Quanta fretta nei palazzi romani. Un extraterrestre che atterrasse all’ombra del Cupolone penserebbe che la capitale sia stata invasa dai milanesi. Da una settimana esatta, dal giorno della fragorosa caduta del governo Prodi, sono tutti presi da un’inspiegabile frenesia: e nessuno perde occasione di ribadire che non c’è un secondo da perdere. La mancanza di un governo – è il grido unanime – è un lusso che il Paese non può sostenere in un momento così delicato. (Non più di altri, diremmo. La sensazione è che ogni momento sia delicato quando cade un governo.) Persino il Professore – forse nell’ingenua speranza che ciò bastasse a salvargli la poltrona – ha ammonito nel suo canto del cigno che l’Italia non potrebbe permettersi – in questo frangente di «turbolenze economiche» (!) – un esecutivo monco o, peggio, assente.
La credenza diffusa è, insomma, che il Paese – in mancanza di una guida illuminata – potrebbe rimanere vittima di chissà quali catastrofi. Certo, sulla legittimazione di questa guida le parti sono distanti. La ricompattata Casa delle Libertà è persuasa – e non a torto – che il presente sia il migliore degli scenari possibili per le eventuali elezioni, e che ogni minuto che passa equivalga ad un elettore perso. Dunque non solo spinge per il voto, ma lo vuole anche subito. Domani stesso, potendo. Quanto all’altra metà dell’arco costituzionale, PD e soci condividono – se non l’ansia da prestazione dei berlusconiani – certo la pressione dell’astinenza dal potere. Si giocano tutte le proprie carte su un governicchio a breve scadenza: dopodiché Dio vedrà e provvederà. È sulla tempistica che le divisioni miracolosamente svaniscono: anche questa è casta, verrebbe da dire, ed un governo (altrui) è pur sempre meglio di nessun governo.
Aldilà degl'interessi di retrobottega, le preoccupazioni sono giustificate? Prendiamo la Somalia, che ha sperimentato una crisi di governo… di oltre quindici anni. In questo periodo, il paese è cresciuto sorprendentemente, come certificato persino dalla Banca Mondiale. In mancanza di governo (e regolamentazioni), un numero sorprendente d'imprenditori (e tra questi una considerevole percentuale di donne) ha finanziato la costruzione di strade, scuole ed ospedali, e sviluppato il miglior sistema di telecomunicazioni di tutta l’Africa. Certo, i problemi non mancano, e la situazione è tutt’altro che pacifica – come peraltro ovvio, dato che l’ultimo governo è stato deposto da una guerra civile e non da un poeta ceppalonese. I cosiddetti “signori della guerra” costituiscono una seria minaccia. Ma la frammentazione del potere rappresente un argine tuttora piuttosto solido alle loro rivendicazioni, a dispetto delle sciagurate manovre della comunità internazionale per ristabilire un governo centrale – indovinate chi finirebbe per entrarvi?
La Somalia è un esempio troppo lontano dall’Italia, si dirà. Prendiamo allora un caso certo meno ambizioso, ma più facilmente comparabile: quello del Belgio. Le notizie dal paese di Re Alberto hanno riempito i giornali nella seconda metà del 2007, dopo che un voto combattuto ha portato alla luce le grandi contraddizioni di un paese spaccato. La crisi si è risolta, se così si può dire, con la nomina di un governo di quelli che piacerebbero a Veltroni, da consumarsi preferibilmente entro il prossimo 23 marzo. Cos’è accaduto ai belgi, in quei sei mesi di smarrimento? Sorpresa: nulla di nulla: il sole ha continuato a sorgere su Bruxelles, nessuna epidemia si è diffusa nel paese, ed i netturbini hanno continuato a raccogliere la spazzatura – quel che a Napoli non riescono ad assicurare quattro livelli di governo ben piantati.
Ora, non c’illudiamo certo che la ricreazione durerà più di cinque minuti: ma è chiedere troppo che la litania dell’indispensabilità di lorsignori ci sia risparmiata fino a che non suoneranno la campanella?