".

L'Indice delle liberalizzazioni sarà presentato oggi a Milano, a partire dalle ore 18,00 presso Palazzo Affari ai Giureconsulti (Piazza Mercanti 2). RSVP: eventi@brunoleoni.it - 338 390 3217

Mercato elettrico
Rispetto al 2007 l'indice di liberalizzazione del mercato elettrico è migliorato di 2 punti, confermandolo come il settore maggiormente liberalizzato (74 per cento rispetto al benchmark inglese). L'elevato livello di liberalizzazione è dovuto a diversi fattori tra cui si possono ricordare: ottimo livello di separazione, presenza di strutture di mercato che permettono l'incremento della capacità di generazione. Infatti tutti gli indici di concentrazione calcolati dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas vedono una continua riduzione. La criticità più grande è riscontrabile nella presenza di grandi quote di domanda che non utilizzano il mercato libero, il quale può dare vita ad importanti riduzioni di prezzo. Infatti i valori di switching factor sono di molto inferiori al livello inglese.

Mercato del gas
Rispetto al mercato dell'elettricità, quello del gas naturale vede un minor livello di liberalizzazione. Infatti, il valore dell'indice (con benchmark il mercato inglese) si è ridotto rispetto all'anno precedente di 2 punti, arrivando al valore del 56 per cento. Questo risultato è il frutto delle modificazioni intervenute nella fase di downstream. Infatti, nell'ultima parte della filiera produttiva si riscontra una diminuzione dello switching factor relativo (cioè il numero di clienti che hanno utilizzato il mercato libero rispetto alla situazione inglese). Le altre fasi della filiera produttiva hanno invece assistito ad una modificazione positiva. L'indice di Hhi nella fase di upstream negli ultimi è stato oggetto di una marcata riduzione (-700 punti). La criticità presente in questo mercato è da imputarsi al fatto che il processo di liberalizzazione ha dato vita a benefici per i clienti di grandi dimensioni ma non ha dato risultati tangibili ai clienti medi e piccoli.

Servizi idrici
Il grado di liberalizzazione del settore dei servizi idrici è pari al 27 per cento, stabile rispetto al 2007. Lo scarso risultato dipende dalla frammentazione del settore, e dal suo permanere ostaggio di fatto di soggetti pubblici, anche quando la normativa consentirebbe altrimenti. Il quadro regolatorio è complesso e variegato e ciò costituisce di per sé una barriera all'ingresso. La gestione dei servizi idrici è solo occasionalmente affidata ai privati; pubblica è pure la proprietà delle reti, per le quali la privatizzazione è addirittura resa inagibile ex lege. La coincidenza di questi due fattori determina una grave condizione di conflitto di interessi, la quale a sua volta si ripercuote - assieme al generale assetto del settore - in una drammatica carenza di investimenti. Pure il livello di concorrenza è assai basso, in virtù dell'adozione di modalità di affidamento discrezionali e opache, l'assenza di mobilità da parte della domanda, e le difficoltà di accesso alla rete.

Telecomunicazioni
Il settore delle telecomunicazioni resta poco liberalizzato, con un punteggio in calo dal 40 al 35 per cento. Sebbene il mercato abbia lanciato dei segnali d'innovazione in grado di stimolare una più intensa concorrenza, a cominciare dal lancio di servizi integrati e della telefonia su protocollo IP, ciò non ha neppure in parte colmato il gap rispetto all'Europa, ed al paese benchmark in particolare - soprattutto per la sovrapposizione di diverse evoluzioni della regolamentazione del settore che hanno avuto un impatto decisamente negativo. In particolare, l'abolizione dei costi di ricarica per le carte prepagate introduce un elemento dirigistico in un campo fino a ora largamente liberalizzato. Ma soprattutto a recar danno alla credibilità del mercato è stato l'intervengo a gamba tesa del governo, tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007, contro alcuni potenziali acquirenti dell'ex monopolista telefonico. Come effetto collaterale, lo scontro tra politica e azionisti ha portato a uno stallo nel processo di separazione funzionale della rete telefonica fissa, di fatto cristallizzando il maggior ostacolo all'effettiva concorrenza.

Trasporto Aereo
Nel settore del trasporto aereo si è avuto un grande miglioramento dal punto di vista del grado di liberalizzazione. Le norme europee, le decisioni a livello comunitario e la crisi Alitalia hanno permesso al mercato italiano di crescere continuamente nell'ultimo decennio. Il punteggio cresce dal 66 per cento del 2007 al 70 per cento del corrente anno rispetto al benchmark irlandese. Nel 2007 l'eliminazione delle restrizioni delle rotte da e verso la Sardegna ha permesso di migliorare la liberalizzazione del mercato del trasporto aereo italiano. L'accordo Open Skies raggiunto tra Unione Europea e Stati Uniti, entrato in vigore solamente nel 2008, permette inoltre una liberalizzazione delle rotte atlantiche. Il mercato italiano rimane ancora poco sviluppato ed ha grandi potenzialità di crescita. La liberalizzazione delle rotte intercontinentali potrebbe abbassare l'impatto negativo che la crisi Alitalia avrà nel 2008 sul mercato del trasporto aereo italiano. Il trend del settore è sicuramente positivo grazie alle decisioni comunitarie.

Trasporto ferroviario
L’Italia ottiene un punteggio pari al 49 per cento di quello raggiunto dai paesi benchmark, Svezia e Gran Bretagna, in linea con il punteggio ottenuto lo scorso anno. Il valore rimane insufficiente e denota una mancanza effettiva di apertura del mercato. A livello normativo l’Italia evidenzia una buona liberalizzazione, sebbene l’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria, esterna ed indipendente da Rete Ferroviaria Italiana, resti sotto il controllo del ministero dei trasporti. La mancata separazione proprietaria tra Rfi e Trenitalia rimane uno tra i principali punti deboli del mercato del trasporto ferroviario italiano. In Italia è presente una stagnazione del mercato passeggeri. Nel mercato inglese sono entrati nuovi player stranieri tramite acquisizioni e si conferma un mercato molto competitivo con bassi sussidi pubblici. Il settore del mercato passeggeri non ha conosciuto un’entrata importante di nuovi operatori, mentre nel trasporto merci, per quanto riguarda il mercato internazionale, gli operatori concorrenti a Trenitalia Cargo stanno riuscendo a guadagnare quote di mercato, nonostante molte barriere all’ingresso.

Trasporto Pubblico Locale
Il settore del trasporto pubblico locale risulta essere in Italia insufficientemente liberalizzato. Il punteggio ottenuto è il 46 per cento di quello raggiunto dal paese benchmark, la Gran Bretagna, in linea con il risultato dello scorso anno. La riforma italiana del trasporto pubblico locale, iniziata a metà degli anni novanta, è ancora incompiuta; manca tra l'altro ancora un'obbligatorietà della procedura di gara per l'assegnazione del servizio. Sono riscontrabili forti barriere operative ed amministrative nel settore e nel mercato non sono pressoché presenti operatori diversi da quello storico. Il mercato italiano è poco concentrato, ma è caratterizzato da piccoli monopolisti locali, che operano in maniera molto inefficiente. Il costo per vettura chilometro del Tpl italiano è circa 2,5 volte quello del mercato inglese deregolamentato e i sussidi pubblici sono ingenti. Il mercato risulta chiuso e la quota di mercato dei nuovi operatori è quasi nulla. È dunque necessaria una liberalizzazione, una separazione tra regolatore e operatori sul mercato e un aumento dell'efficienza del settore.

Servizi Postali
Il grado di liberalizzazione dei servizi postali è molto basso; infatti il punteggio ottenuto nell'indice delle liberalizzazioni del 2008 è pari al 39 per cento, sostanzialmente stabile rispetto allo scorso anno (38 per cento). Nella scorsa legislatura non è andato in porto il progetto di riforma delle Autorità di regolazione sulla base del quale le funzioni di regolazione del mercato postale sarebbero state trasferite all'Autorità garante delle comunicazioni. L'Italia dunque non solo non ha un regolatore indipendente, ma l'Universal Service Provider è interamente controllato dallo Stato. La regolamentazione dell'accesso ai servizi universali non riservati è molto stringente: infatti è richiesta la licenza per tutti i servizi dell'area universale, mentre è necessaria un'autorizzazione generale per l'accesso ai servizi non universali. L'Usp inoltre gode di un'esenzione per la globalità dei servizi prestati. La liberalizzazione normativa del settore è ugualmente scarsa. I servizi postali necessitano di una forte liberalizzazione, in modo che sia possibile una competizione tra i diversi operatori senza alcuna distorsione del mercato anche in vista della liberalizzazione europea del 2011. In definitiva è urgente separare il regolatore dal soggetto regolato.

Professioni intellettuali
La situazione rispetto al 2007 è sostanzialmente invariata. Nell'arco degli ultimi dodici mesi non si annovera alcun intervento che abbia ad avuto ad oggetto, in qualche modo, la riforma, la riorganizzazione o - magari - la liberalizzazione del settore delle professioni intellettuali. Ciò non significa che vi sia stata una totale immobilità: col Decreto Legislativo 6 novembre 2007, n. 206, si è dettata una disciplina unificata in materia di libera prestazione di servizi (anche intellettuali) da parte di cittadini comunitari operanti nel territorio italiano. Tale provvedimento possiede l'aspetto positivo di avere abrogato l'anacronistico requisito della cittadinanza italiana previsto per l'esercizio di talune professioni (architetti e ingegneri). Nondimeno, fa compiere un passo indietro alla normativa in materia di iscrizione all'albo degli avvocati: le regole precedenti concedevano la possibilità di divenire automaticamente avvocato italiano a tutti gli effetti se in possesso di un titolo equipollente conseguito in un altro paese comunitario, mentre ora viene imposto in ogni caso il superamento di un apposito esame di abilitazione.

Mercato del lavoro
Il mercato del lavoro ha conosciuto un grave arretramento del suo grado di liberalizzazione (dal 50 al 35 per cento), dovuto più che a un intervento sistematico, un efficace lavoro di guerriglia normativa, attraverso circolari e interpelli. Si è così bloccato il processo di riforma e, in molti casi, la nostra legislazione è addirittura tornata indietro di 15 o 20 anni: emblematico è il caso del lavoro a termine, dove è stata ripristinata una regola sulla eccezionalità del contratto a termine introdotta nel 1962 ed eliminata nel 2001 prima di essere reintrodotta con il pacchetto welfare. Analogamente l'intervento in materia di sicurezza sul luogo di lavoro anziché semplificare le regole e rendere efficaci i controlli, ha seguito la strada opposta. Vincoli formali e norme inesigibili spingono inevitabilmente nella direzione degli abusi e della improvvisazione che, come dimostrano i recenti accadimenti, sono alcune delle principali cause delle tante tragedie sul lavoro.

Fisco
La riduzione delle risorse private prelevate o intermediate dallo Stato (tasse e contributi), al pari della semplificazione dei meccanismiattraverso i quali questo prelievo avviene, è una essenziale forma di liberalizzazione. Per gli individui, meno fisco equivale a più libertà di disporre del proprio reddito. Per le imprese, riduzione e semplificazione fiscale riducono le barriere all'ingresso sui mercati, minori distorsioni delle dinamiche competitive, più efficienza e innovazione. Il grado di liberalizzazione fiscale dell'Italia è valutato al 52 per cento della Gran Bretagna. Tra i dati negativi, spiccano le ore che le imprese sono costrette a destinare agli obblighi fiscali (360 contro le 105 britanniche), l'elevata quota di sussidi e agevolazioni settoriali (0,4 per cento del Pil in Italia contro 0,2 del pil in Gran Betagna) e l'eccessiva tassazione delle persone fisiche. La "liberalization by taxation" è una sfida che un governo seriamente interessato alle liberalizzazioni non può trascurare.

Pubblica Amministrazione
Per definire la liberalizzazione della Pa sono state analizzate tre libertà possibili: libertà intesa come autonomia, come libertà da interferenze esterne, libertà del cittadino dalla Pa (minimizzazione dello Stato burocratico), libertà della Pa locale da quella centrale. L'Italia ha una scarsa coesione delle organizzazioni burocratiche, autonomia dal controllo politico e impermeabilità agli interessi esterni. Il livello di spesa per i servizi pubblici generali in percentuale del Pil e della spesa pubblica generale non è elevatissimo, ma sconta un'arretratezza nello sviluppo di e-government. Per quanto riguarda la libertà della Pa locale da quella centrale, l'Italia appare penalizzata sia perché il processo di devoluzione è avvenuto a favore delle regioni più che dei livelli locali di governo. Nel complesso il punteggio raggiunto nel Lib Index per la Pa in Italia è il 49 per cento rispetto al benchmark individuato nella Danimarca. Il Lib index tuttavia non permette ai paesi con una tradizione di forte presenza pubblica dei risultati molto buoni; è stato introdotto quindi anche un performance index. L'Italia ottiene un punteggio molto basso a causa di un elevato grado di burocratizzazione, di corruzione della burocrazia, ma anche per uno scarso grado di attuazione delle politiche di governo e di trasparenza delle politiche pubbliche. Nel complesso, analizzando i due indici, è possibile affermare che il grado di liberalizzazione della Pa in Italia è pari al 38 per cento, è stabile rispetto allo scorso anno.

sabato 7 giugno 2008

Due ragioni robuste contro le politiche antiimmigrazione

Vi sono almeno due ragioni, piuttosto robuste, che mi inducono a essere radicalmente contrario ai recenti provvedimenti antiimmigrazione. Esse derivano da due principi teorici ai quali ricorro molto spesso nei miei corsi di economia pubblica:

Principio paretiano: se un'azione accresce il benessere di uno o più soggetti senza che nessun altro sia danneggiato essa dovrebbe essere accolta dalla società (poiché in grado di migliorare il benessere collettivo);

Principio liberale: se un'azione, deliberata da un individuo (o da più individui in accordo tra di loro), genera effetti solo su quell'individuo (su quegli individui) allora dovrebbe essere permessa, indipendentemente dal segno e dall'intesità dei risultati che può produrre.

Proviamo ad applicare i due principi in un caso specifico: desidero assumere una domestica non dell'unione europea per accudire la casa (o per accompagnare i figli a scuola) e intendo adempiere a tutte le norme che regolano lo specifico rapporto di lavoro e allo stesso modo la mia controparte. E' evidente che in questo caso il principio paretiano è rispettato: il mio benessere aumenta, quello della domestica pure e nessun altro cittadino va incontro a riduzioni di benessere (persino il benessere dello Stato aumenta in quanto riscuote i contributi sociali e le tasse sui redditi). Anche il principio liberale è rispettato: la specifica azione genera effetti solo su noi stessi, non su terzi.

Cosa dobbiamo dire se il governo mi vieta di assumerla poichè ha emanato norme che concedono il permesso di soggiorno per ragioni lavorative solo a un contingente limitato di persone e la mia aspirante domestica non ha 'vinto' il permesso alla lotteria postale (dopo che ha dovuto acquistare a 30 euro il noto kit, contribuendo in tal modo forzosamente al bilancio del monopolista postale)? Semplicemente che queste norme sono contemporaneamente illiberali e antiparetiane e, in conseguenza, assolutamente da rigettarsi.

Il nostro paese è poco liberale in molti aspetti, non solo per il fatto che si ostina a difendere i noti bidoni nazionali (anche a costo di mantenere in monopolio e sacrificare lo sviluppo dei relativi mercati). Così facendo, tuttavia, si rivela anche stupidamente antiparetiano e rinuncia a livelli di benessere collettivo che potrebbero essere significativamente più elevati di quelli correnti.

Basta contratti a taglia unica?

Il Forum dei Giovani Imprenditori si affaccia nei telegiornali soprattutto per il malore di Berlusconi, ed è un peccato, perché meriterebbe invece di essere segnalata la presa di posizione della Presidente, Federica Guidi.
Per Epifani è una provocazione inaccettabile, ma in un'ottica di "liberalizzazioni" la prospettiva del contratto "su misura", evocata dalla Presidente, è molto interessante. Se la posizione liberista sul mercato del lavoro è quella qui ben riassunta dai redattori di noisefromamerika, e dice "No alla contrattazione nazionale, no alla definizione legislativa della tipologia dei contratti, si a un mercato del lavoro liberale supportato da forme di assicurazione fatte come il buon senso e la logica economica comandano", è notevole che, per una volta, un'esponente confindustriale abbia lanciato il cuore oltre l'ostacolo.

p.s.: Epifani dice alle imprese "tornate coi piedi per terra", ma in realtà critica soprattutto Pietro Ichino, che nel suo intervento (bellissimo) a Santa Margherita aveva pronunciato di nuovo le parole "articolo 18" e parlato di un modello di contrattazione territoriale.

venerdì 6 giugno 2008

Compleanno in famiglia

Oggi compie ottantuno anni un maestro, Sergio Ricossa. Auguri!
Da un vecchio file, questo "Guadagni o perdi, così è il capitalismo. Col comunismo si può solo perdere", che sembra scritto oggi ed invece è uscito sul Giornale nel 1997.

Ho voglia di dire che, in un certo senso, trovo noiosa la crisi economica e politica della Russia. So che rischio di non essere capito da coloro che invece la trovano drammatica. Tento lo stesso dispiegarmi. Essa non fa altro che confermare annose sensazioni, che la storia rinfocola regolarmente. La prima di queste è che il popolo russo, il quale non ha nelle ossa la cultura liberale dell’Occidente, stenta a trovare un ordine che non sia tirannico. Dategli la libertà, anche in piccola dose, e ne emerge il caos. In effetti, il buon uso della libertà è difficile pure in Occidente, nell’Occidente anglosassone, che è il depositario della tradizione liberale classica. Pure qui è raro che una economia di mercato funzioni bene. E’ raro perché occorrono innumerevoli condizioni favorevoli. L’osservazione non è di Bertinotti, è di Adam Smith, vecchia di oltre due secoli.

Nella migliore delle ipotesi, un mercato è una zona ad ingresso libero, dove gli imprenditori, che suppongono di saper proporre ai consumatori consumi migliori, tentano la sorte. Ma senza imprenditori degni del nome, il mercato vacilla. E dell’ingresso libero possono profittare prepotenti, truffatori, ladri, mafiosi, corrotti e corruttori, amici del potere politico; quel potere politico, che dovrebbe vigilare sulla lealtà della concorrenza fra le imprese, e che al contrario troppe volte trucca il gioco. L’ingresso pare libero, ma non lo è più per tutti. In Russia non esistevano imprenditori degni del nome, il comunismo ne aveva fatto il genocidio. Perché stupirsi, allora, di una crisi economica di tipo capitalistico, che giunge dopo una serie di ben più gravi crisi economiche provocate dal comunismo ?

Più sorprendente, in apparenza, è che il comunismo, dopo essersi dimostrato un sanguinario disastro storico, non sia morto e sepolto in Russia. La sorpresa, credo, non ha ragione d’essere. Il comunismo russo non è che una variante del dispotismo asiatico le cui ondate giungono da sempre in quella parte orientale d’Europa. L’abitudine a un ordine schiavistico fa sì che per molti il disordine nella libertà diventi presto insopportabile e porti a invocare il ritorno di una ferrea disciplina poliziesca e militare; se occorre, il ritorno del boia. E poi, perché stupirci della vitalità del comunismo russo, falso defunto, se perfino in Italia c’è chi continua a sventolare le bandiere rosse, talvolta senza nemmeno il pudore di cambiarne i simboli ? L’Italia ha pur essa le sue dosi di disordine, di malgoverno, di cattiva imprenditoria. Ha una tradizione liberale fragile. Ha uno stampo cattolico meno illiberale dello stampo ortodosso in Russia, e tuttavia disposto a tollerare quel mostro che è il cattocomunismo.

Nulla di inatteso, dunque, se non si è anime candide. Le cronache del nostro tempo ripetono l’ovvio, il banale: molto rumore per nulla di nuovo. Molto rumore per i crolli in Borsa, come se non si sapesse che la Borsa è un sismografo, che registra tutti i terremoti, compresi quelli il cui epicentro è lontano (ammesso che vi sia ancora qualcosa di lontano sul piante Terra). I giornalisti, se l’indice di Borsa scende, scrivono di miliardi di ricchezza bruciata; ma se l’indice di Borsa sale, non scrivono di miliardi di ricchezza creata. Le cattive notizie fanno premio sulle buone. In realtà, la ricchezza in Occidente, cioè le fabbriche, le macchine, le materie prime e i prodotti, le conoscenze tecniche, le case e gli arredi, cambia da un giorno all’altro in modo impercettibile. La Borsa non misura tali cambiamenti reali: misura, amplificandoli, speranze e timori, cambiamenti immaginari.

Ciò premesso, chi "gioca in Borsa" deve saper che affronta un rischio e che la sorte può essergli, almeno temporaneamente, avversa, soprattutto quando gli è stata a lungo favorevole. Non se la prendano con il capitalismo. La Borsa esiste solo nel capitalismo, ma il capitalismo non obbliga a usarla per "giocare". Si consoli, il piccolo risparmiatore: nemmeno i "guru" della finanza mondiale l’azzeccano sempre. Legga gli ultimi libri di Soros, pubblicati recentemente del Ponte alle Grazie, e vi troverà ammissioni di questo genere: "Devo riconoscere di aver ottenuto un certo successo. Quando durerà è un’altra questione… Correre dei rischi è una cosa dolorosa". Aggiungo una postilla: i finanzieri furbi rischiano i soldi degli altri.

La postilla mi permette di concludere che nel libero mercato niente ci obbliga a dare ad altri i nostri soldi. Nel socialismo statalista, il fisco ci obbliga a dare ai politici e ai loro amici metà dei nostri guadagni. Nel comunismo, i politici e i loro amici stabiliscono a piacer loro la totalità dei nostri guadagni.

Incompetenza aeronautica (dei media)

Lunedì scorso l'AEA, Association of European Airlines, ha pubblicato i dati di traffico delle compagnie aderenti, tra le quali Alitalia, relativi al mese di aprile. A distanza di non pochi giorni le nostre agenzie di stampa si sono accorte della pubblicazione, nella quale si evidenzia che nel mese in oggetto, il primo riferito al nuovo orario estivo, Alitalia ha perso rispetto allo stesso mese del 2007 oltre un quarto dei passeggeri. Nel riportare con risalto la notizia, la generalità degli organi di stampa sbaglia tuttavia clamorosamente la traduzione dall'inglese di un'importante grandezza economica utilizzata nell'industria del trasporto aereo:

Revenue Passenger-Kms (RPK) è, contrariamente a quanto indicato dai quotidiani di oggi, la percorrenza complessiva (in km) dei passeggeri paganti (e non i ricavi da essi generati). Sono i km percorsi da tutti i passeggeri che hanno pagato per farlo, apportando ricavi ai vettori.

La variabile RPK è molto importante perchè rappresenta la misura più precisa della domanda di trasporto aereo, migliore rispetto ai passeggeri imbarcati (passengers boarded) poichè tiene conto della differente percorrenza in km di ciascuno. L'offerta di trasporto aereo è invece misurata attraverso i posti-km offerti (Available Seat-Kms, ASK), variabile che misura la percorrenza complessiva di tutti i posti passeggero a bordo, sia che essi siano stati venduti o siano rimasti vuoti. Anche in questo caso si tratta di una misura più precisa rispetto ai soli posti offerti poichè tiene conto del differente chilometraggio. Il rapporto tra RPK e ASK è il load factor (LF) , il quale misura il tasso di occupazione dei posti. Le tre grandezze sono fondamentali per comprendere la solidità gestionale del vettore aereo: i costi sono sostenuti per offrire ASK ma i ricavi sono apportati dai RPK; quanto più alto è il LF, tanto maggiore è la capacità del vettore di recuperare i costi sostenuti.

A questo punto, se riepiloghiamo i dati Alitalia di aprile resi noti dall'AEA, ci rendiamo conto di quanto sia critica la situazione del nostro vettore di bandiera:

ASK= -16,7% (Rispetto ad aprile 2007)
RPK= -27,3%
LF= 66,3% (-9,7 punti percentuali rispetto ad aprile 2007)
Passeggeri imbarcati= -25,9%

martedì 3 giugno 2008

Alitalia: prestiti e la conferma del teorema

Le dichiarazioni di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, “l’Europa vuole più mercato, e più mercato di cosi” in concomitanza del decreto “SalvAlitalia” e del relativo prestito sembrano non eccessivamente calibrate.
In primo luogo, vi sono dei seri dubbi che l’Europa voglia più mercato, come dimostra la proposta molto timida sul Doha Round in campo commerciale e agricolo o la vittoria delle lobbies contro un’apertura del mercato nel settore del trasporto pubblico locale. In alcuni settori l’Europa ha voluto più mercato, ma non sempre è stato così.
Secondariamente un prestito che entra nel patrimonio netto dell’azienda e che difficilmente sarà restituito ai contribuenti nega la seconda parte della frase del ministro “più mercato di cosi”.

La natura del finanziamento è la parte di maggiore interesse di questo ennesimo salvataggio di Stato. Secondo la relazione tecnica al decreto legge i due terzi del finanziamento sono presi dal fondo per la competitività e lo sviluppo.
Un prestito ponte che finanzia un’azienda che di sviluppo del mercato non ha mai sentito parlare negli ultimi 15 anni e che si prefigura come norma chiaramente anti-competitiva è finanziato in questa maniera; in effetti tra gli obiettivi della direzione generale che gestisce questo fondo è presente quello di “amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”.
Il governo ammette che Alitalia deve essere gestita in amministrazione straordinaria; speriamo dunque che la compagnia venga commissariata.

Intesa San Paolo è diventata oggi 3 Giugno ufficialmente advisor per la privatizzazione di Alitalia; sicuramente è il player vincente del fallimento della seconda fase di privatizzazione. La banca da investitore di rischio al fianco di Airone diventa l’advisor della terza fase della vendita di Alitalia.

I sindacati si dicono soddisfatti di questa nuova fase di privatizzazione e delle decisioni prese dal Governo.

Teorema
Se i due attori, sindacati e Governo, si trovano d’accordo sulla gestione di un’azienda pubblica, il terzo (il contribuente) non gode affatto.

Ferrovie dello Stato (42 miliardi di Euro circa di contributi e perdite dal 1998 al 2006), Alitalia (3 miliardi in nove anni), il trasporto pubblico locale (costi 2,5 volte quelli inglesi) e Poste Italiane (al netto dei sussidi) ne sono la dimostrazione.