Gli indici sono spesso imperfetti. La scelta stessa degli indicatori contiene una certa dose di arbitrarietà, fa spesso riferimento a dati aggregati che hanno poco senso, deve necessariamente affrontare un trade off fra completezza, estensione ed accuratezza, dettaglio. Ma hanno sicuramente alcuni meriti: ci offrono un'indicazione, di correlazioni e di trend. Ed stimolano discussioni interessanti, come quella di ieri alla presentazione dell'Index of Economic Freedom, che potete seguire su radio radicale.
Come per molte malattie, rendersi conto di un problema è il primo passo verso la guarigione. Nel quadro clinico del nostro paese, che figura al 29° posto in Europa, ed al 64° nel mondo, i tre indicatori in cui otteniamo scores più bassi, (pressione fiscale, corruzione e government size) sono sintomatici, ha sottolineato l'ambasciatore americano Terry Miller, di una scarsa accountability dello stato e della classe politica italiana, che non si sentono vincolati a rispondere ai propri concittadini per le loro azioni, per i loro sprechi e per le mancate riforme. Il prelievo fiscale e la spesa pubblica sono ovviamente correlati, essendo due facce della stessa medaglia: soldi, risorse, opportunità sottratti ai cittadini, agli imprenditori ed alla società civile, e consegnate allo stato. Ma sono anche correlate con la qualità dei servizi offerti dallo stato, poiché maggiore sarà la quota di Pil controllata da questo, maggiore sarà la quota sottratta alla concorrenza, in cui diminuirà quindi l'efficienza e la possibilità di valutarla.
Esigenza bene espressa dall'onorevole Maurizio Sacconi, che ha giustamente sottolineato la necessità di sviluppare strumenti che fungano almeno da approssimazione della concorrenza, aumentando la trasparenza del sistema e la propensione a riformare.
La capacità di affrontare i problemi strutturali di un paese è, purtroppo, ha ricordato Roberto Nicastro di UniCredit Banca, relativamente più facile in stato emergenziale: liberalizzazioni vigorose come quelle dell'est europeo sono relativamente facili uscendo dal disastro comunista, perchè il costo politico è meno alto.
Ma, senza cambiare l'Italia potrebbe trovarsi presto in questa situazione, a giudicare dal pessimismo di altri relatori. L'index è sorprendentemente positivo, financo!, per Franco Debenedetti, che vi contrappone, oltre ad una brillante quanto puntuale e negativa analisi della situazione per ogni sottoindicatore, la diffusa e crescente sensazione di costrinzione, di non poter fare ciò che si aspira.
Sulla stessa linea Paolo Pirani, UIL, sottolinea come il 73,5% di libertà del lavoro sia sì riconoscimento della bontà delle recenti riforme, ma che il mercato del lavoro italiano deve essere più aperto, dinamico e flessible per garantire la mobilità sociale e lo sviluppo umano.
Ma, forse perchè il freddo cuore di noi liberisti si scioglie davanti agli imprenditori quando questi ci ricordano gli Atlanti di Ayn Rand, sulle cui spalle poggia il progresso di un mondo che gli impone ogni sorta di barzello, l'intervento che mi ha colpita di più è stato quello di Francesco Valli. Manager di un'impresa, BAT, che ha investito in una privatizzazione italiana, e ne affronta ogni giorno le conseguenze, ci ha raccontato com'è difficile organizzare un'attività economica in un sistema dove non solo le regole sono incongruenti e spesso logicamente ossimoriche, ma hanno anche un ritmo di rinnovamento assolutamente destabilizzante, se non quando devono cristallizzare delle rendite. Le solite, legittime rimostranze? Non solo. In questo intervento, a darci ottimismo, rispetto al quadro generale piuttosto sconsolante, è invece un segnale di presa di coscienza di quella che in qualche modo può essere definita "società civile". Che non si accontenta più di una classe politica irresponsabile, di rappresentanze che non rappresentano che propri interessi, ed è in cerca di nuovi modi per intervenire, e condizionare, il dibattito pubblico. Perché vengano poste in essere delle riforme in grado di farci risalire la china, e darci un nuovo miracolo economico.
Terry Miller ce lo ricorda: nei quattordici anni in cui l'index è stato redatto, è stato osservato che anche a riforme piccole, ma nella direzione di una maggiore libertà, è conseguito un grande aumento della ricchezza delle nazioni.
Come per molte malattie, rendersi conto di un problema è il primo passo verso la guarigione. Nel quadro clinico del nostro paese, che figura al 29° posto in Europa, ed al 64° nel mondo, i tre indicatori in cui otteniamo scores più bassi, (pressione fiscale, corruzione e government size) sono sintomatici, ha sottolineato l'ambasciatore americano Terry Miller, di una scarsa accountability dello stato e della classe politica italiana, che non si sentono vincolati a rispondere ai propri concittadini per le loro azioni, per i loro sprechi e per le mancate riforme. Il prelievo fiscale e la spesa pubblica sono ovviamente correlati, essendo due facce della stessa medaglia: soldi, risorse, opportunità sottratti ai cittadini, agli imprenditori ed alla società civile, e consegnate allo stato. Ma sono anche correlate con la qualità dei servizi offerti dallo stato, poiché maggiore sarà la quota di Pil controllata da questo, maggiore sarà la quota sottratta alla concorrenza, in cui diminuirà quindi l'efficienza e la possibilità di valutarla.
Esigenza bene espressa dall'onorevole Maurizio Sacconi, che ha giustamente sottolineato la necessità di sviluppare strumenti che fungano almeno da approssimazione della concorrenza, aumentando la trasparenza del sistema e la propensione a riformare.
La capacità di affrontare i problemi strutturali di un paese è, purtroppo, ha ricordato Roberto Nicastro di UniCredit Banca, relativamente più facile in stato emergenziale: liberalizzazioni vigorose come quelle dell'est europeo sono relativamente facili uscendo dal disastro comunista, perchè il costo politico è meno alto.
Ma, senza cambiare l'Italia potrebbe trovarsi presto in questa situazione, a giudicare dal pessimismo di altri relatori. L'index è sorprendentemente positivo, financo!, per Franco Debenedetti, che vi contrappone, oltre ad una brillante quanto puntuale e negativa analisi della situazione per ogni sottoindicatore, la diffusa e crescente sensazione di costrinzione, di non poter fare ciò che si aspira.
Sulla stessa linea Paolo Pirani, UIL, sottolinea come il 73,5% di libertà del lavoro sia sì riconoscimento della bontà delle recenti riforme, ma che il mercato del lavoro italiano deve essere più aperto, dinamico e flessible per garantire la mobilità sociale e lo sviluppo umano.
Ma, forse perchè il freddo cuore di noi liberisti si scioglie davanti agli imprenditori quando questi ci ricordano gli Atlanti di Ayn Rand, sulle cui spalle poggia il progresso di un mondo che gli impone ogni sorta di barzello, l'intervento che mi ha colpita di più è stato quello di Francesco Valli. Manager di un'impresa, BAT, che ha investito in una privatizzazione italiana, e ne affronta ogni giorno le conseguenze, ci ha raccontato com'è difficile organizzare un'attività economica in un sistema dove non solo le regole sono incongruenti e spesso logicamente ossimoriche, ma hanno anche un ritmo di rinnovamento assolutamente destabilizzante, se non quando devono cristallizzare delle rendite. Le solite, legittime rimostranze? Non solo. In questo intervento, a darci ottimismo, rispetto al quadro generale piuttosto sconsolante, è invece un segnale di presa di coscienza di quella che in qualche modo può essere definita "società civile". Che non si accontenta più di una classe politica irresponsabile, di rappresentanze che non rappresentano che propri interessi, ed è in cerca di nuovi modi per intervenire, e condizionare, il dibattito pubblico. Perché vengano poste in essere delle riforme in grado di farci risalire la china, e darci un nuovo miracolo economico.
Terry Miller ce lo ricorda: nei quattordici anni in cui l'index è stato redatto, è stato osservato che anche a riforme piccole, ma nella direzione di una maggiore libertà, è conseguito un grande aumento della ricchezza delle nazioni.
Nessun commento:
Posta un commento