venerdì 29 febbraio 2008
Addizioni
Interviste impossibili (o no?)
mercoledì 27 febbraio 2008
Sarebbe stupido...
Tutto ciò non sarebbe probabilmente stato possibile senza le deregulation degli anni '80 nei mercati del lavoro e finanziari, e senza l'apertura dell'Europa Orientale e dell'Estremo Oriente ai mercati internazionali.
Alcuni sostengono che la Cina rappresenti un problema economico, invocando misure protezioniste (finchè i cinesi sovvenzionano la guerra in Iraq e la riforma del Medicare però nessuno si lamenta). Gli economisti liberali si preoccupano per questo evidente non-sense, e probabilmente hanno ragione: il successo politico delle idee è perlomeno scorrelato, se non addirittura positivamente correlato, con la loro stupidità.
Ma cosa succederebbe se queste posizioni avessero la meglio? L'economia americana perderebbe risparmi, e la produzione vacillerebbe; gli indebitati fallirebbero e le aziende annasperebbero per ottenere credito. E' questo quello che i protezionisti vogliono?
L'alternativa, uscire dalla crisi tramite l'espansione monetaria, metterebbe sotto pressione il dollaro, riducendone la domanda sui mercati internazionali, e creando pressioni inflazionistiche che finora sono state tenute a bada dalle banche centrali dei paesi che hanno sovvenzionato gli USA negli ultimi anni. Dovesse il flusso di risparmi esteri e la domanda estera dollari diminuire, l'economia USA correrebbe seri pericoli.
Lo storico Cipolla definisce stupido colui che, danneggiando gli altri, danneggia anche sè stesso: le voci che ogni tanto si levano a favore del protezionismo negli USA appartengono a questa categoria. La realtà è che il cosiddetto "Neoliberismo" ha reso possibile la più grande espansione monetaria che la storia dell'interventismo governativo ricordi.
Più che un'improbabile ritorno al protezionismo e all'iperregolamentazione, che aumenterebbero i danni di questo interventismo, i liberali dovrebbero temere che il poco più che mitologico Neoliberismo funga da capro espiatorio per l'ennesimo fallimento dell'interventismo statale.
PS E' quasi finito Febbraio, tra qualche giorno vado in Portogallo, quindi questo probabilmente è il mio ultimo post su Liberalizzazioni. Un saluto a tutti e grazie per l'ospitalità!
giovedì 21 febbraio 2008
Alitalia, il TAR ed Easyjet.
La via della privatizzazione rimane comunque molto complicata; entro il 14 Marzo Spinetta farà la sua offerta per il 49,9 per cento del vettore italiano, sempre più in difficoltà.
Il bilancio di Alitalia dell’anno fiscale 2007 è molto pesante; le perdite sono ridotte, ma solamente grazie a minori spesi e maggiori entrate non ricorrenti. La vendita degli slot di Heathrow mostrano che la compagnia è sull’orlo del fallimento ed è sempre più necessaria la vendita ad un gruppo forte finanziariamente ed industrialmente.
AirOne, se volesse e ne avesse la capacità, potrebbe andare sul mercato e comprare azioni Alitalia, ma ad un prezzo di mercato e non ad un centesimo di euro come proposto nella sua offerta della fine dello scorso anno.
La vendita di Alitalia è stata troppo lunga; ormai sono 14 mesi da quando il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha preso la decisione coraggiosa di privatizzare l’azienda che negli ultimi nove anni ha bruciato più di 3 miliardi di Euro, in gran parte dei contribuenti italiani.
E Malpensa che fine farà?
La risposta migliore è di un manager che conosce bene il settore, Andy Harrison, amministrato delegato di Easyjet. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera di oggi, afferma giustamente che “Il concetto di hub, nel modo in cui lo intendeva Alitalia, è superato. Quel che serve sono compagnie efficienti…”.
Easyjet ha investito sullo sviluppo dell’aeroporto varesino, con il posizionamento di 15 aeromobili ed oggi la compagnia inglese, insieme a Ryanair, trasportano milioni di passeggeri in Lombardia. L’AD di Easyjet, che nel 2007 ha trasportato circa 14 milioni di passeggeri in più di Alitalia, afferma inoltre che per i voli intercontinentali potrebbe esserci l’interessamento di grandi compagnie aeree europee e asiatiche.
Il concetto di hub and spoke, sembra negli ultimi anni essere perdente rispetto al sistema point to point. L’apertura del mercato ha permesso la crescita di compagnie più efficienti che hanno rivoluzionato il mercato. Le stesse aziende produttrici di aerei sembrano aver visto vincente questo modello di business.
Milano Malpensa deve essere in grado di sfruttare al meglio questo cambiamento in corso e l’abbandono di Alitalia è sicuramente un vantaggio per l’aeroporto varesino, in quanto lascia spazio allo sviluppo di compagnie concorrenti.
In effetti Alitalia, nel suo piano industriale e di network, taglia delle rotte internazionali che sono in gran parte coperte da altri operatori. Questo provocherà un aumento del load factor delle compagnie concorrenti al vettore italiano. Le rotte intercontinentali eliminate sono meno di un quinto di quelle esistenti ed è necessario un impegno Governativo per la piena liberalizzazione dei cieli intercontinentali.
Gli effetti della liberalizzazione hanno avuto un impatto molto positivo sul trasporto aereo. La liberalizzazione europea ha permesso l’entrata di molti vettori concorrenti che offrono il servizio di trasporto aereo in un modo più efficiente. L’apertura del mercato tra Stati Uniti ed Unione Europea ha già generato i primi effetti positivi. Alcune compagnie, americane, britanniche e canadesi hanno annunciato a breve che saranno effettuate nuove tratte tra Milano Malpensa e gli Stati Uniti.
L’unica soluzione per Malpensa rimane dunque il mercato. L’errore dello scalo gestito dalla SEA in maniera non pienamente efficiente, è stato quello di legarsi ad una compagnia di bandiera che non ha mai saputo fare a prezzi di mercato il servizio di trasporto aereo.
La dirigenza SEA, al posto di fare causa ad Alitalia, dovrebbe assumersi le proprie responsabilità. Rimane la convinzione, che se la SEA fosse stata gestita come un’azienda privata, avrebbe saputo cogliere meglio l’occasione dello sviluppo del mercato aereo europeo ed italiano.
Non bisogna scordarsi che negli ultimi 10 anni, il trasporto aereo italiano è cresciuto più del 100 per cento, paradossalmente anche grazie alla debolezza di Alitalia.
mercoledì 20 febbraio 2008
A cosa serve la politica fiscale?
Leonardo mi ha fatto riflettere su un punto: la domanda riguarda i cittadini o i politici? I vantaggi per i politici sono infatti evidenti: far vedere che si sta facendo qualcosa, espandere temporaneamente il PIL per creare un'illusione di ricchezza, fare regali ai vari gruppi di pressione con interventi mirati (obiettivo che, fa notare Leonardo, è più difficile da ottenere con la politica monetaria, a meno di non pilotare le decisioni di investimento delle banche commerciali). Quindi la domanda è: come dovrebbero giudicare i cittadini la politica fiscale?
Le risorse o si consumano o si investono. Aumentare i consumi non può che ridurre gli investimenti, e quindi danneggiare la crescita economica. La politica può aumentare i consumi, e quindi il PIL, sperando che gli effetti sugli investimenti non si vedano subito, e, siccome la produzione richiede tempo, la cosa potrebbe essere verosimile (salvo per il fatto che i mercati finanziari reagirebbero subito e non a produzione finita).
D'altra parte, possiamo immaginare uno stato "imprenditore" che investa il deficit pubblico, ma non credo che le spese in investimenti abbiano mai giocato un ruolo rilevante nella storia del deficit spending. Non è possibile escludere tale eventualità a priori, ma a posteriori è poco o nulla rilevante. Per non parlare della qualità degli investimenti...
E' sicuramente possibile abbinare la politica fiscale alla politica monetaria ed espandere allo stesso tempo consumi e investimenti: che ciò sia insostenibile è evidente dal fatto che i conti (consumi + investimenti) non tornano: i pasti gratis sono rari. Ma mentre ritengo che la politica fiscale da sola porterebbe quasi subito ad un aumento dei tassi e quindi a problemi negli investimenti, abbinata alla politica monetaria avrebbe effetti più dilazionati nel tempo, se non altro perchè quest'ultima avvantaggia i produttori, e ha effetti allucinogeni sui mercati finanziari.
Negli ultimi mesi si è vista una certa riluttanza ad espandere il credito da parte delle banche, e ad investire da parte delle imprese. L'istinto degli operatori di mercato è comprensibile, ma pare che Bernanke voglia anestetizzarlo. Gli economisti interventisti dicono: "Abbiamo portato il cavallo a bere, ma non vuole": verrebbe da dire che non tutta l'acqua è però potabile, quindi potrebbe aver ragione il cavallo. Si stanno forse cercando modi per aggirare le banche e scongiurare un credit crunch tramite altri canali: visto il livello di indebitamento raggiunto si capisce perchè si voglia evitare a tutti i costi un reality check. Questa opzione non la considera nessuno...
Una certa riluttanza ad espandere ulteriormente il credito da parte della Fed sarebbe del tutto comprensibile, vista la posizione precaria del dollaro e la dipendenza dai risparmi stranieri dell'economia americana, ma l'attuale capo di Jeckyll Island ha ampiamente dimostrato di fregarsene, e finchè sarà protetto da Pai Mei e da Hattori Hanzo potrebbe pure aver ragione.
Rimane una possibilità... la politica fiscale può servire ad impedire un credit crunch impedendo ai collateral di sgonfiarsi, oppure nel caso di interessi bassi... ma ciò sarebbe una politica monetaria mascherata. Nei limiti in cui si vuole continuare con la strategia dello struzzo, tentando di posticipare il redde rationem tramite politiche creditizie lassiste, la politica fiscale può giocare un ruolo. La vera questione rimane però la sostenibilità del tutto, il resto è ancillare.
Che la politica fiscale in questo frangente serva come strumento complementare ad una politica monetaria che potrebbe essere meno efficace del solito non l'ho scoperto ora, potendosi leggere anche qui.
martedì 19 febbraio 2008
Berlusconi, Veltroni e altre cose futili
E' legittimo credere che uno dei due schieramenti sia il male minore. Ma nessuno dovrebbe recarsi alle urne illudendosi di fare qualcosa di utile per il Paese. Purtroppo, col fuoco incrociato dell'odio verso Berlusconi e verso comunismo, si riuscirà a indurre in molti un notevole coinvolgimento emotivo.
Cominciamo da Berlusconi. Il mantra è sempre lo stesso: meno tasse, più libertà. Sono d'accordo al 100%, anche di più. Poi però mi chiedo: abolire l'ICI, ampliare le infrastrutture (ma come fa un politico a valutare un investimento?), costruire termovalorizzatori... Ma chi paga? Io non ho mai visto gente sul mercato comprare senza la minima idea del prezzo: in politica è la norma.
Se per tagliare le tasse bisognerà aumentare il deficit, dov'è la libertà? Il me-vecchio pagherà ciò che al me-giovane è stato regalato. O, meglio, ciò che i politici di quando ero giovane hanno regalato ai loro alleati. Ma tant'è: sarebbe degno di un Tafazzi rompere in periodo elettorale l'illusione di poter tutti vivere a spese degli altri, di cui parlava Bastiat.
Non commento le sue proposte politiche sull'aumento dei consumi. Pare che ci sia un'epidemia globale di Keynesismo: le cicale hanno vinto. Esopo, si sa, era un sicofante della borghesia vittoriana.
Il problema di Berlusconi è convincere gli italiani che nel suo eventuale futuro governo farà ciò che nei cinque anni del precedente non aveva nemmeno cominciato a fare: qualcosa di liberale. La sua speranza è che due anni di Prodi abbiano fatto dimenticare la mediocrità del governo precedente.
La vera novità è che l'UDC corre da solo. Berlusconi ha colto la palla al balzo per far intendere che la mediocrità del suo precedente quinquennio era legata a Casini e soci. Possibile: "timeo democristianaos, ac vota ferentes", si potrebbe dire. Scommettiamo però che non cambierà nulla?
Parlare di Veltroni è più difficile. Sono di Roma, e per quasi un decennio è stato il mio sindaco, ma non mi sono accorto della sua esistenza. Probabilmente è perchè non vado ai concerti, al teatro, alle feste. Uso però i mezzi pubblici, vado in automobile, e cerco parcheggio: non mi sembra d'aver mai visto traccia di Veltroni in questi ambiti, blocchi del traffico esclusi, ovviamente.
Veltroni ha cominciato la campagna elettorale con dichiarazioni ecumeniche. Cerca di presentarsi come qualcosa di nuovo: togliere la muffa dalla maschera della "casta" è l'unico scopo delle campagne elettorali, a quanto pare.
Dice che il governo appena caduto ha risanato i conti e che quindi ora non è più necessario stringere la cinghia. Pazienza se ci sono dei seri dubbi su questo risanamento, e se si è discusso per tutta la vita del governo uscente su quale fosse il modo più populista di spendere un surplus congiunturale la cui consistenza, per non dire esistenza, è ancora oggi dubbia.
In quanto poi a promesse elettorali, che sono come quelle dei marinai (ma costano molto di più), è riuscito a fare molto più di Berlusconi, in queste prime fasi di preparazione alle elezioni. Il contribuente ha di che esser terrorizzato.
Dice che l'Italia è rimasta ancorata allo scontro ideologico. E che altro si poteva fare per distrarre gli italiani? Non c'è ragione di credere che questa tendenza finirà, a meno che non arrivi una classe politica in grado di risolvere i problemi del Paese. Sconsiglio di trattenere il fiato nell'attesa.
Se il problema fosse scegliere la persona più adeguata per vincere la Coppa dei Campioni, non avrei dubbi su chi scegliere; se fosse per organizzare un party con cantanti e ballerine, neppure. Purtroppo bisogna risolvere i problemi strutturali del Paese...
domenica 17 febbraio 2008
Subprime policies
Indubbiamente il problema è grave: riguardava milioni di mutuatari in crisi. E il livello di indebitamento privato è a livelli così allarmanti che probabilmente i mutui subprime rappresentano soltanto una piccola parte del problema.
Decenni di inflazionomia, un modello di crescita basato sull'abuso della politica monetaria, sulla manipolazione dei tassi di interesse da parte degli ingegneri sociali, sul moral hazard, sul "too big too fail"* hanno creato un sistema economico sistematicamente sbilanciato: troppi consumi, troppi debiti (pubblici e privati), dipendente dal credito, dai risparmi esteri e dalla domanda estera di moneta...
Interrompere il funzionamento di questo sistema danneggerebbe nel breve termine tutti quanti (nel lungo termine sarà ovviamente molto peggio, ma in politica il lungo termine non esiste: i politici sono a tempo determinato): per le decine di milioni di consumatori a rate di cappuccino un eventuale consistente aumento dei tassi di interesse sarebbe molto "hARMful".
Si preferisce quindi continuare a sommare al moral hazard altro moral hazard, al malinvestment altro malinvestment, al debito altro debito. Sperando che ai tanti risparmiatori forzati (dalle loro banche centrali) con gli occhi a mandorla non passi per la testa di causare un "sudden stop & reversal", cioè di smettere di sovvenzionare le cicale, o di diminuire la domanda di dollari.
Non ci sono dubbi che questa prospettiva è terrificante: molto meglio continuare a peggiorare la situazione piuttosto che affrontarla. E Bernanke pare saperlo benissimo.
La moneta è un bene presente e serve per posticipare il "redde rationem", cioè la scoperta dei sottostanti squilibri economici. Di espediente in espediente riusciremo a distruggere il valore della moneta, l'utilità dei mercati finanziari nell'allocare risorse, la significatività dei prezzi per la coordinazione economica (a partire dai tassi di interesse, che in teoria servirebbero a coordinare risparmiatori e investitori) e a cancellare l'attitudine al risparmio dalla faccia della Terra.
Violare la rule of law per "risolvere" (si fa per dire) un problema "congiunturale", o intervenire per affrontare i problemi dovuti ai precedenti interventi è un problema insito nella logica stessa dello statalismo. L'intervento statale in economia fa pensare ai gommisti che mettono chiodi per strada per aumentare il loro fatturato. Solo che il primo non è una leggenda metropolitana.
Scherzosamente, potrei definire tutto ciò, popperianamente, un intervento di "ingegneria sociale a spizzico": affrontare i problemi man mano che vengono, senza farsi passare per la testa neanche per un istante che il problema possa essere strutturale.
Si preannunciano tempi bui. Ma non c'è di che preoccuparsi: finchè Bernanke tiene il piede sull'acceleratore, riusciremo a posticiparli. Anche se non c'è motivo di credere che ciò potrà continuare in eterno. Al momento, osserviamo con una certa ansia come Bush e i suoi predecessori abbiano creato un sistema che permette di finanziare guerre e stato sociale grazie al lavoro dei cinesi.
* Ma ora stiamo al "too herd to fail", quando milioni di "piccoli" fanno lo stesso identico errore, e quindi "bisogna" intervenire per aiutarli.
venerdì 15 febbraio 2008
Altrimenti ci arrabbiamo...
La notizia, in tutti i suoi risvolti più surreali, è qui.
(Hat tip to Massimiliano Trovato)
giovedì 14 febbraio 2008
S. Valentino. Quando i fidanzati sono due monopolisti.
Il mercato del trasporto pubblico locale (TPL) è rimasto sostanzialmente irriformato e non liberalizzato, dato che il processo avviato nel 1997 dal primo governo Prodi, e il cui obiettivo era di introdurre forme di concorrenza per il mercato attraverso l'utilizzo di aste per l'assegnazione del servizio, è stato sospeso poco prima del momento cruciale, la scadenza a fine 2003 per lo svolgimento delle gare, nel quale avrebbe dovuto finalmente dispiegare appieno i suoi effetti (Sul tema dell'insuccesso della riforma del TPL e delle problematiche aperte rimando ad un precedente lavoro per IBL).
Al momento attuale, in conseguenza, i Comuni sono ancora i proprietari delle aziende di trasporto urbano e contemporaneamente anche coloro che affidano il servizio, che lo regolano e che lo finanziano (attraverso risorse provenienti dalla regioni). Pensare che in un settore produttivo così strutturato e in cui nessun controllore pubblico oblitera il biglietto dell'efficienza di queste aziende, esse ottimizzino comunque l'uso delle risorse è davvero impossibile. Ben venga quindi il fidanzamento tra GTT e ATM (la data è sicuramente propizia), purchè si sia consapevoli che i due non sono in grado di procurarsi sul mercato le necessarie risorse economiche ma dipendono ancora in maniera rilevante dalle finanze delle famiglie di origine, dalla benevolenza dei papà Comuni e delle mamme Regioni.
Il settore del TPL è uno di quelli più urgenti ai quali il governo che uscirà dalle urne dovrà dedicare prioritaria attenzione e non poco decisionismo.
mercoledì 13 febbraio 2008
C'è signor Rossi e signor Rossi
Insomma è pace fatta tra Valentino Rossi ed il Fisco. E - come si vede dalla foto - il centauro di Tavullia, per quanto sciupato, non è rimasto in mutande. Se, infatti, 35 milioni costituiscono una somma di tutto rispetto, la cifra è comunque piuttosto lontana dai 112 milioni originariamente contestati.
Sarebbe interessante capire perché ogni condono fiscale viene salutato dai cultori dell'etica tributaria come un esempio di connivenza con gli evasori, mentre si considera un epilogo urbano e lungimirante lo sconto di quasi il 70% riservato al pilota Yamaha.
Quel che è certo è che tanto basta al Dottore (honoris causa) per dichiarare di essersi assunto le proprie responsabilità. Non tutti paiono essere, però, dello stesso avviso. Il Codacons, per dire, ha lanciato l'idea di un comitato dei signor Rossi d'Italia che aspirerebbero al medesimo trattamento tributario.
Che le associazioni dei consumatori propendano sovente per un populismo di corto respiro, a discapito di un'analisi ragionevole delle questioni, è purtroppo vero. Ma riesce difficile non condividere questa volta lo spirito della simpatica iniziativa.
Il Comitato dei signor Rossi ci ricorda in sostanza una lezione piuttosto semplice: che tutti (o quasi) adempirebbero più volentieri ai propri obblighi fiscali se questi fossero (non paritariamente concordati con l'Erario, come nel caso di Rossi, ma almeno) significativamente ridimensionati. Si tratta di una verità davvero banale. Ma tutt'altro che scontata nell'Italia dei Visco e dei Padoa Schioppa.
martedì 12 febbraio 2008
Pro(vince) e contro
I liberaldemocratici di Dini - per dare a Cesare quel che è di Cesare - avevano posto qualche settimana fa l'abolizione delle province come conditio sine qua non per il proprio sostegno al moribondo governo Prodi.
Ora, una convinta accelerazione sul progetto giunge - con ben diversa autorevolezza, se non altro per la forza brutale dei numeri, che non sono generosi con il vecchio Lambertow - dall'officina del programma del centrodestra, per iniziativa dell'ottimo Maurizio Sacconi.
La proposta è null'altro che un indispensabile grano di buon senso nel chiacchiericcio pre-elettorale: il mantenimento del ruolo delle province appare un lusso ingiustificato alla luce delle loro competenze, che si potranno agevolmente devolvere a comuni e regioni.
Come riporta Alberto Statera, però, l'ex sottosegretario al Lavoro deve guardarsi in primo luogo dai propri vicini di casa: pare infatti che i più fieri oppositori della proposta si annidino tra i forzisti veneti.
Per Vittorio Casarin, presidente della provincia di Padova, sono tutte «scemenze». Per il suo collega veronese Elio Mosele, addirittura, «tutto il vivere civile è organizzato su base provinciale».
Ma è l'opinione del vicentino Attilio Schneck la più stupefacente: secondo l'ex leghista, «le Province costano 110 milioni, il Parlamento 2 miliardi e 300 milioni, c'è ben altro da tagliare".
Come come? Abbiamo capito bene? Tenerci le province ed abolire il Parlamento? Ora, a scanso d'equivoci, ribadisco che l'abolizione delle province mi pare un passo utile e necessario. Ma se il pensiero di Schneck non è stato frainteso... caro Presidente, dov'è che bisogna firmare?
Lirica, birra e alienazione
L'intervento statale fornisce un "alibi alla società civile", citando l'azzeccatissima espressione di Carrubba, perchè nessuno si interessa alla cultura, come a tante altre cose, in quanto "tanto ci pensa lo stato". E' il contrario di ciò che accade negli USA, dove secoli di stato minimo hanno conservato una società civile... di manica larga. In Italia non c'è l'abitudine di organizzarsi per scopi sociali o culturali: la partecipazione civile non esiste, esiste soltanto la lotta politica.
Carrubba considera "ideologica" l'idea che sia ingiusto tassare i contribuenti per qualcosa che dimostrano di non volere (come la musica lirica, o la mia birra preferita, non commercializzata per mancanza di mercato). Sono d'accordo a metà: l'idea di lasciare in pace i contribuenti è ideologica, ma nè più nè meno di ritenere la lirica più importante di loro.
Immagino ci siano centinaia di migliaia di persone che ritengono la lirica culturalmente rilevante, e che sarebbero disposte a sostenerla: più di quelle disposte a sovvenzionare la mia birra preferita. Come detto prima, però, in Italia non c'è l'abitudine a prendere iniziativa.
Ma se il problema è che impegnarsi socialmente è un'idea troppo lontana dalla mentalità italiana, non essendo noi abbastanza americani da pensare di migliorare la società con i nostri sforzi, perchè non rendere tutto estremamente facile? Servirebbe un qualcosa che non richieda impegno, qualcosa che richieda poco più che l'intenzione: niente visite all'Opera, niente ricerca di associazioni benefiche, niente visite dal commercialista. Qualcosa alla portata di una società civile inesistente o quasi.
Si potrebbe ad esempio introdurre nella dichiarazione dei redditi qualcosa come "Il sottoscritto non vuole pagare un Totpermille extra per sovvenzionare la musica lirica in Italia": chi barra la casella risparmia sull'IRPEF, chi non lo fa finanzia la lirica.
Il Fondo Unico per lo Spettacolo e gli enti locali sovvenzionano la lirica con circa 300 milioni di euro l'anno. Se nessuno barrasse la casella, basterebbe un Trepermile per ottenere di più. Infatti, l'Ottopermille fornisce il triplo del gettito, che però è indipendente dalle adesioni; mentre il Cinquepermille ha avuto adesioni del 60%, ma non costa nulla al contribuente. Probabilmente quindi la partecipazione al mio Totpermille sarebbe inferiore, ma un Diecipermille dovrebbe bastare anche con una partecipazione del 25%. Non credo che sarei il solo a farlo, anche se sarei il primo a non fare nulla se mi si dicesse di impegnarmi direttamente.
La proposta non è del tutto seria, se non altro perchè poco pensata. Ma l'idea che l'onnipresente intervento statale, direttamente o indirettamente, inibisca la cooperazione sociale mi sembra un problema grave e interessante. Lo statalismo è socialmente alienante: l'alibi che fornisce alla società civile è probabilmente tanto importante quanto i suoi effetti più strettamente economici.
Concludo facendo i complimenti all'autrice del Focus per il suo interessante e istruttivo articolo.
Ferrovie: sono basse le tariffe o alti i costi di produzione?
Queste posizioni e analisi non considerano aspetti fondamentali del trasporto ferroviario: (a) l’assetto del mercato, ancora monopolistico, e la proprietà dell'azienda, totalmente pubblica, fanno in modo che non vi sia incentivo a contenere i costi unitari di produzione; (b) per quanto riguarda il trasporto regionale non vi sono ancora soggetti alternativi a Trenitalia e anche se le Regioni, tramite meccanismi competitivi, potrebbero affidare il servizio a prestatori diversi, contrattando qualità più elevata e costi minori, nessuna ha ancora potuto/voluto farlo; (c) non vi è ancora un regolatore indipendente per il settore dei trasporti e non vi è pertanto alcun organismo in grado di impedire, monitorando opportunamente la qualità e autorizzando le tariffe, che i costi delle inefficienze del produttore ricadano sugli utenti.
Poichè le ferrovie non hanno alcun controllore che obliteri il loro biglietto dell'efficienza, il costo di produzione per un passeggero che viaggia un km è nel caso italiano di circa 15 centesimi di euro, almeno un terzo in più rispetto ai casi europei più efficienti e maggiore rispetto alla stessa Alitalia (12 centesimi). Grazie al diverso assetto del mercato del trasporto aereo, che è aperto da tempo alla concorrenza, molti italiani possono inoltre viaggiare su aerei nuovi, puliti e puntali di Easyjet o Ryanair con costi unitari delle due aziende rispettivamente di 7 e 4,3 centesimi di euro.
Dal lato delle tariffe, invece, è vero che sono molto inferiori rispetto all'Europa ma ai fini della quadratura dei bilanci delle Ferrovie ciò che conta non è il ricavo per singolo passeggero ma il ricavo per singolo treno chilometro offerto (che si ottiene moltiplicando il ricavo medio per passeggero km col numero di passeggeri medi per treno). In Italia nel 2006 in media i treni offerti hanno visto a bordo quasi 170 passeggeri contro una media europea di 120; questo implica che, se poniamo uguale a 100 la tariffa media europea, è sufficiente una tariffa pari a 70 per ottenere idendici ricavi per l'azienda ferroviaria. Nel valutare ipotesi di incrementi tariffari, occorre inoltre dedicare grande attenzione all'elasticità della domanda rispetto al prezzo poichè se maggiore di uno li rende controproducenti e porta ad un abbassamento dei ricavi anzichè ad un aumento
Possiamo allora concludere che mentre non è necessario un pieno allineamento delle tariffe ferroviarie ai livelli europei per riequilibrare il bilancio aziendale, sarebbe invece auspicabile un pieno allineamento dei costi unitari di produzione. Liberalizzare il mercato dei servizi di trasporto ferroviario e limitare la gestione pubblica all'esercizio delle rete, privatizzando i servizi ora svolti da Trenitalia, rappresentano ottimi strumenti per perseguire questo obietttivo.
venerdì 8 febbraio 2008
Malpensa e l'Italia senza Ali
1) Stupisce vedere quella che dovrebbe essere l'avanguardia liberista (responsabili dei governi territoriali, imprenditori e associazioni economiche) dell'area più sviluppata del paese sostenere con enfasi soluzioni protezioniste e contrarie al libero mercato in relazione al disimpegno di Alitalia da Malpensa e alla cessione del vettore di bandiera.
2) Come dichiarato in più occasioni da Alitalia negli ultimi mesi, Malpensa è state ed è fonte di notevoli perdite, circa metà di quelle attuali e, certamente, più di metà negli anni in cui la crisi non si era ancora aggravata. Questo significa che la scelta 'obbligata' di Malpensa ha pesato di più sul dissesto di Alitalia di tutti gli altri fattori critici messi assieme (strapotere sindacale, gestione in comando politico dell'azienda, management inadeguato, sottovalutazione degli effetti della liberalizzazione europea del trasporto aereo, scarsità di mezzi finanziari per sostenere la crescita, parco aeromobili vetusto e costoso, disattenzione dell'azionista pubblico, ecc.) .
3) Bisogna dar atto a Maurizio Prato di aver rivelato le cause del dissesto. Non abbiamo dubbi che anche i suoi predecessori ne fossero consapevoli, tuttavia non hanno fatto nulla per porvi rimedio né hanno informato l'opinione pubblica. Forse, per 'ragioni politiche' gli alti costi dello hub a Malpensa non si potevano svelare: pensiamo male se ipotizziamo che nel quinquennio 2001-06 un AD Alitalia che avesso evidenziato l'onerosità di Malpensa, oltre a farsi cacciare, avrebbe anche compromesso la tenuta della maggioranza del governo in carica? Ma se qualcuno avesse avuto il coraggio di uscire allo scoperto oggi Alitalia non sarebbe sull'orlo del fallimento.
4) In un contesto di puro mercato, non contaminato da obiettivi pseudopubblicistici, a un'azienda consapevole delle cause delle sue cattive performance si consiglierebbe senza indugio di rimuoverle al più presto, in modo da riequilibrare la gestione, restare sul mercato ed evitare il rischio fallimento. A un'azienda tuttora in comando politico qual'è Alitalia, si continua a chiedere di mantenere fede agli obiettivi extragestionali che le sono stati assegnati in passato, quando il mercato non era liberalizzato e potevano essere relativamente sovvenzionati da aiuti di stato, mentre la loro onerosità attuale rischia di mandare l'azienda al fallimento. Che a far ciò siano imprenditori, associazioni di imprenditori e politici, prevalentemente espressione del centrodestra, è semplicemente stupefacente.
5) Come sostenuto dall'AD di Air France J.C. Spinetta, in condizioni normali sono gli aeroporti al servizio dei vettori aerei e non viceversa. Le compagnie a loro volta sono al servizio dei viaggiatori. Se vi è sufficiente domanda, se vi è una disponibilità a pagare (per avere un servizio di collegamento diretto europeo o intercontinentale) da parte di un numero di persone sufficiente a coprire il costo del volo e lasciare un adeguato margine di guadagno, ci stupiremmo se nessuna compagnia si presentasse a offrire il servizio. Se la domanda non c'è, invece, non vi è neppure offerta sostenibile nel medio lungo periodo che possa basarsi su scelte extramercato, indotte dalla politica, e l'aeroporto interessato deve necessariamente ridimensionare le sue ambizioni oltre che i suoi costi di produzione.
6) Il progetto Malpensa è stato un fallimento bipartisan, dato che i decreti 'amici' che lo hanno assistito portano le firme degli ex ministri dei trasporti del centrosinistra Burlando e Bersani.
7) Il caso Alitalia offre molti insegnamenti: (a) Se a un'azienda operante in mercati concorrenziali e senza possibilità di compensazioni pubbliche sono stati dati obiettivi extramercato così stringenti e onerosi, cosa dobbiamo immaginare in relazione alle imprese pubbliche che operano ancora in condizioni di monopolio? E per le organizzazioni pubbliche che non sono imprese ma amministrazioni, che producono servizi a domanda collettiva e non individuale, di difficile identificazione e osservazione? (b) E' la prima volta che una privatizzazione italiana interessa un'azienda nell'area delle utilities con forti problemi di bilancio e di sostenibilità della gestione e la prima volta in cui è prevista la vendita ad un soggetto industriale il quale dovrà necessariamente provvedere al rilancio dell'azienda; speriamo sia solo l'inizio di una lunga serie di privatizzazioni di casi analoghi: gruppo Tirrenia, trasporto ferroviario merci, trasporto ferroviario passeggeri, aziende di trasporto pubblico locale, recapiti postali, aziende pubbliche locali di smaltimento rifiuti, servizio 'commerciale' della Rai rappresentano tutti casi di produzioni pubbliche inefficienti nelle quali gli extracosti sono occultati, a differenza di Alitalia, dall'assenza di concorrenza sui relativi mercati.
8) Su chi ricadono gli extracosti derivanti dall'errata collocazione di Alitalia a Malpensa? Sinora sull'azionista di Alitalia che ha visto deteriorarsi progressivamente il valore dell'azienda e quindi, in definitiva, sul contribuente. Se andrà in porto la cessione di Alitalia ad Air France questi extracosti dovranno cessare e Malpensa perderà gli indebiti vantaggi goduti in passato. Se dovesse prevalere il piano Toto, invece, Malpensa avrebbe ancora un ruolo rilevante. La domanda è pertanto come sia possibile che gli oneri subiti da Alitalia per la collocazione a Malpensa non preoccupino invece AirOne. La risposta è semplice: con la cessione di Alitalia ad AirOne il mercato nazionale del trasporto aereo verrebbe di nuovo sostanzialmente rimonopolizzato, con quote di mercato elevatissime della nuova azienda su quasi tutte le rotte interne. Gli extracosti di Malpensa sarebbero in tal caso a carico dei viaggiatori sulle tratte domestiche i quali verrebbero a pagare prezzi più alti. Non ci sembra una soluzione accettabile.
9) Grazie alle cattive scelte realizzate nell'ultimo decennio dal pianificatore (di Alitalia e di Malpensa), il trasporto aereo italiano è destinato a perdere le sue Ali nazionali e questa è la meno peggio tra le soluzioni possibili. A ben vedere, grazie alle cattive scelte pubbliche nel loro complesso, è l'Italia intera che sembra aver perso le sue ali, ferma ai margini della pista nell'aeroporto Europa.
Malpensa, Airone e il mercato
Il primo è che finalmente le Istituzioni Lombarde hanno individuato l’importanza di Malpensa, dopo anni di gestione SEA non proprio cosi efficiente. Nel “manifesto per la valorizzazione di Malpensa” presentato ieri, è stato messo ben in luce l’importanza del trasporto aereo per lo sviluppo e la competitività dell’economia. Qualche piccola omissione nelle premesse è riscontrabile; ad esempio non si è sottolineato che Malpensa ha circa lo stesso numero di passeggeri annui di Palma de Mallorca od un terzo di quelli di Londra Heathrow, ma nel complesso le preoccupazioni sono comprensibili.
Le soluzioni proposte per “salvare” l’aeroporto milanese scontano limiti non indifferenti; a parte la richiesta più che giusta di richiedere un’apertura delle tratte intercontinentali e quella di sostenere le infrastrutture di accesso all’aeroporto manca uno slancio di coraggio liberista.
La gestione della SEA, che agisce in monopolio naturale, non sembra essere stata delle migliori. La società si è appoggiata per anni ad Alitalia, pur sapendo che la compagnia di bandiera si reggeva su aiuti di Stato, che prima o poi sarebbero finiti. Non è stata in grado di accettare, ad oggi, 6 milioni di passeggeri offerti da Ryanair, anche perché la compagnia low cost chiede prezzi più bassi e maggiore efficienza.
Il bilancio della SEA mette in luce dei margini molto elevati, grazie alla situazione monopolistica, con un dividendo di 30 milioni di Euro per il Comune di Milano e la Provincia. La gestione SEA è però inefficiente in servizio liberalizzato dentro l’aeroporto: l’handling. In questo settore le perdite annuali sono di decine di milioni di Euro, largamente coperte dagli altri servizi che la SEA gestisce in monopolio. Gli errori commessi dal management, scelto con nomine politiche, non possono essere giudicati dal mercato finché la SEA non viene privatizzata.
La SEA deve trovare sul mercato nuove compagnie disposte ad investire sullo scalo e non rifiutarle perché non è in grado di svolgere il servizio aeroportuale in maniera efficiente.
L’affidamento ad AirOne di Alitalia, sulla cui compagnia la Lombardia ha puntato, sembra essere una soluzione debole ancora una volta.
Il piano presentato ieri, come anche il comunicato dell’Istituto Bruno Leoni afferma, non sembra essere sostenibile dal punto finanziario ed industriale.
La compagnia di Carlo Toto è troppo piccola e la situazione di Alitalia troppo grave affinché un piccolo operatore europeo (circa lo 0,8 per cento della quota di mercato dei passeggeri europei) riesca risollevare le sorti del vettore di bandiera italiano.
Il piano di Airone non sembra tanto avere l’obiettivo di salvare gli interessi di Malpensa, quanto a salvaguardare gli interessi politico-sindacali che già hanno fatto danni enormi ad Alitalia.
Malpensa ha tutte le carte in regola per salvarsi da sola. Non conosce una congestione aeroportuale ed è libera di cercare compagnie aeree sul mercato.
Alitalia copriva meno del 20 per cento delle rotte intercontinentali in partenza da Malpensa, cioè 17 voli su 77. La riduzione può benissimo essere compensata da altri operatori, ma è necessaria una liberalizzazione delle rotte intercontinentali.
Possono essere portati due esempi positivi della liberalizzazione; il numero di passeggeri verso gli altri Stati Europei, a dieci anni dalla liberalizzazione è più che raddoppiato e non certo grazie ad Alitalia. L’apertura dei cieli verso gli Stati Uniti ha già provocato i primi effetti: da maggio una compagnia americana e dall’anno prossimo una inglese hanno già programmato dei voli diretti tra Malpensa e New York.
Malpensa sembra avere meno bisogno di AirOne, ma più di mercato...
giovedì 7 febbraio 2008
Index of Economic Freedom
Come per molte malattie, rendersi conto di un problema è il primo passo verso la guarigione. Nel quadro clinico del nostro paese, che figura al 29° posto in Europa, ed al 64° nel mondo, i tre indicatori in cui otteniamo scores più bassi, (pressione fiscale, corruzione e government size) sono sintomatici, ha sottolineato l'ambasciatore americano Terry Miller, di una scarsa accountability dello stato e della classe politica italiana, che non si sentono vincolati a rispondere ai propri concittadini per le loro azioni, per i loro sprechi e per le mancate riforme. Il prelievo fiscale e la spesa pubblica sono ovviamente correlati, essendo due facce della stessa medaglia: soldi, risorse, opportunità sottratti ai cittadini, agli imprenditori ed alla società civile, e consegnate allo stato. Ma sono anche correlate con la qualità dei servizi offerti dallo stato, poiché maggiore sarà la quota di Pil controllata da questo, maggiore sarà la quota sottratta alla concorrenza, in cui diminuirà quindi l'efficienza e la possibilità di valutarla.
Esigenza bene espressa dall'onorevole Maurizio Sacconi, che ha giustamente sottolineato la necessità di sviluppare strumenti che fungano almeno da approssimazione della concorrenza, aumentando la trasparenza del sistema e la propensione a riformare.
La capacità di affrontare i problemi strutturali di un paese è, purtroppo, ha ricordato Roberto Nicastro di UniCredit Banca, relativamente più facile in stato emergenziale: liberalizzazioni vigorose come quelle dell'est europeo sono relativamente facili uscendo dal disastro comunista, perchè il costo politico è meno alto.
Ma, senza cambiare l'Italia potrebbe trovarsi presto in questa situazione, a giudicare dal pessimismo di altri relatori. L'index è sorprendentemente positivo, financo!, per Franco Debenedetti, che vi contrappone, oltre ad una brillante quanto puntuale e negativa analisi della situazione per ogni sottoindicatore, la diffusa e crescente sensazione di costrinzione, di non poter fare ciò che si aspira.
Sulla stessa linea Paolo Pirani, UIL, sottolinea come il 73,5% di libertà del lavoro sia sì riconoscimento della bontà delle recenti riforme, ma che il mercato del lavoro italiano deve essere più aperto, dinamico e flessible per garantire la mobilità sociale e lo sviluppo umano.
Ma, forse perchè il freddo cuore di noi liberisti si scioglie davanti agli imprenditori quando questi ci ricordano gli Atlanti di Ayn Rand, sulle cui spalle poggia il progresso di un mondo che gli impone ogni sorta di barzello, l'intervento che mi ha colpita di più è stato quello di Francesco Valli. Manager di un'impresa, BAT, che ha investito in una privatizzazione italiana, e ne affronta ogni giorno le conseguenze, ci ha raccontato com'è difficile organizzare un'attività economica in un sistema dove non solo le regole sono incongruenti e spesso logicamente ossimoriche, ma hanno anche un ritmo di rinnovamento assolutamente destabilizzante, se non quando devono cristallizzare delle rendite. Le solite, legittime rimostranze? Non solo. In questo intervento, a darci ottimismo, rispetto al quadro generale piuttosto sconsolante, è invece un segnale di presa di coscienza di quella che in qualche modo può essere definita "società civile". Che non si accontenta più di una classe politica irresponsabile, di rappresentanze che non rappresentano che propri interessi, ed è in cerca di nuovi modi per intervenire, e condizionare, il dibattito pubblico. Perché vengano poste in essere delle riforme in grado di farci risalire la china, e darci un nuovo miracolo economico.
Terry Miller ce lo ricorda: nei quattordici anni in cui l'index è stato redatto, è stato osservato che anche a riforme piccole, ma nella direzione di una maggiore libertà, è conseguito un grande aumento della ricchezza delle nazioni.
Qualche ragione di ottimismo: incrociando le dita
Le considerazioni di Ugo Arrigo sulla situazione politica italiana sono corrette, ma al tempo stesso è (forse) lecito nutrire qualche speranza.
È chiaro che se l’Italia – dopo un paio di anni dominati dalla “lotta agli evasori” (Visco) e da velleitari tentativi di liberalizzare l’economia tutti finiti in nulla – si apprestare ad avere nuovamente Giulio Tremonti ministro dell’economia, Gianni Alemanno ministro dell’agricoltura e altri campioni delle libertà economiche in analoghi incarichi, ci sono ben poche ragioni per essere allegri. Però non è detto che le prospettive siano tanto tristi.
In primo luogo, vi è una realtà dei fatti che mi pare più forte degli omuncoli della politica nazionale, e i liberali sono i primi che devono diffidare nella pretesa onnipotenza della politica. Un esempio: in un modo o nell’altro, Alitalia sarà venduta, e questo sarà comunque un buon risultato. Speriamo che ciò si accompagni ad un processo di liberalizzazione delle rotte e che non si destini verso Malpensa una parte di quanto si risparmierà dal fatto di non dover più sovvenzionare la compagnia di bandiera.
Ma quanto avviene in questo ambito vale anche per altri settori. La stampa in questi giorni ci ha informato dell’interesse di Montezemolo per un treno di produzione francese, con il quale l’attuale presidente di Confindustria intende entrare nel mercato ferroviario italiano e fare concorrenza a Trenitalia (diciamola tutta: non sarà un’operazione molto difficile...).
Che si vada verso una crescita delle libertà economiche e della concorrenza mi pare nei fatti: e questo a dispetto della mediocrità dei ministri passati, presenti e (con ogni probabilità) a venire.
Perfino sul piano strettamente politico qualcosa si muove. Walter Veltroni ha fatto la scelta di andare da solo: visto la modestia del suo parlare e ragionare quando è su un palco o in televisione, diciamo che quanto meno ha buoni consiglieri. Perché la mossa è molto azzeccata, dato che l’Unione poteva solo uscire perdente da un confronto con la Cdl, mentre in questo modo il Partito democratico ottiene due rilevanti risultati.
Innanzi tutto, anche in caso di sconfitta viene ridotta la portata della débâcle. Poiché non ci si aspetta che il partito di Veltroni, da solo, possa sconfiggere un’alleanza che va da Storace fino a Dini e Mastella, in qualsiasi caso sarà un successo. Ma soprattutto il Pd ha ottenuto il risultato paradossale di porsi – benché sia il maggiore partito della maggioranza uscente – nella posizione di chi sta provando ad innovare. In qualche modo, la Cdl ora è il sistema politico in vigore (basato su larghe alleanze inconcludenti e su personalità incapaci di tutto, si tratti di Prodi o Berlusconi), mentre il Pd vuole interpretare il nuovo. Alle solite, Veltroni non rinuncia al gusto di “fare l’americano” e cita Barack Obama e il suo “Yes, we can”, puntando sulla necessità di un “change”.
Veltroni ha quindi scommesso sul fatto che la Cdl è forte nei sondaggi, ma debolissima nei gradimenti. Nessuno o quasi tra quanti sono pronti a votarla ha davvero un solido convincimento che l’alleanza di centro-destra possa aiutare l’Italia a rimettersi in carreggiata: e con la mossa apparentemente suicida di andare da solo Veltroni riesce perfino ad ottenere qualche chance
di vittoria.
Mi pare che tutto questo possa avere qualche conseguenza anche nel campo opposto. Se vuole avere qualche prospettiva di fronte a sé, lo stesso Berlusconi ora è costretto a cambiare in larga misura la propria squadra: cominciando, ovviamente, dalle pedine principali. Ringiovanendo un po’ il gruppo, ad esempio, e puntando sui suoi uomini migliori: da Sacconi a Brunetta, da Della Vedova a Capezzone. E magari anche adottando la “strategia Sarkozy”, e quindi cercando altrove quelle competenze e intelligenze che tanto scarseggiano nelle sedi dei partiti moderati. Nei cinque anni della precedente legislatura, e il fondatore di Fininvest lo sa bene, la squadra di governo ha dato risultati veramente modesti. È chiaro che Berlusconi ha prima di tutto accusato la pessima congiuntura internazionale, e lo si comprende. Ma poiché la stessa congiuntura hanno conosciuto pure l’Irlanda e la Spagna, per limitarsi a citare un paio di paesi europei, è chiaro che molto dell’insuccesso italiano di questi anni dipende da noi.
Il rinnovamento negli uomini e nelle idee voluto da Veltroni (la bozza del programma del Pd è stata affidata a Morando, che si è già rivolto alla consulenza di Boeri, Ichino e Salvati) obbliga quindi l'armata Brancaleone del centro-destra a fare altrettanto. Forse possiamo sperare che dalla retorica delle grandi opere e delle immense spese (leggi: debito pubblico) si passi finalmente alla serità di chi intende davvero riformare il welfare, introdurre più spazi di mercato e ridurre il peso dello Stato nella società.
mercoledì 6 febbraio 2008
Dilemma elettorale
Disciplinati dal potere...
Monti ha affermato (al 12° minuto della registrazione):
"Io sono considerato abbastanza favorevole al mercato, ma, in una società, il mercato richiede un forte potere pubblico che lo disciplini. Un aspetto del forte potere pubblico è la capacità del potere pubblico di resistere alle pressione delle diverse lobby, confederazioni e quant'altro. Ora, qual è la origine della incapacità di resistere a queste pressioni? E' la mancanza, tra le parti politiche contrapposte, di un minimo di patto sul fatto che non devono giocare l'una contro l'altra per agevolare la prevalenza delle lobby."
Il che si potrebbe riassumere dicendo che un forte potere pubblico è necessario per impedire al potere pubblico stesso di elargire privilegi legali a vantaggio di determinati gruppi di pressione. Sono il solo a pensare che questo sia, quanto meno, wishful thinking?
Prima, si crea un potere in grado di privilegiare chiunque; un potere quasi illimitato, in grado di mobilitare gran parte delle risorse di un'intera nazione. Poi, si spera che i politici abbiano la buona educazione di non usare tale enorme potere in maniera "iniqua".
Non sarebbe molto più semplice, se non addirittura più coerente, limitare il potere pubblico, togliendo alla classe politica la possibilità stessa di elargire benefici ad alcuni a danno del resto della società? Eliminata la possibilità di vivere a spese degli altri, le pressioni lobbystiche sul potere pubblico perderanno la loro ragion d'essere.
PS E che dire dell'affermazione di Ferrara "Nè Berlusconi governerà in deficit, in modo liberista sfrenato"? Molti liberali ritengono che l'abbassamento delle tasse sia la principale battaglia del liberalismo, ma perchè preferire il deficit pubblico, o l'emissione di moneta, o la concessione di licenze? Minimizzare la quantità di risorse controllate dallo stato mi sembra un obiettivo coerentemente liberale; spostare da un gruppo sociale all'altro, in questo caso dai contribuenti attuali ai contribuenti futuri, i costi della politica no: è, del resto, proprio quello che fanno le lobby. Se uno dei più brillanti intellettuali italiani crede che il liberismo consista nell'irresponsabilità fiscale, i liberali hanno un serio problema di immagine.
Liberalizziamo subito le ferrovie e privatizziamo totalmente Trenitalia
La separazione reale tra il gestore della rete ferroviaria, RFI e l’operatore monopolista Trenitalia deve essere effettuata al più presto, come previsto dal decreto legislativo 138 del 2000 e già negli intenti della Direttiva Prodi del 1997, a sua tempo affossata da una rivolta sindacale. La liberalizzazione effettiva del trasporto ferroviario porterebbe ad un incremento della concorrenza ed ad un offerta più ampia per i cittadini. Attualmente la quota di mercato di Trenitalia è circa al 92 per cento nel settore merci e superiore al 95 per cento nel trasporto passeggeri. La privatizzazione di Trenitalia porterebbe ad un’efficiente gestione d’impresa dopo che l’azienda nel 2006 ha perso circa 1,9 miliardi di Euro e nel 2007 circa 400 milioni di Euro; senza l’aumento dei contributi statali per il gruppo FS avvenuto nello scorso anno, la perdita per Trenitalia è stimata essere superiore al miliardo di Euro per l’esercizio chiuso a dicembre, senza contare l’aumento delle tariffe.
La privatizzazione di Trenitalia deve riguardare la totalità dell’azienda e non solamente una quota di minoranza, che di fatto non cambierebbe la gestione pubblicistica. L’uscita dello Stato dalla proprietà di Trenitalia provocherebbe, congiuntamente all’effettiva liberalizzazione, l'abbattimento di almeno il 30% degli attuali costi unitari di produzione (fuori mercato sia rispetto al trasporto aereo, compresa Alitalia, sia rispetto alle migliori aziende ferroviarie europee). Occorre inoltre scorporare il trasporto merci da quello passeggeri, eliminando i sussidi incrociati e superando la situazione attuale nella quale il settore merci opera con costi superiori ai ricavi del 30 per cento.
Il modello di riferimento per la riforma ferroviaria non può che essere quello inglese il quale ha adottato una piena liberalizzazione e privatizzazione delle compagnie ferroviarie. In questo modello i contributi pubblici sono circa la metà rispetto al caso tedesco e, in seguito all’apertura del mercato, il trasporto passeggeri è cresciuto del 55 per cento, mentre il trasporto merci del 70 per cento. Al contrario, in Italia ed in Europa la crescita è stata quasi nulla. L’operatore ferroviario più importante nel trasporto passeggeri inglese ha appena il 10 per cento della quota di mercato, il trasporto ferroviario britannico, inoltre, è risultato nel 2005 il più sicuro d’Europa insieme alla Svezia.
martedì 5 febbraio 2008
Treni in borsa? Per ora ci basta che arrivino in stazione (all'orario previsto)
P.S.: Saremmo naturalmente felicissimi di assistere all'arrivo dei treni in Borsa: dopo una piena liberalizzazione dell'accesso alla rete, l'uscita dello Stato dalla proprietà di Trenitalia e l'abbattimento di almeno il 30% degli attuali costi unitari di produzione (visto che sono fuori mercato sia rispetto al trasporto aereo, compresa la prefallimentare Alitalia, sia rispetto alle migliori aziende ferroviarie europee). Per ora ci accontentiamo che i treni entrino nelle stazioni ferroviarie (possibilmente all'orario previsto).
domenica 3 febbraio 2008
Bernabè e Galateri: a che gioco giochiamo?
E noi che credevamo che la strada per la separazione della rete fosse tutta in discesa. Pare, invece, che ai vertici Telecom non passi nemmeno per l'anticamera del cervello. Mentre al ministero delle Comunicazioni si aprono le offerte per le frequenze del WiMax, forse illudendosi che si tratti della panacea di tutti i mali, questa è una brutta notizia per chi pensava che un mercato concorrenziale delle TLC fosse finalmente alla portata.
Le liberalizzazioni difficili
Suddiviso in tre sessioni, trasporti pubblici locali, ferrovie ed aeroporti il dibattito ha dimostrato quanto l’Italia, in questi tre campi, sia ancora poco liberalizzata.
La riforma dei servizi pubblici locali, voluta nel Luglio del 2006 dal Ministro Lanzillotta, è abortita dopo che le lobbies locali hanno fatto il possibile per smontarla lentamente, ma inesorabilmente. La riforma è necessaria, ma è ancora più necessario fare una riforma che sia effettivamente capace di eliminare i problemi che affliggono questo settore che incide notevolmente sul prodotto interno lordo italiano.
Il dibattito ha mostrato anche l’assenza di un mercato liberalizzato nel settore del trasporto ferroviario. Il professore Marco Ponti, del Politecnico di Milano, ha evidenziato tutte le debolezze e gli sprechi del settore.
L’ultimo settore analizzato dal convegno è quello aeroportuale. Gli aeroporti operano in un contesto di monopolio naturale, mentre le compagnie aeree, clienti degli aeroporti stessi, hanno un mercato fortemente liberalizzato.
La volontà di mettere a sistema gli aeroporti del Nord Italia, come molti politici o economisti affermano, provocherebbe una diminuzione della concorrenza in un settore, quello aeroportuale, dove è già ridotta al minimo.
La capacità di mettere a sistema non è inoltre il punto forte dell’Italia: l’unico sistema aeroportuale del Nord Italia, Milano, gestito dalla SEA, è riuscito a far cannibalizzare Malpensa da parte di Linate togliendo quelle poche possibilità di fare dello scalo varesino un hub competitivo. Sarebbe meglio aumentare la competizione tra gli aeroporti ed eliminare una gestione pubblica degli scali che provoca molte inefficienze.
I temi affrontati hanno dimostrato quante resistenze esistono per mantenere le rendite di posizione in settori dove il monopolio è ancora forte. Una grande azione di liberalizzazione dei tre settori è necessaria al fine di sviluppare il mercato, favorire i cittadini e creare posti di lavoro. Il settore delle compagnie aeree ha messo in luce che la liberalizzazione crea dei vantaggi enormi per l’economia. Negli ultimi dieci anni è raddoppiato il numero di passeggeri trasportati a livello europeo, con una creazione stimata di posti di lavoro diretti di circa 400 mila occupati.
sabato 2 febbraio 2008
L’ospite di febbraio
venerdì 1 febbraio 2008
La liberalizzazione postale e i misteriosi costi del servizio universale
- la data prevista per la piena liberalizzazione non è più il 1° gennaio 2009, inizialmente proposta dalla Commissione U.E. ma il 2011, come voluto nello stesso Parlamento da un'ampia e trasversale maggioranza, timorosa dei possibili effetti 'nocivi' della concorrenza sulle imprese pubbliche già monopoliste e poco attenta ai più generali interessi dei consumatori, siano essi individui o imprese;
- permangono strumenti per la tutela del cosiddetto 'servizio universale' potenzialmente a rischio di distorsione per un'effettiva concorrenza ad armi pari, quali la possibilità di sovvenzioni pubbliche in favore dell'impresa che garantisce l'universalità o l'attivazione di fondi di compensazione con oneri a carico delle imprese concorrenti;
Il ragionamento che giustifica questi strumenti è sostanzialmente il seguente: poichè il servizio postale è essenziale per qualsiasi cittadino o impresa, indipendentemente dalla sua collocazione geografica, allora è necessario garantirne l'offerta su tutto il territorio, comprese le aree periferiche a bassa densità di popolazione che non verrebbero probabilmente servite da imprese operanti secondo logiche puramente di mercato. In astratto è un'ipotesi possibile anche se poco probabile; sarebbe tuttavia sufficiente attendere il suo verificarsi per porre un rimedio specifico. Se Poste Italiane comunica che non intende più recapitare nel Comune rurale X, allora un'agenzia pubblica dovrebbe provvedere ad attivare un servizio sostitutivo al costo minimo possibile (ad esempio attraverso una gara).
Sinora, invece, il meccanismo ha funzionato nel seguente modo: (a) il regolatore pubblico del mercato postale ha chiesto al regolato, di proprietà totalmente pubblica: 'scusi, quanto perde complessivamente nella aree non remunerative?'; (b) il regolato ha risposto (nel 2006): 611 milioni di euro (corrispondenti a 10 centesimi di perdita media per oggetto postale, ovunque sia stato recapitato, e al costo del lavoro complessivo di ben 18 mila portalettere); (c) a questo punto il regolatore ha chiesto al regolato: 'dia incarico, con oneri a suo carico, ad una società di certificazione di attestare che quanto afferma corrisponde al vero'; (d) infine, dato che la società assunta, ha certificato, e in assenza di ulteriori e autonome valutazioni, sono stati dati 370 milioni di euro (molto meno di quanto richiesto in considerazione delle note cattive condizioni della finanza pubblica).
Morale della favola: è davvero possibile credere che l'onere del servizio universale pesi per il 100% del costo del lavoro di 18 mila postini o, se si preferisce, per il 40% del costo del lavoro di tutti i 43 mila postini che lavorano in Poste Italiane? Molto difficile a credersi, ma allora viene il sospetto che dietro la tutela del consumatore periferico, il classico esempio della vecchina che abita in cima alla montagna, si nasconda ancora una volta la protezione dell'operatore dominante, già monopolista. Non è che la vecchina in cima alla montagna è in realtà il vertice mascherato dell'azienda pubblica e la corrispondenza che deve ricevere è l'assegno da 611 milioni spedito dal Ministro dell'Economia e Finanze? L'arrivo della concorrenza potrebbe svelare il mistero, con grande gioia del contribuente-spettatore.