giovedì 7 febbraio 2008

Qualche ragione di ottimismo: incrociando le dita

Le considerazioni di Ugo Arrigo sulla situazione politica italiana sono corrette, ma al tempo stesso è (forse) lecito nutrire qualche speranza.

È chiaro che se l’Italia – dopo un paio di anni dominati dalla “lotta agli evasori” (Visco) e da velleitari tentativi di liberalizzare l’economia tutti finiti in nulla – si apprestare ad avere nuovamente Giulio Tremonti ministro dell’economia, Gianni Alemanno ministro dell’agricoltura e altri campioni delle libertà economiche in analoghi incarichi, ci sono ben poche ragioni per essere allegri. Però non è detto che le prospettive siano tanto tristi.

In primo luogo, vi è una realtà dei fatti che mi pare più forte degli omuncoli della politica nazionale, e i liberali sono i primi che devono diffidare nella pretesa onnipotenza della politica. Un esempio: in un modo o nell’altro, Alitalia sarà venduta, e questo sarà comunque un buon risultato. Speriamo che ciò si accompagni ad un processo di liberalizzazione delle rotte e che non si destini verso Malpensa una parte di quanto si risparmierà dal fatto di non dover più sovvenzionare la compagnia di bandiera.

Ma quanto avviene in questo ambito vale anche per altri settori. La stampa in questi giorni ci ha informato dell’interesse di Montezemolo per un treno di produzione francese, con il quale l’attuale presidente di Confindustria intende entrare nel mercato ferroviario italiano e fare concorrenza a Trenitalia (diciamola tutta: non sarà un’operazione molto difficile...).

Che si vada verso una crescita delle libertà economiche e della concorrenza mi pare nei fatti: e questo a dispetto della mediocrità dei ministri passati, presenti e (con ogni probabilità) a venire.
Perfino sul piano strettamente politico qualcosa si muove. Walter Veltroni ha fatto la scelta di andare da solo: visto la modestia del suo parlare e ragionare quando è su un palco o in televisione, diciamo che quanto meno ha buoni consiglieri. Perché la mossa è molto azzeccata, dato che l’Unione poteva solo uscire perdente da un confronto con la Cdl, mentre in questo modo il Partito democratico ottiene due rilevanti risultati.

Innanzi tutto, anche in caso di sconfitta viene ridotta la portata della débâcle. Poiché non ci si aspetta che il partito di Veltroni, da solo, possa sconfiggere un’alleanza che va da Storace fino a Dini e Mastella, in qualsiasi caso sarà un successo. Ma soprattutto il Pd ha ottenuto il risultato paradossale di porsi – benché sia il maggiore partito della maggioranza uscente – nella posizione di chi sta provando ad innovare. In qualche modo, la Cdl ora è il sistema politico in vigore (basato su larghe alleanze inconcludenti e su personalità incapaci di tutto, si tratti di Prodi o Berlusconi), mentre il Pd vuole interpretare il nuovo. Alle solite, Veltroni non rinuncia al gusto di “fare l’americano” e cita Barack Obama e il suo “Yes, we can”, puntando sulla necessità di un “change”.

Veltroni ha quindi scommesso sul fatto che la Cdl è forte nei sondaggi, ma debolissima nei gradimenti. Nessuno o quasi tra quanti sono pronti a votarla ha davvero un solido convincimento che l’alleanza di centro-destra possa aiutare l’Italia a rimettersi in carreggiata: e con la mossa apparentemente suicida di andare da solo Veltroni riesce perfino ad ottenere qualche chance
di vittoria.

Mi pare che tutto questo possa avere qualche conseguenza anche nel campo opposto. Se vuole avere qualche prospettiva di fronte a sé, lo stesso Berlusconi ora è costretto a cambiare in larga misura la propria squadra: cominciando, ovviamente, dalle pedine principali. Ringiovanendo un po’ il gruppo, ad esempio, e puntando sui suoi uomini migliori: da Sacconi a Brunetta, da Della Vedova a Capezzone. E magari anche adottando la “strategia Sarkozy”, e quindi cercando altrove quelle competenze e intelligenze che tanto scarseggiano nelle sedi dei partiti moderati. Nei cinque anni della precedente legislatura, e il fondatore di Fininvest lo sa bene, la squadra di governo ha dato risultati veramente modesti. È chiaro che Berlusconi ha prima di tutto accusato la pessima congiuntura internazionale, e lo si comprende. Ma poiché la stessa congiuntura hanno conosciuto pure l’Irlanda e la Spagna, per limitarsi a citare un paio di paesi europei, è chiaro che molto dell’insuccesso italiano di questi anni dipende da noi.

Il rinnovamento negli uomini e nelle idee voluto da Veltroni (la bozza del programma del Pd è stata affidata a Morando, che si è già rivolto alla consulenza di Boeri, Ichino e Salvati) obbliga quindi l'armata Brancaleone del centro-destra a fare altrettanto. Forse possiamo sperare che dalla retorica delle grandi opere e delle immense spese (leggi: debito pubblico) si passi finalmente alla serità di chi intende davvero riformare il welfare, introdurre più spazi di mercato e ridurre il peso dello Stato nella società.

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