Qualche giorno fa, un articolo dell’Herald Tribune ha dipinto un immagine non troppo lusinghiera della ricerca nell’università italiana. I problemi sono noti: da una parte l’endemica mancanza di fondi, dall’altra un sistema di reclutamento di docenti e ricercatori non esattamente trasparente.
Quello della ricerca è un tema caldo in Italia ed in Europa: essenzialmente perché, di buona ricerca, ne facciamo troppo poca. Perché ci ritroviamo con un sistema che non è in grado di generare eccellenza? Siamo forse più sciocchi o meno studiosi di americani ed asiatici?
Gli economisti sono soliti ad affrontare i problemi guardando alla struttura degli incentivi. Dobbiamo chiederci, dunque, se l’assetto istituzionale del mondo accademico sia in grado di valorizzare e premiare le menti, le ricerche, gli atenei migliori. Ottenere una cattedra solo perché si ha un cognome molto diffuso fra i docenti di un ateneo è un’ingiustizia. Ma è anche inefficiente, perché manda al giovane ingegno con aspirazioni accademiche un messaggio univoco: «vatti a prendere un PhD all’estero». Chi ne ha le capacità, riuscirà ad entrare in un'università dell'Ivy League, ad Oxbridge o in uno degli atenei asitiatici che sta scalando i ranking internazionali. Chi non ce ha queste capacità, o la voglia di espatriare, resterà a casa: si cercherà una raccomandazione o un altro lavoro. E' un chiaro esempio di selezione avversa, e condanna i giovani italiani ad apprendere dai peggiori.
Ma perché un’università dovrebbe lasciarsi sfuggire le menti migliori avvallando metodi di selezione non meritocratici? Semplicemente, perché non ha nessun incentivo a fare diversamente, in un sistema in cui l’equivalenza del valore degli atenei è stabilita per legge. In Italia, i titoli di studio sono emanati in nome della legge, ed hanno un valore legale che non implica solo il riconoscimento di un risultato accademico e scolastico, ma anche una certificazione pubblica di alcune abilità: che io vada a studiare al Sant’Anna o all’Università di Rocca Cannuccia, il risultato è lo stesso – se non per la mia preparazione, almeno per lo stato italiano. Nel momento in cui si coniugano poi le – giustissime – istanze di autonomia didattica degli atenei con un risultato finale stabilito per legge, si innesca un meccanismo di competizione al ribasso: fioriscono le sotto-facoltà di Tetrapiloctomia ed i corsi di Idrogrammatologia in moduli componibili da un credito e mezzo. Tanto, allo studente, sempre più ciuchino, importa solo del pezzo di carta: ed i pezzi di carta sono tutti uguali.
Quello della ricerca è un tema caldo in Italia ed in Europa: essenzialmente perché, di buona ricerca, ne facciamo troppo poca. Perché ci ritroviamo con un sistema che non è in grado di generare eccellenza? Siamo forse più sciocchi o meno studiosi di americani ed asiatici?
Gli economisti sono soliti ad affrontare i problemi guardando alla struttura degli incentivi. Dobbiamo chiederci, dunque, se l’assetto istituzionale del mondo accademico sia in grado di valorizzare e premiare le menti, le ricerche, gli atenei migliori. Ottenere una cattedra solo perché si ha un cognome molto diffuso fra i docenti di un ateneo è un’ingiustizia. Ma è anche inefficiente, perché manda al giovane ingegno con aspirazioni accademiche un messaggio univoco: «vatti a prendere un PhD all’estero». Chi ne ha le capacità, riuscirà ad entrare in un'università dell'Ivy League, ad Oxbridge o in uno degli atenei asitiatici che sta scalando i ranking internazionali. Chi non ce ha queste capacità, o la voglia di espatriare, resterà a casa: si cercherà una raccomandazione o un altro lavoro. E' un chiaro esempio di selezione avversa, e condanna i giovani italiani ad apprendere dai peggiori.
Ma perché un’università dovrebbe lasciarsi sfuggire le menti migliori avvallando metodi di selezione non meritocratici? Semplicemente, perché non ha nessun incentivo a fare diversamente, in un sistema in cui l’equivalenza del valore degli atenei è stabilita per legge. In Italia, i titoli di studio sono emanati in nome della legge, ed hanno un valore legale che non implica solo il riconoscimento di un risultato accademico e scolastico, ma anche una certificazione pubblica di alcune abilità: che io vada a studiare al Sant’Anna o all’Università di Rocca Cannuccia, il risultato è lo stesso – se non per la mia preparazione, almeno per lo stato italiano. Nel momento in cui si coniugano poi le – giustissime – istanze di autonomia didattica degli atenei con un risultato finale stabilito per legge, si innesca un meccanismo di competizione al ribasso: fioriscono le sotto-facoltà di Tetrapiloctomia ed i corsi di Idrogrammatologia in moduli componibili da un credito e mezzo. Tanto, allo studente, sempre più ciuchino, importa solo del pezzo di carta: ed i pezzi di carta sono tutti uguali.
Un altro punto fondamentale è il finanziamento dell’università. In un bel paper sul sistema educativo statunitense, Paolo Bernardini sottolinea la differenza fra i sussidi indifferenziati che cadono a pioggia sugli atenei nostrani e gli investimenti specifici, da cui ci si aspetta un ritorno, in cui si manifesta in america l’intervento pubblico. Che non è inesistente, certo, ma è comunque accompagnato da un massiccio investimento privato e da una gestione manageriale delle università, veri e propri enti economici in concorrenza fra loro. La questione è certamente molto più complessa di quanto si possa ridurla in un post, e molte altre sono le storture del nostro sistema accademico.
Però ci troviamo davanti ad un bivio: possiamo chiedere più fondi, possiamo appellarci alla morale della classe docente, possiamo invocare concorsi più centralizzati, più controllati o (ancora) più regolamentazione: è stato fatto per per anni, ma non ci sono stati grandi risultati. Oppure, possiamo accettare il fatto che il futuro dell’innovazione non può essere affidato alla buona volontà di poche meritevoli eccezioni, ma deve poggiarsi su un sistema di incentivi razionali: senza una sana concorrenza in grado di premiarli, i centri d’eccellenza sono destinati a scomparire.
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