Neppure dal punto di vista delle negoziazioni ambientali si sono osservati mutamenti imprevisti. Bali, che per gli entusiasti avrebbe dovuto partorire la cornice per il post-Kyoto (ormai nessuno lo chiama più Kyoto 2, come andava di moda dire fino all’anno scorso), non ha prodotto nulla se non le consuete divisioni. E la causa prima del fallimento annunciato è la testardaggine europea nel proporre una strategia – quella degli obiettivi vincolanti di breve termine – che nessuno condivide.
Questo conduce a quella che è la vera notizia energetica del 2007, almeno per chi sia condannato a subirne gli effetti, ossia la determinazione del Consiglio europeo di primavera a fissare i cosiddetti obiettivi del 20-20-20 (20 per cento meno emissioni rispetto al 1990, 20 per cento meno consumi rispetto al tendenziale, 20 per cento rinnovabili sul consumo totale, tutto entro il 2020). Gli obiettivi sono stati adottati, per quel che è dato conoscere, senza alcuno studio preliminare sulla fattibilità o sui costi. Si tratta di uno slogan, ma uno slogan vincolante è uno slogan pericoloso. A destare preoccupazioni non sono solo la portata del cambiamento in un lasso di tempo così breve (12 anni), o l’entità della bolletta che i consumatori europei saranno chiamati a pagare. Più ancora di tutto ciò, due fattori sono pericolosi. Il primo riguarda gli incentivi che la Commissione – da cui ci si attende una direttiva per fine gennaio – manderà agli attori economici. Un approfondito studio di Alberto Clò e Stefano Verde, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Energia, spiega che il combinato disposto degli obiettivi previsti nella Nuova Politica Energetica (Nep) “comporta nel 2020 un minor fabbisogno delle altre fonti tradizionali per 430 milioni di Tep (-25,6 per cento)”. In particolare, “il gas metano, che in base alle previsioni tendenziali avrebbe dovuto conoscere la maggior crescita assoluta passando dai 445 milioni di Tep del 2005 a 556 milioni di Tep (+25 per cento), nel caso programmato dovrebbe invece ridursi dell’11 per cento” (questi valori sono calcolati sulla base di un obiettivo di riduzione del 20 per cento dei consumi primari, mentre sembra che la Commissione imporrà il target rispetto al consumo finale, ma l’ordine di grandezza non è destinato a cambiare). Quindi,
l’aspetto centrale e più critico è se e in che misura debbano rivedersi verso ilDetto in termini più triviali: servono ancora i rigassificatori? Un’ulteriore questione riguarda la cornice istituzionale che dovrà sorreggere un simile mutamento strutturale del settore energetico in Europa. Fino a che punto una politica europea instabile, imprevedibile, e che demanda al pubblico scelte di indirizzo fondamentali (che vanno dal controllo della domanda alla pianificazione dell’offerta) è compatibile con le liberalizzazioni? Non solo tale domanda è finora restata senza risposta da parte delle autorità europee, ma neppure la Commissione pare essersi posta il problema. E questo, più ancora del merito delle decisioni, ci fa temere che il sentiero europeo condurrà dove tipicamente vanno le strade lastricate di buone intenzioni.
basso i fabbisogni che fino al 7 marzo 2007 erano ritenuti indispensabili e
imprescindibili nello sviluppo delle infrastrutture e delle forniture per
assicurare piena copertura della domanda in condizioni di competitività e
sicurezza. Nell’ipotesi di un pieno raggiungimento degli obiettivi di Berlino,
l’attuale dotazione di infrastrutture e di forniture di metano risulterebbe,
infatti, assolutamente idonea a fronteggiare il livello dei futuri consumi,
mentre il mancato raggiungimento degli obiettivi richiederebbe sin d’ora, come
d’altra parte sta avvenendo, l’accelerazione degli investimenti.
(Da RealismoEnergetico)
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