La privatizzazione di un monopolio pubblico non è condizione sufficiente per garantire una vera liberalizzazione. È però condizione necessaria. Se liberalizzare un settore significa riconsegnarlo all’iniziativa privata, una liberalizzazione che non contempli l’eclissarsi dell’imprenditore stato non è che un bluff. E fa male alla concorrenza.
Un mercato aperto è spesso rappresentato come un piano di gioco, in cui tutti i giocatori sono allo stesso livello: liberi di entrarvi, competere, avere successo o fallire. Ciò è perfettamente inconciliabile con il permanere di un soggetto, nelle cui casse confluiscano pubblici denari, a cui non è permesso di fallire. Un soggetto il cui proprietario decide le regole del gioco.
Il caso di Poste Italiane – ancora oggi posseduta al 65% dal Tesoro e per il rimanente 35% dalla Cassa Depositi e Prestiti – ci offre una serie pressoché infinita di distorsioni dovute ad un palese conflitto d’interessi: dalla ricezione minimale delle direttive comunitarie che ci hanno imposto l’apertura del mercato alla passiva accettazione della stima di Poste Italiane dell’onere del servizio universale, con la fissazione della riserva legale al livello più alto permesso da Bruxelles; dall’esenzione dell’incumbent dal pagamento dell’IVA, che grava invece sui suoi concorrenti, alla penalizzante, e vorticosamente mutevole, regolamentazione della posta ibrida; dall’abolizione della posta ordinaria (!) per mascherare un aumento delle tariffe postali, al recente bando per l’assegnazione di servizi che distrugge ogni residuo di concorrenza in questo piano di gioco sempre più irto per gli attori diversi da quello pubblico.
Non deve sorprenderci quindi il fatto che, secondo il nostro Indice, il settore postale sia quello meno liberalizzato in Italia: non ci sorprenderemmo di certo del risultato di Milan-Inter se ad arbitrare la partita ci fosse Berlusconi o Moratti.
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