In un editoriale sul Wall Street Journal di oggi, Jagdish Bhagwati e Arvind Panagariya attaccano il comportamento americano (ed europeo) durante le negoziazioni multilaterali sul commercio. E' vero che il crollo di Potsdam è stato causato da un irrigidimento di India e Brasile, ma il punto è che il primo passo dovrebbero essere Usa e Ue a farlo. Perché sono più ricchi, perché - teoricamente - dispongono di una maggiore comprensione delle dinamiche economiche, perché è assolutamente velleitario pensare che siano i paesi in via di sviluppo a farlo. "Il problema - scrivono - è che oggi non c'è alcun sostegno politico da nessuno dei partiti, negli Usa, per la riduzione dei sussidi agricoli. I Democratici si stanno leccando i baffi nell'attesa di conquistare la Casa Bianca; i Republicani sono terrorizzati dal perderla. Nessuno rischierà di perdere i voti della farm belt".
Si tratta dell'ennesima dimostrazione che le riforme si fanno subito, o non si fanno. Appena eletto, George W. Bush avrebbe potuto premere l'acceleratore. L'autorizzazione a negoziare a nome degli Stati Uniti senza dover sottoporre ogni piccolo passo all'approvazione del Congresso - che aveva consegnato alla Casa Bianca il potere di predisporre un pacchetto "prendere o lasciare" - avrebbe potuto condurre a risultati rivoluzionari, specie quando (nel 2005, a Hong Kong) la controparte europea era rappresentata da Tony Blair, presidente di turno dell'Unione nonché leader del G8, e Peter Mandelson, commissario europeo al commercio. Quella potenzialità si è ormai dissolta.
Con realismo, Bhagwati e Panagariya riconoscono che né il carisma del presidente, né il miraggio di un accesso ai mercati non agricoli (Nama) saranno interpretati dalla potente lobby agricola come un prezzo ragionevole per cedere su sussidi e tariffe. I due economisti, quindi, prendono la via del pragmatismo e suggeriscono una riforma dei sussidi: "prendete i circa 20 miliardi di dollari di questi sussidi alla produzione e trasformatene, per esempio, due terzi in sussidi non distorcenti - sganciati dai livelli di produzione e dati invece, per dire, agli agricoltori per scopi ambientali, la questione oggi più popolare". Non sono sicuro che questa sia la soluzione. Cambierebbe la natura dei sussidi, e forse nel breve termine le cose andrebbero meglio, ma alla lunga - come ci insegna l'esperienza europea - anche l'ambiente e la sicurezza sono ottimi pretesti per frenare le merci straniere. Non credo vi siano soluzioni di breve termine. Perso un treno - quello di Bush - bisogna aspettarne un altro. Come sempre, per i grandi cambiamenti ci vogliono leadership e visione, che oggi all'America (e all'Europa) mancano.
A livello internazionale, forse sarebbe opportuno sospendere Doha, cercando di portare a casa almeno significativi accordi bilaterali. Senza la determinazione europea o americana ad andare avanti, Doha è tafazzismo multilaterale.
lunedì 9 luglio 2007
Sospendere Doha (per salvarlo)
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