lunedì 31 marzo 2008
Alitalia (Dizionario dell'Italia)
Anch'io sono qui
Alitalia, Malpensa e i numeri del mercato
Quando Alitalia si spostò su Malpensa deteneva circa il 50% del traffico a lungo raggio, quello organizzato sul modello hub&spoke. Nei dieci anni trascorsi il mercato a lungo raggio è più che raddoppiato ma poichè la capacità di Alitalia su questo segmento è rimasta sostanzialmente invariata (stessi aeromobili, identica offerta, identica domanda), la sua quota di mercato si è ridotta a poco più del 25%.
Con la domanda di traffico a lungo raggio soddisfatta sia allora che adesso Alitalia non può sostenere due hub: la decisione del 1998 è stata un errore e quella attuata ieri una dolorosa ma necessaria correzione. Tuttavia, se ora Alitalia avesse il 50% del mercato a lungo raggio, cioè la quota di mercato di allora applicata alle dimensioni attuali del mercato, due hub sarebbero perfettamente sostenibili. Il 50% del mercato, ma in realtà basterebbe anche il 40%, è una percentuale non implausibile se si considera che stiamo parlando di un segmento non libero ma ancora duopolizzato dai trattati internazionali (tranne che per i collegamenti con gli USA, appena aperti alla competizione).
Quali requisiti avrebbero potuto portare a una posizione così solida di Alitalia? La sua possibilità di crescere nel tempo, aumentando l'offerta (sarebbero infatti necessari circa 60 aeromobili a lungo raggio per i due hub, il doppio di quelli effettivi), congiunta alla capacità di essere competitiva in termini di qualità e di costi. Si tratta di requisiti abituali, perchè necessari, nelle imprese a gestione privatistica operanti in mercati concorrenziali. Con la gestione pubblica, invece, il secondo requisito è stato mancato soprattutto per gli effetti della cogestione sindacale e del comando politico su Malpensa che hanno fatto lievitare i costi e mandato in deficit il bilancio; il primo, in conseguenza, è stato mancato per l'impossibilità di finanziare la crescita, non potendo per ovvi divieti europei ricapitalizzare a piacere con soldi dello stato un'azienda pubblica in deficit.
Da questa analisi si possono trarre due insegnamenti:
1) Se dieci anni fa anzichè aprire Malpensa per decisione politica si fosse privatizzata Alitalia, gettandola sul mercato, essa avrebbe avuto la necessità di essere competitiva e la conseguente possibilità di aumentare nel tempo la sua capacità di offerta;
2) Con Alitalia privatizzata nel 1998, e cresciuta nel tempo in maniera simile ad Air France, essa avrebbe ora i numeri per un secondo hub intercontinentale.
Se si fosse lasciato fare al mercato, ieri Alitalia avrebbe potuto inaugurare a Malpensa il suo secondo hub anzichè chiuderlo; invece, la pessima decisione politica di aprirlo a forza dieci anni fa ha affossato Alitalia che ha trascinato con sè anche Malpensa.
domenica 30 marzo 2008
Dr. House Vs Michael Moore
Concorrenza (Dizionario dell'Italia)
Io sono qui, ma non voto l'Udc
Poi uno legge una dichiarazione come questa di Berlusconi (doveva essere la nostra Thatcher, ora è "il nuovo Fanfani"), e capisce che tanto moriremo democristiani comunque vada.
sabato 29 marzo 2008
Cattedra universitaria (Dizionario dell'Italia)
Mercato II (Dizionario dell'Italia)
(N.B.: Ringrazio Andrea Giuricin per aver suggerito la correzione alla precedente definizione che era incompleta e persino ottimistica!)
venerdì 28 marzo 2008
Mercato (Dizionario dell'Italia)
giovedì 27 marzo 2008
Azienda sanitaria (Dizionario dell'Italia)
Riformare la manovra finanziaria annuale: una proposta
Bene, viviamo dunque noi italiani in uno Stato socialista? No, ma la strada che abbiamo intrapreso è quella che porta in tale direzione (La strada verso la schiavitù? Speriamo di no).
Per dare una sterzata a questa tendenza bisognerebbe partire da una seria riforma delle procedure per la formazione del bilancio del settore pubblico. Infatti, non a caso, il manuale delle riforme dell’IBL si apre proprio con questa proposta, importantissima se si vuole limitare le spese dello Stato e la sua invadenza nelle vite degli individui.
Attualmente, la nostra legge finanziaria è un colabrodo: invece che rappresentare uno strumento serio e rigoroso per contenere la spesa pubblica è in realtà un passaggio che consente ad ogni parlamentare di attingere alle casse dello Stato per soddisfare i suoi più minuti interessi.
Nella sua proposta, Giuseppe De Filippi ritiene necessario cominciare a monte l’opera di revisione delle procedure che portano all’approvazione della manovra annuale. Il Dpef dovrebbe così trasformarsi in un breve documento che indichi solamente saldi e obiettivi di spesa, perdendo tutta quella imponente parte legata all’analisi della situazione economica internazionale e locale (assai utile per i convegni e nulla più).
Ma il vero problema riguarda la legge finanziaria, che dagli anni della sua entrata in vigore (1978) non ha saputo razionalizzare e contenere le spese della mano pubblica. Solamente un vincolo esterno, come quello imposto dal Trattato di Maastricht, ha influito sui conti pubblici, mentre le varie finanziarie che susseguitesi nel corso del tempo si sono connotate come veri e propri “assalti alla diligenza”. Ma come fare per tenere sotto controllo la spesa pubblica? De Filippi propone innanzitutto di introdurre una sunset legislation (la legislazione a scadenza), “comportante la decadenza automatica delle leggi di spesa dopo un certo numero di anni”. Secondariamente, occorrerebbe intervenire direttamente sulla finanziaria. Nonostante le limitazioni imposte al suo contenuto (elencate nella legge 208/1999), “l’individuazione di ciò che può o non può essere inserito nella finanziaria costituisce tuttora un punto critico della manovra annuale”. Il potere di emendamento attribuito al parlamento dilata sempre, ogni anno, il disegno di legge originario (che compete al governo). A mio parere, dunque, limitare questo potere di emendamento vorrebbe dire mantenere entro certi limiti le dimensioni della finanziaria. Permettendo così che le strutture tecniche preposte al controllo della copertura di determinate spese contenute nei singoli provvedimenti (o nei pochi emendamenti) possano compiere le necessarie verifiche nei tempi richiesti (senza essere così travolte improvvisamente da valanghe di emendamenti). L’alternativa è quella attuale, ovvero quella che vede il parlamento travestirsi ogni anno da suk arabo (ma non a carnevale).
mercoledì 26 marzo 2008
Alitalia: la politica e il mercato
Certo le dichiarazioni dei politici hanno influenzato l’andamento del titolo, non per altro per il semplice fatto che l’azienda, purtroppo, è ancora in mano alla politica; il Ministro dell’Economia e delle Finanze rimane sempre l’azionista di maggioranza.
L’offerta di AirFrance è arrivata a fine del periodo di esclusiva della trattativa, valutando la compagnia di bandiera molto poco; circa 140 milioni di Euro per il 100 per cento delle azioni Alitalia.
Il mercato azionario ha subito sanzionato Alitalia in Borsa; il titolo lunedì 17 Marzo all’apertura delle contrattazioni è caduto da circa 60 centesimi a 35 centesimi di Euro in pochi minuti.
La domanda da porsi è: quanto vale Alitalia? Difficile rispondere, ma sicuramente molto poco. La disponibilità finanziaria netta a breve è al livello minimo di 135 milioni di Euro a fine gennaio scorso, quando l’azienda perde circa 2 milioni di Euro al giorno nel periodo invernale. La compagnia subisce inoltre la concorrenza di compagnie molto più efficienti nel mercato nazionale ed intra-europeo e a partire da fine Marzo 2008 anche il mercato tra Stati Uniti ed Europa sarà aperto completamente.
La situazione è cosi delicata che la compagnia difficilmente potrà arrivare all’insediamento del nuovo Governo senza una ricapitalizzazione. AirFrance propone un aumento di capitale per circa 1 miliardo di Euro, che permetterebbe al vettore di avere le risorse per uscire dallo stato di emergenza.
Il Piano Prato, amministratore delegato di Alitalia, successivamente ripreso da AirFrance, è stato finora uno dei pochi piani industriali della compagnia che quasi sicuramente sarà rispettato; questo è dettato dallo stato pre-fallimentare in cui la compagnia si trova, ma in tutti i casi precedenti è sempre intervenuto lo Stato con dei salvataggi molto costosi a carico dei contribuenti.
I tagli del piano prevedono circa 2100 esuberi, e la dismissione degli aerei della flotta con più anni alle spalle. Questo ultimo fatto è alla base delle proteste dei dipendenti dell’Atitech della scorsa settimana, azienda facente parte di Alitalia Servizi, che gestisce la manutenzione degli MD-80. Nella sigla di questi aeromobili si capisce l’anno in cui sono stati prodotti; infatti questo modello è stato prodotto a partire dal 1980. L’utilizzo di questi aerei, molto inefficienti rispetto a quelli più moderni che utilizzano le principali compagnie europee, rendono la compagnia di bandiera italiana inefficiente.
Lo Stato vuole salvare ancora una volta a carico dei contribuenti le inefficienze di Alitalia?
La volatilità del titolo, vista la situazione precaria del vettore di bandiera, è certamente comprensibile, mentre le dichiarazioni politiche sono molto più preoccupanti. Le elezioni sono sempre più vicine, ma la confusione non semplifica la situazione di Alitalia. Le dichiarazioni di Berlusconi, circa la sua opposizione a questa offerta AirFrance e della possibile entrata in gioco di Intesa San Paolo modificano solamente in parte le carte in mano ai giocatori. Questa discesa in campo del Cavaliere, su un argomento così delicato, può essere molto rischiosa. Nel caso probabile in cui vincerà le elezioni, dovrà poi gestire la situazione molto critica dell’azienda di trasporto aereo e trovare delle soluzioni reali. La Lega difende Malpensa con un grande senso di protezione, fino a raggiungere il protezionismo. Veltroni è in forte difficoltà su questo argomento, perché la lunga vendita Alitalia è stata fatta dal Governo Prodi, da cui Veltroni stesso ha fatto di tutto per staccarsi da questa immagine.
Alitalia ha ormai solamente tre opzioni di uscita a questa crisi: la vendita ad AirFrance ad un prezzo molto basso, l’arrivo di un “cavaliere bianco” o il fallimento della compagnia di bandiera.
Secondo l’Istituto Bruno Leoni, le tre opzioni sono tutte possibili, ma la più probabile sembra essere la vendita ai francesi. Si nota inoltre che tutte le parti in causa, Airfrance, sindacati, Governo e SEA non hanno interesse al fallimento della compagnia. Questa soluzione sarebbe un tipico esempio di lost-lost nella teoria dei giochi, ma non per questo è impossibile.
Questi quattro attori individuati tirano il “lenzuolo” dalla propria parte, pur sapendo che si tira troppo il fallimento è assicurato.
AirFrance ha posto delle condizioni di efficacia del contratto di acquisto molto dure per Alitalia, pur sapendo che se la compagnia dovesse fallire, la liquidazione o il commissariamento del vettore sarebbe una sconfitta, perché altre compagnie aeree potrebbero acquistare i pezzi di Alitalia.
I sindacati sanno benissimo che il piano Prato comporta dei sacrifici, ma sono a conoscenza che un eventuale fallimento sarebbe ancora più costoso per i lavoratori della compagnia più inefficiente d’Europa.
Il Governo perderebbe la faccia con il fallimento di Alitalia, perché significherebbe un fallimento della procedura di privatizzazione, durata 15 mesi: uno sproposito per un vettore che perde 2 milioni di Euro al giorno.
La SEA e il sindaco di Milano Moratti, non vogliono ritirare la causa contro Alitalia, continuando a chiedere il pagamento di 1,2 miliardi di Euro. Se compagnia aerea fallisse, le perdite per Malpensa sarebbero ben maggiori rispetto al piano di ridimensionamento dello scalo.
In questa situazione, tutti quanti tirano il lenzuolo dalla propria parte e c’è il forte rischio che si arrivi alla realizzazione dell’opzione fallimento.
L’ultima opzione individuata è l’arrivo di un “cavaliere bianco”. La privatizzazione è stata abbastanza lunga per proporre delle offerte alternative ad AirFrance, ma di cordate alternative serie e con i contanti se ne sono viste ben poche.
La proposta di AirOne ad oggi si è rivelata molto debole essendo il vettore italiano un piccolo operatore regionale con una quota di mercato inferiore all’uno per cento dei passeggeri europei e con un fatturato annuali pari alle perdite di Alitalia. L’appoggio di Banca Intesa continua ad essere smentito ufficialmente dall’amministratore delegato della banca e il tempo per un’offerta alternativa è molto stretto.
I nostri politici, che insieme ai sindacati hanno portato Alitalia a perdere 3 miliardi di Euro in 9 anni, forse non hanno ben chiaro che con 135 milioni di disponibilità finanziaria netta al 31 Gennaio, la compagnia difficilmente arriverà all’estate.
martedì 25 marzo 2008
Università (Dizionario dell'Italia)
lunedì 24 marzo 2008
L’alta velocità a Carate Brianza
In Italia manca una cultura di mercato (non è una grande scoperta). Alla base di un investimento di un’opera pubblica ci dovrebbe sempre essere un’analisi costi benefici. Nel nostro paese, non credo ne sia mai stata fatta una seriamente, altrimenti i costi della nostra rete ferroviaria ad alta velocità sarebbero più vicini a quelli spagnoli o francesi anziché essere tre volte superiori.
Se costruisci una stazione dell' alta velocità a Carate Brianza, sicuramente le case del paese aumentano di valore; tuttavia la scelta fatta dall'ipotetico gestore FS dovrebbe avere un minimo di analisi costi-benefici. Sarebbe la solita bellissima opera infrastrutturale, tipicamente italiana!
Le statistiche dimostrano che l'aeroporto di Malpensa è un grande aeroporto al pari di Palma de Mallorca, avendo trasportato negli ultimi anni circa lo stesso numero di passeggeri.
Non capisco inoltre se al Nord faccia più male la presa di realtà o la delusione di un liberismo mancato dei propri amministratori politici.
La gestione Alitalia e SEA purtroppo è un esempio molto triste di come la cultura di mercato sia deficitaria in tutto il paese.
Alitalia non è mai stata in grado di reggere un doppio hub e Malpensa per troppi anni si è affidata ad Alitalia, pur sapendo che la compagnia non era efficiente e si appoggiava a continui aiuti di Stato (3 miliardi di Euro di perdite in 9 anni).
Malpensa e il suo management, scelto dal Comune di Milano (azionista dell’84 per cento della società aeroportuale milanese), non ha saputo comprendere pienamente l'evoluzione del mercato aereo, sempre più orientato al point to point, crogiolandosi nella posizione di monopolio legale con dividendi da spartirsi tra Comune e Provincia.
Non è forse un caso, che l'unico settore in cui SEA ha delle perdite per decine di milioni di Euro è SEA Handling, che è anche l'unico “pezzo” aperto alla concorrenza.
La chiave del discorso rimane il fatto che Alitalia non può essere la stampella di Malpensa, ma l’aeroporto deve cercare sul mercato nuove compagnie.
Il caso Ryanair è lampante: i 6 milioni di passeggeri offerti dal vettore low cost, prevedeva un aumento di efficienza dell'aeroporto lombardo, poichè si chiedevano costi ed un tempo di rotazione inferiori per ogni volo.
La Sea non è stata in grado di raggiungere l'accordo ed oggi con Alitalia si aprirà un "buco" grosso modo di circa 6 milioni di passeggeri.
Il problema è stata la gestione politica di Alitalia e della SEA. Sarebbe stato meglio avere due aziende private, anziché due "carrozzoni pubblici" e sicuramente non saremmo qui a discutere di due aziende “Statali” in campagna elettorale, ma di riforme strutturali per rilanciare l'Italia.
Quello che mi stupisce, che in presenza di una decisione molto importante come quella del BIE per l’EXPO 2015 (31 Marzo 2008), in Italia si continua a litigare per Alitalia invece di fare azione di pressione comune per la candidatura milanese.
D’altronde circa 29 milioni di visitatori stimati per l’evento sono molto meno importanti di avere una compagnia aerea tutta italiana magari anche Statale…n’est ce pas?
domenica 23 marzo 2008
Sul piano Air France facciamo votare i dipendenti Alitalia
Nel caso Alitalia, dovendo scegliere se vendere al più presto ad Air France o attendere la (fantomatica) cordata nazionale, su chi ricadrebbero gli effetti negativi di nuovi errori dei decisori? Non sui consumatori, che potrebbero persino trarre beneficio dal fallimento di Alitalia (per i maggiori spazi che si aprirebbero per i vettori low cost) e neppure sul bilancio statale in quanto le regole europee vietano di mettere nell'azienda anche un solo euro in più. Il partito del Nord e di Malpensa non subirebbe alcuna conseguenza negativa, nessun onere, e neppure i sindacalisti del trasporto aereo, i quali un lavoro continuerebbero ad averlo. A perdere sarebbero solo i dipendenti di Alitalia.
E allora, visto che per il vettore di bandiera e per il governo uscente il piano di rilancio di Air France e la connessa proposta di acquisto vanno bene, perchè non far votare con un referendum interno i dipendenti? Poiché ne va del loro futuro sono i migliori candidati a scegliere, coloro che hanno la maggiore convenienza a evitare errori. Sono certo che approverebbero Air France a stragrande maggioranza, è nel loro interesse.
Bisogna invece evitare che a decidere siano i sindacati in quanto nelle imprese pubbliche non difendono gli interessi dei lavoratori ma il loro potere, illegittimo e inopportuno, di condizionamento e di veto sulla gestione aziendale, il fatto di essere 'azionisti di riferimento' senza aver messo alcun quattrino e senza subire alcuna conseguenza per gli errori che fanno compiere.
venerdì 21 marzo 2008
Impresa pubblica (Dizionario dell'Italia)
Lega (terroni del) Nord
il 'terrone' è quello che: fa il nido su qualsiasi ramo secco del pubblico impiego; se deve fare preferisce rimandare; quando è disoccupato piange, ma se lo fai lavorare si dispera.Ricorda niente?
giovedì 20 marzo 2008
Le argomentazioni fuori mercato di Moratti e Formigoni
1) Il progetto di Malpensa come hub non ha retto alla prova del mercato: l'imposizione extraaziendale (leggasi imposizione politica) ad Alitalia alla fine degli anni '90 di trasferire al Nord i suoi collegamenti intercontinentali ha zavorrato la gestione con perdite consistenti che, sommate ad altre inefficienze, stanno azzerando il valore dell'azienda.
2) Le statistiche sulla composizione della domanda del trasporto passeggeri smentiscono la tesi della validità di Malpensa come hub dell'Alitalia.
Sarà pur vero che la clientela business (sia italiana outgoing che straniera incoming) è interessata a volare sulla metropoli milanese, tuttavia ogni 100 passeggeri totali che volano su rotte internazionali da/per l'Italia oltre 80 viaggiano su rotte europee (a breve/medio raggio) e sono pertanto prioritariamente interessati a collegamenti point to point, non hub&spoke. Inoltre, qualora interessati al sistema aeroportuale milanese, preferiscono nettamente Linate a Malpensa.
Dei rimanenti 20 passeggeri che viaggiano su rotte intercontinentali, per i quali rimane valido l'hub&spoke e l'ipotesi Malpensa, sono solo 5, tra italiani e stranieri, coloro che viaggiano per affari. Due di essi, inoltre, sono stranieri in entrata in Italia ed è molto dubbio che prendano in considerazione di viaggiare con Alitalia.
I rimanenti 15 passeggeri, che viaggiano per vacanza o per altri motivi personali, sono dati da 9 stranieri in entrata e 6 italiani in uscita. I 9 turisti extrauropei in entrata, tuttavia, desiderano visitare il Vaticano e il Colosseo molto più che la Madonnina. I 6 italiani che vanno per vacanza in altri continenti, invece, potrebbero anche essere tutti del Nord ma almeno 3 viaggiano con vettori charter o vettori non italiani (e quindi non Alitalia).
In definitiva il bacino d'utenza potenzialmente interessato a Malpensa come hub di Alitalia è una percentuale ridottissima del traffico internazionale totale: non più di 3 manager italiani e 6 vacanzieri italiani in uscita verso altri continenti su 100 passeggeri internazionali totali, corrispondenti a circa 6 milioni di viaggiatori. Ma di questi viaggiatori potenziali la quota di mercato effettiva di Alitalia è inferiore al 50%.
3) In maniera più sintetica si può ricordare che il traffico intercontinentale di Alitalia da/per Malpensa pesa sul traffico complessivo passeggeri di Malpensa solo per poco più del 10%.
Si può trarre qualche insegnamento da questa disputa piuttosto priva di senso economico? L'AD di Air France ha ripetuto in diverse occasioni, credo piuttosto stupito, che "di solito sono gli aeroporti al servizio dei vettori aerei, non viceversa". Questo, infatti, è il modello 'di mercato' valido in tutto il mondo: gli aeroporti sono al servizio dei vettori i quali, a loro volta, sono al servizio del consumatore che appare essere 'sovrano'. In Italia vige invece un modello eccentrico: è il vettore di bandiera da ormai dieci anni al servizio dell'aeroporto di Malpensa e sono i contribuenti, molti dei quali non hanno mai messo piede su un aereo, al servizio del vettore di bandiera. Un modello davvero stupefacente, ma ciò che stupisce di più è l'incapacità del centro destra di comprenderne l'assurdità e di persistere nella sua difesa: l'obiettivo della libertà economica cede il passo di fronte al desiderio di 'sovranità' (aeroportuale) della Padania! Tuttavia se si persiste con questo modello si arriverà non all'obiettivo di moratoria della sospensione dei voli Alitalia su Malpensa bensì alla moratoria dei voli Alitalia. Per fallimento del vettore.
"Liberalizzazioni? Patto bipartisan dopo il voto"
mercoledì 19 marzo 2008
Tremonti-Brambilla: red passion
Accantonati i dissapori dei mesi scorsi, a tre settimane dal voto la rossa pasionaria berlusconiana si schiera senza riserve col ministro dell'economia in pectore. Niente autarchia, per carità, ma dazi a profusione sì.
Un protezionismo all'americana, c'istruisce la regina dei Circoli, perché anche nel paradiso dei liberisti si mettono dei "paletti a una politica di dumping, che rischia di distruggere l'intrinseco valore di ogni mercato". D'altronde, lo stesso Tremonti aveva auspicato nei giorni scorsi che la sua medesima patente di protezionista venisse assegnata anche ad Obama e McCain*.
Sia come sia, se è vero che per un lungo momento Tremonti e la Brambilla erano parsi i più autorevoli candidati alla successione del Cavaliere, e soprattutto che quest'ultima era sembrata - nella sua superficiale gaiezza - l'unico antidoto ai deliri del Nostradamus della Valtellina, la consumazione di quest'unione incestuosa promette di recare conseguenze funeste qunto persistenti per l'elaborazione del centrodestra italiano nei prossimi anni.
Laddove Tremonti aveva concesso, con le sue sortite, uno spazio enorme di dissenso, la Brambilla ha preferito affiancare un proprio protezionismo casereccio all'antiliberalismo intellettualistico ed inarrivabile dell'altro. Con il risultato di sigillare il posizionamento della compagine berlusconiana sull'unico tema ideale emerso nello scontro elettorale. Posizionamento che i pochi liberali superstiti del PdL hanno dato prova di non voler o saper contestare.
Ora, la buona notizia è che le aspirazioni tremonto-brambillesche faranno certo fatica a superare il vaglio di Bruxelles, e la loro traduzione concreta sarà dunque verosimilmente disinnescata in massima parte. Ma quanto a lungo questa zavorra ideologica condizionerà la cultura politica italiana è una domanda la cui risposta fa davvero paura.
* Ben strano, va detto, è il ragionamento alla base di questo argomento: gli Usa sono liberisti, gli Usa applicano misure protezioniste, ergo le misure protezioniste sono compatibili col liberismo; come a dire: Eliot Spitzer è un uomo dalla moralità specchiata, Eliot Spitzer va a puttane, ergo andare a puttane è attività di alto valore etico. Forse - in entrambi i casi - la premessa maggiore andrebbe vagliata con cura più intensa.
martedì 18 marzo 2008
La globalizzazione del tremontismo
lunedì 17 marzo 2008
Una fine (in)gloriosa
Dai numeri che girano, Air France valuterebbe le azioni Alitalia 138,5 milioni di euro.
Nel frattempo, il valore delle azioni Air France si è dimezzato, e di conseguenza anche il valore della partecipazione in mano ad Alitalia (che, se non sbaglio, non è stata alienata).
Alla fine, al netto del riacquisto implicito di azioni proprie, Air France pagherà Alitalia circa 60-70 milioni di euro, si accollerà, è vero, i debiti del gruppo italiano, ma verosimilmente trasferendone gli oneri di bilancio su società italiane del gruppo francese ovvero in Francia (così da beneficiare dello scudo fiscale del debito e pagare meno tasse), ed utilizzando le abbondanti perdite pregresse (magari trasferendo utili in Alitalia) per non pagare un centesimo di Ires in Italia per i prossimi cinque anni. Nel frattempo, il governo italiano si accollerà gli oneri sociali conseguenti agli inevitabili e numerosi "esuberi" (altrimenti detti licenziamenti).
Alla fine di tutto questo, Air France si comprerà un buon marchio, qualche buon aereo, alcune rotte internazionali interessanti, una rotta di quasi-monopolio quale la Milano-Roma; e gli italiani, al netto di tutto, la pagheranno pure.
Per chi ha gestito Alitalia in questi anni è un risultato glorioso, non c'è che dire.
domenica 16 marzo 2008
Vi sono rimedi alla razionale inefficienza della P.A. italiana?
Mentre le imprese private operanti sui mercati hanno necessità di comportarsi in maniera efficiente, di minimizzare i costi di produzione per poter remunerare attraverso il profitto i loro azionisti, le organizzazioni pubbliche sono obbligate dai politici che le controllano a sovradimensionare i fattori produttivi impiegati per permettere un uso discrezionale di quelli acquisiti in eccesso rispetto alle esigenze degli effettivi livelli produttivi (l'esempio più ovvio è l'assunzione di nullafacenti con tessera di partito). Pertanto, mentre nelle imprese è l'efficienza costo la fonte della remunerazione di chi le controlla, nelle organizzazioni pubbliche è l'inefficienza.
Se le organizzazioni pubbliche fossero efficienti, esse avvantaggerebbero i loro proprietari (i cittadini contribuenti) attraverso una minore pressione fiscale. I cittadini, tuttavia, non controllano le organizzazioni mentre coloro che lo fanno, i politici, non dispongono di diritti proprietari in grado di permettere una distribuzione ex post di dividendi; pertanto se desiderano 'remunerarsi' debbono farlo sottraendo o distogliendo risorse durante la gestione.
La causa appena indicata dell'inefficienza del settore pubblico implica un rimedio preciso: separare nettamente il ruolo della politica (che è quello di gestire il trade off tra i possibili obiettivi delle politiche pubbliche, di scegliere tra un menu di soluzioni realizzabili) e quello dell'amministrazione (che è di usare efficacemente le risorse a disposizione per realizzare le soluzioni che la politica ha scelto). Si può spiegare meglio con una metafora: il ruolo della politica è esattamente quello di un capocomitiva ad una gita, indicare la meta desiderata dai gitanti; il ruolo del capo dell'amministrazione è esattamente quello dell'autista dell'autobus. Se il capocomitiva si mette alla guida del pullman o pretende di scegliere un autista senza patente solo perchè gli è fedele, simpatico o pensa che gli permetterà tutte le soste e le deviazioni desiderate, gli esiti prevedibili sono disastrosi.
La separazione netta tra politica e amministrazione, congiunta ad una impermeabilizzazione dell'amministrazione alle pressioni illegittime della politica, è realizzabile attraverso tre provvedimenti:
1) Deministerializzare la spesa pubblica, togliendo il portafoglio a tutti i Ministeri. I Ministeri dovrebbero essere costituiti solo da: il gabinetto del Ministro, l'ufficio legislativo e un ufficio studi. I Ministeri avrebbero il compito esclusivo di proporre/definire le regole e proporre al Governo/Parlamento il budget per ogni specifica politica.
2) Il budget verrebbe invece affidato ad apposite agenzie di spesa, guidate da dirigenti di carriera, e caratterizzate da unicità di obiettivi (ad esempio, nel caso dell'Università, ad un'Agenzia per l'istruzione universitaria col compito di assegnare borse agli studenti per permetterne l'iscrizione ad Atenei estromessi dal recinto delle amministrazioni pubbliche, pur se organizzati sotto forme ancora pubblicistiche).
3) E' necessario attivare un'adeguata 'scuola guida' per gli autisti delle amministrazioni pubbliche.
Questa proposta riscuoterà ovviamente unanimità di dissensi tra le nostre forze politiche, tuttavia dovrebbe essere chiaro ai partiti che un settore pubblico efficiente è una condizione irrinunciabile per consentire al paese risultati adeguati nella competizione internazionale. Per rendere efficiente il settore pubblico è tuttavia necessario che siano dei 'tecnici' a guidare l'autobus, ovviamente verso le destinazioni che i politici avranno scelto in rappresentanza dei cittadini.
Se i partiti desiderano effettivamente far fare all'Italia qualche passo in avanti dovrebbero accettare di fare qualche passo indietro.
venerdì 14 marzo 2008
Trash tanks
A che servono i think tank in campagna elettorale? Per Wikipedia, un think tank è "è un organismo, un istituto, una società o un gruppo, tendenzialmente indipendente dalle forze politiche (anche se non mancano anche think tanks governative), che si occupa di analisi delle politiche pubbliche e quindi nei settori che vanno dalla politica sociale alla strategia politica, dalla economia alla scienza e la tecnologia, dalle politiche industriali o commerciali alle Consulenze militari". Chiosa: "Tali organismi assicurano dati, informazioni, consigli e previsioni ai policy makers (coloro che realizzano le politiche pubbliche)". Pare lecito supporre che i think tank dovrebbero pertanto fornire idee, visioni, proposte ai partiti in gara per il governo del Paese.
Ma invece, che cosa succede in Italia? I think tank sono serbatoi sì, ma di idee ne escono pochine. In compenso escono candidati: dall'Arel di Enrico Letta Marianna Madia e Alessia Mosca, per il Pd, da Magna Carta una simpatica foto di gruppo di "donne e uomini di Magna Carta", tutti rigorosamente candidati per il Pdl, e lasciamo perdere gli istituti fondati espressamente per ragioni di promozione personalistica (Liberal, Italianieuropei, Free, et cetera). La novità del giorno è che i think tank sono pure un serbatoio di comparse televisive: la PerlaPavoncello che Berlusconi si immagina come nuora, è precaria sì (ma si è precari a ventiquattro anni con un contrattoa dieci mesi? E' lecito aspettarsi il posto fisso quando non si è neanche laureati?), ma alla Fondazione Rosselli.
Insomma, fondazioni, istituti di ricerca, centri di pensiero sono in grande spolvero in questa campagna elettorale. Partecipano attivamente. E i "dati, informazioni, consigli e previsioni" chedovrebbero fornire ai "policy makers"? Missing in action.
giovedì 13 marzo 2008
Stipendi legati ai risultati: una soluzione universale?
Nessuno, però, che si ponga la domanda fondamentale: questi meccanismi hanno senso? E, soprattutto, funzionano?
A sentire il professor Michael Beer, della Harvard Business School, non sempre.
Funzionano discretamente come incentivo per i manager, anche se a volte possono causare incentivi distorti (come nel caso delle stock option, che possono creare conflitti tra interessi di breve e lungo periodo, oppure conflitti legati alla maggior propensione al rischio di un titolare di una opzione, oppure ancora nella politica di distribuzione degli utili come dividendi ovvero riacquisti di azioni).
Ma è molto difficile costruire meccanismi di remunerazione legati ai risultati per tutti i lavoratori di una azienda.
Il primo problema riguarda la definizione degli obiettivi e la misurazione e verifica dei risultati. Chi fissa gli obiettivi, e come? Se vengono negoziati, c'è un evidente problema di asimmetrie informative tra le parti coinvolte; se vengono imposti dall'alto, possono essere mal calibrati; se adottati dal basso, possono essere poco impegnativi.
Il secondo problema riguarda la gestione delle risorse umane: se il risultato del mio lavoro dipende non solo da ciò che faccio io, ma anche da ciò che fanno i miei collaboratori, inevitabilmente sorgeranno contrasti nell'organizzazione dei gruppi di lavoro. La tendenza prevedibile è che si formeranno gruppi di "elite" composti dai dipendenti migliori e più esperti, ed altri composti dai peggiori e meno esperti: questo snatura l'essenza stessa del tanto celebrato "team work". Si avrebbe, da un lato, il problema di avere gruppi di lavoro con evidenti disparità di capacità ed esperienza, con ovvi problemi nella definizione dei turni di lavoro, e dall'altro un rallentamento di quei fenomeni di spillover della conoscenza che rivestono un ruolo fondamentale nella formazione e nella crescita del personale di una azienda.
Il terzo ordine di problemi riguarda il rischio di conflitti tra chi lavora e chi misura la performance, quando ritardi e in generale problemi nella produzione di origine esterna all'azienda tali da generare risultati negativi (o viceversa benefici derivanti unicamente dall'esterno tali da generare risultati positivi) danneggiano ed influenzano il lavoro dei dipendenti dell'azienda. Come misurare questi effetti, e come calcolarne l'incidenza sull'effettivo risultato conseguito?
Un quarto ordine di problemi riguarda il tempo che continuamente il management deve dedicare all'aggiustamento degli obiettivi e delle misurazioni, per adattarli ai continui mutamenti del mondo reale in cui un'azienda opera.
Un ultimo problema riguarda il fatto che, per alcuni lavori, potrebbe essere preferibile un compenso certo, con la tranquillità che ne deriva, piuttosto che uno stipendio variabile, con l'insicurezza che questo comporta: molti lavoratori potrebbero accettare uno stipendio variabile solo se compensati con un adeguato premio per il rischio.
Tutti questi problemi rappresentano ovviamente dei costi per un'azienda, che devono essere confrontati con gli eventuali benefici, per valutare correttamente la validità della soluzione. L'imposizione dall'esterno di meccanismi di correlazione tra salari e risultati esula completamente da questo tipo di logica.
Ciò di cui le aziende italiane (ed i lavoratori italiani) avrebbero davvero bisogno è di una maggiore libertà contrattuale, di un abbandono del mito della concertazione e del contratto unico nazionale a favore di una maggior flessibilità e libertà di scelta.
Non è escluso che, lasciando i manager ed i rappresentanti aziendali dei lavoratori liberi di discutere, non si raggiunga il risultato di ottenere stipendi correlati ai risultati dell'azienda. Ma sarebbe una libera scelta di imprese e lavoratori, sulla base di aspettative ed obiettivi condivisi, non un'imposizione arbitraria ed autoritaria dello stato accentratore, e, con buona probabilità, sarebbe attuata nella convinzione che, in quella specifica azienda, i benefici che ne deriverebbero sarebbero maggiori dei costi.
E, soprattutto, sarebbe bene non confondere questi schemi di performance pay, ovvero di stipendi dei singoli lavoratori legati ai risultati conseguiti da ciascuno di essi, con gli aumenti contrattuali generalizzati di una singola azienda legati ad aumenti della produttività complessiva dei lavoratori dell'azienda stessa.
mercoledì 12 marzo 2008
Perché l’Italia non funziona. Ovvero i sette mali del paese e la loro unica causa.
Il nostro problema, che si trasforma in dramma del paese intero, è l’impossibilità non solo della solidarietà tra estranei (utilizzo il titolo di un noto libro di J. Habermas), che presuppone unilateralità e un minimo di altruismo, ma soprattutto della cooperazione tra estranei, che è invece bilaterale/multilaterale e reciprocamente vantaggiosa. Noi italiani cooperiamo solo con chi conosciamo, con chi è omogeneo e coerente con le nostre caratteristiche e idee. In questo caso garantiamo di solito lealtà e, se più potente di noi, persino fedeltà acritica; chi non conosciamo e non è omogeneo rispetto a noi, invece, non è un possibile partner cooperativo ma solo qualcuno che può darci delle fregature o che è normale bidonare.
L’incapacità a cooperare tra estranei è la causa di sette fenomeni negativi, classificabili come mali dell’Italia:
1. la limitatezza della scala cooperativa: se cooperiamo solo con chi conosciamo e di cui ci fidiamo la scala della cooperazione non può che essere molto ridotta (da qui il successo dell’istituzione famiglia, la diffusione della piccola impresa, il proliferare storico dei micro partiti e, sull’altro versante, l’insufficiente presenza e insufficiente performance di tutto ciò che normalmente dovrebbe esser grande, dall’impresa privata operante in settori ad elevate economie (di scala o d’altro tipo) alle organizzazioni pubbliche;
2. la svalutazione delle regole e del loro ruolo: è la cooperazione tra estranei ad aver bisogno di regole mentre la cooperazione tra affini può essere gestita attraverso accordi volta per volta;
3. la diffusione capillare della raccomandazione: essa è infatti l’indispensabile strumento passepartout attraverso il quale un soggetto può passare dalla condizione di estraneo alla condizione di beneficiario di uno schema di cooperazione;
4. il quarto fenomeno è il riflesso del terzo e consiste nella svalutazione del criterio del merito: un estraneo bravo non potrà mai essere preferito ad un mediocre ma fedele appartenente al gruppo;
5. l’immobilismo sociale: per effetto della svalutazione del criterio del merito l’ascesa sociale attraverso l’impegno individuale è problematica o impossibile e allo stesso modo la discesa sociale in caso di demerito;
6. la gerontocrazia: i giovani talenti individuali, per loro natura non organizzati, sono stoppati dagli anziani, non perché anziani ma perchè già membri di schemi di cooperazione chiusi e coesi (questo vale particolarmente nel settore pubblico e nei settori produttivi non esposti alla concorrenza).
7. una grave sottoperformance/inefficienza delle organizzazioni che si traduce in sottoperformance del sistema paese: qualsiasi produzione pubblica in Italia ha costi unitari superiori di almeno il 50% rispetto al banchmark internazionale; il nostro paese, inoltre, ha il debito pubblico più elevato d’Europa, in assoluto e in rapporto al Pil, la crescita economica più ridotta, una strisciante infelicità dei cittadini e una crescente difficoltà per moltissime famiglie ad arrivare a fine mese con le spese.
Si diceva una volta dei cittadini d’oltre Manica: un inglese, un gentleman; due inglesi, un club; tre inglesi, una colonia. Dovremmo invece dire di noi stessi: un italiano, un genio; due italiani, un conflitto; tre italiani, un fallimento. Figuriamoci se gli italiani in gioco sono una decina (i partiti della disciolta maggioranza), una trentina (i ministri del governo uscente), un centinaio (i suoi membri complessivi) o un migliaio (i nostri parlamentari), estranei tra di loro, per formazione, ideologia, interessi e del tutto incapaci a cooperare. Il caos era destinato a crescere in maniera esponenziale, esattamente ciò che è avvenuto e che i media hanno potuto riprodurre a beneficio dell’opinione pubblica mondiale.
Gli italiani non ci sono ancora, ma in questo modo prima o poi l’Italia (così come ora l’Alitalia) rischierà di non esserci più. Bisognerebbe dunque ripartire dalla mission incompiuta del conte Cavour e nel (ri)provare a fare gli italiani, mission (forse) impossibile ma inevitabile se non si vuole che il paese prosegua nella sua deriva.
lunedì 10 marzo 2008
Un manuale per le riforme
È con questo spirito che l’Istituto Bruno Leoni ha presentato all’opinione pubblica, nei giorni scorsi, il proprio Manuale delle riforme per la XVI legislatura, un volume destinato a costituire - nelle nostre intenzioni - una sorta di programma chiavi in mano disponibile a chiunque voglia farlo proprio.
Un elenco, cioè, di soluzioni abbastanza efficaci da risultare politicamente appetibili, ma anche sufficientemente incisive da permettere - se attuate - quel cambio di rotta di cui il paese ha un così palese bisogno.
Il Manuale affronta i più rilevanti temi di politica economica con cui il prossimo governo si dovrà confrontare: dal destino del patrimonio pubblico alle improrogabili riforme fiscali, dall'esecuzione di un disegno organico di liberalizzazioni ai problemi più urgenti del lavoro, dagli enigmi legati alla crescita del Mezzogiorno agli accorgimenti indispensabili per agevolare l'innovazione e l'imprenditoria.
Si tratta, insomma, di un tentativo di enucleare tutte quelle misure volte, come abbiamo voluto ricordare sin dal titolo, a liberare l'Italia dalle innumerevoli zavorre che ne frenano lo sviluppo. Abbiamo pensato di riassumere le proposte più ficcanti in un elenco di dodici punti:
- Abolire la legge Finanziaria
- Semplificare il fisco
- Una no tax region al Sud
- Legge Biagi nella PA
- Un testo unico sul lavoro
- Abolizione dell’Inail
- No al valore legale del titolo di studio
- Finanziamento dell’educazione
- Concorrenza nella sanità
- Privatizzazioni
- Liberalizzare i servizi pubblici locali
- Certezza dell’autorizzazione
Alla stesura del Manuale hanno collaborato esperti del livello di Ugo Arrigo e Giuliano Cazzola, Giuseppe De Filippi e Giampaolo Galli, Giuseppe Pennisi e Michele Tiraboschi.
Le prime reazioni sono certamente incoraggianti. Non osiamo pensare che il nostro programma verrà immediatamente tradotto in azione politica, e forse questa non è neppure la sua funzione essenziale: viceversa, se esso continuera a fungere - prima e dopo il voto - da pungolo per una discussione informata, avrà svolto un ruolo davvero necessario.
Il testo integrale di “Liberare l’Italia. Manuale delle riforme per la XVI legislatura” è liberamente scaricabile dal sito dell'Istituto Bruno Leoni.
giovedì 6 marzo 2008
Chi vuole i dazi?
1. Dazi e concorrenza illegale
Viene spesso citata, come giustificazione per l'introduzione di dazi sulle importazioni, il fatto che i Paesi emergenti praticano forme di concorrenza "illegali". Prima ancora di discutere sul fatto che fenomeni come il dumping siano davvero forme di concorrenza sleale o meno, c'è da sottolineare il fatto che, se veramente si è a conoscenza di pratiche illegali, o di infrazioni ai codici di commercio internazionali, esistono apposite istituzioni cui denunciare tali pratiche: l'adozione unilaterale di dazi non è certo la risposta corretta.
2. I dazi e la teoria economica
La politica dei dazi riflette una visione dell'economia e del commercio internazionale più vicina al mercantilismo tipica dei secoli passati che non alla moderna teoria economica. In maniera sommaria, secondo la teoria mercantilista il benessere di una nazione dipende dalla costante presenza di un surplus commerciale, e attribuisce quindi al governo il compito di agevolare le esportazioni e frenare le importazioni. In quest'ottica, l'uso dei dazi sarebbe giustificato. Due sono però gli errori che i mercantilisti non seppero cogliere: il primo, che ciò che guida il commercio internazionale non sono i vantaggi assoluti nella produzione, bensì i vantaggi comparati; il secondo, che un continuo e costante surplus commerciale è impossibile, in quanto un surplus inevitabilmente genera un apprezzamento della valuta che, nel lungo periodo, invertirebbe i flussi commerciali, frenando le esportazioni ed incentivando le importazioni.
Secondo la moderna teoria economica, invece, il commercio internazionale consente la specializzazione delle economie sulla base dei vantaggi comparati, in modo da aumentare l'efficienza del sistema economico nel suo complesso: ogni Paese produce ciò che, rispetto agli altri, è in grado di produrre in maniera più efficiente, scambiando poi quei beni con quelli prodotti dagli altri Paesi. In quest'ottica, il commercio internazionale non è più un gioco a somma zero, come era invece nella visione mercantilista, dove il guadagno di uno è la perdita dell'altro, bensì un gioco in cui entrambe le parti coinvolte guadagnano, grazie ai benefici della specializzazione.
3. Effetti dei dazi sui prezzi.
In tempi in cui si dibatte continuamente dei problemi legati all'inflazione, è doveroso sottolineare quale sia l'effetto dei dazi sui prezzi per i consumatori. Inevitabilmente, l'introduzione dei dazi farebbe aumentare i prezzi: poiché la logica dei dazi è quella di disincentivare le importazioni aumentandone il costo, l'effetto inflattivo sui prezzi è una conseguenza ovvia.
4. Effetto dei dazi sul sistema produttivo
L'introduzione dei dazi ha l'ovvio ed immediato effetto di generare, ceteris paribus, un vantaggio in termini di minori costi per i produttori nazionali. Ma questo significa assicurare alle imprese nazionali il mantenimento di un margine di inefficienza nella produzione, in termini di maggiori costi, senza che questo abbia effetto sulla loro capacità di competere con le imprese straniere. Ciò significa, in altri termini, tutelare e difendere imprese che, in un libero mercato, sarebbero costrette a ristrutturarsi o a chiudere; più a lungo sono mantenuti i dazi, più viene ritardato l'aggiustamento del sistema. In questo modo si ottiene anche il poco nobile risultato di mantenere i lavoratori legati a posti di lavoro destinati comunque a scomparire, creando l'illusione di una inesistente sicurezza, ritardandone la riqualificazione ed il reinserimento nel mondo del lavoro in posizioni con migliori prospettive. In buona sostanza, si chiede ai cittadini di pagare una tassa a favore di imprenditori che non sono in grado di reggere la competizione straniera. È una sorta di remunerazione forzata del marchio made in Italy che altrimenti gli italiani non sarebbero evidentemente disposti a pagare.
5. Effetto dei dazi sulla qualità delle importazioni
I dazi possono avere effetti perversi sulla qualità delle merci importate. Supponiamo (come spesso avviene con alcuni Paesi emergenti) che da un Paese arrivino merci del tutto identiche nell'aspetto e nelle funzioni, ma prodotte a volte con materie prime di qualità, ed altre con materie prime scadenti, se non illegali (pensiamo, ad esempio, ai giocattoli con le vernici al piombo), con ovvi effetti sulla qualità complessiva del prodotto finale. È evidente che questo secondo tipo di merci viene prodotto solo se l'uso di materie prime scadenti o illegali consente un risparmio di costi: in caso contrario, la loro produzione non sarebbe economicamente comprensibile.
Come detto, i dazi hanno l'effetto di aumentare il prezzo delle merci importate, e di conseguenza spingono il produttore estero a cercare di tagliare i costi in modo da poter ridurre il proprio prezzo e mantenere la competitività della propria merce sul mercato internazionale. Questo può produrre il paradossale effetto di incentivare i produttori stranieri ad utilizzare materiali scadenti (se non illegali) in modo da ridurre i propri costi di produzione al fine di contrastare i dazi e difendere le proprie vendite sui mercati esteri. Ovvero, l'introduzione dei dazi stimola il ricorso a quelle formule illegali di concorrenza che si dice di voler combattere.
Da ultimo, anche l'evidenza empirica, come documentato ad esempio in questo articolo sul numero di dicembre 2007 dell'American Economic Review (ma di citazioni se ne potrebbero fare a decine), non sembra troppo tenera con le politiche protezioniste.
Se qualcuno ritiene corretta e valida la proposta di introduzione dei dazi sulle importazione, vorrei sentire quale giustificazione intende addurre a propria difesa. Onestamente, pare difficile trovarne.
mercoledì 5 marzo 2008
Alitalia: la politica può perseverare negli errori, le imprese no
1) In Europa e nel resto del mondo il mercato del trasporto aereo non è mai stato così profittevole in questo decennio come nell'anno appena chiuso. Questo significa che un normale vettore aereo, gestito come impresa, è in grado di produrre utili trasportando clienti sulle rotte che essi desiderano percorrere e che un normale gestore aeroportuale, gestito come impresa, è in grado di produrre utili servendo i vettori aerei che desiderano atterrarvi e decollarvi. Cosa c'entrino in questo mercato compagnie controllate da Stati e aeroporti gestiti da Comuni, condizionate le une e gli altri dalla politica e dalle opinioni dei partiti e dei loro leaders, è ben difficile da comprendere. Non c'entrano, infatti, e perdono (soldi o traffico).
2) Ci voleva un notevole impegno per arrivare a una compagnia di bandiera sull'orlo del fallimento e a un grande aeroporto in crisi in un paese che è lungo e stretto, pieno d'ostacoli naturali (Alpi, Appennini e due grandi regioni insulari), con insufficiente dotazione infrastrutturale e servizi inefficienti nei trasporti terrestri, a naturale vocazione turistica (visto che possiede la maggiore quantità di beni artistici del mondo, la migliore cucina, grandi e piccole città d'arte, una grande dotazione di coste, spiagge, laghi e montagne) e con una popolazione che è la più mobile d'Europa (grazie anche al fatto che ha vissuto grandi migrazioni interne e torna spesso e volentieri 'al paese'). Solo una gestione politica, totalmente disinteressata al mercato, di vettori e aeroporti poteva arrivare a tanto. E infatti c'è riuscita.
3) Nonostante sia ovvio che non esistono alternative al salvare il salvabile cedendo al più presto Alitalia a Air France e ritirando la politica dal mercato del trasporto aereo, dobbiamo continuare a sentir parlare di italianità e campioni nazionali. Alitalia e, in misura minore, Malpensa scontano crisi perchè la loro gestione è stata orientata dalla politica, non dal mercato e l'unica soluzione è lasciar fare al mercato, ritirando la politica.
4) All'Italia non serve un vettore che trasporti la bandiera su velivoli semideserti e con oneri a carico del contribuente; servono invece compagnie che trasportino da, per e dentro l'Italia i passeggeri che desiderano usare il mezzo aereo e che sono disponibili a sostenere i relativi costi. Che poi si tratti di compagnie nazionali che utilizzano piloti e hostess italiane meglio, ma se dovessero esser anche totalmente straniere va bene lo stesso. Assume rilevanza il fatto che servano adeguatamente l'Italia, non che siano italiane.
5) Nel 2007 i vettori low cost hanno portato in Spagna tre volte e mezza i turisti stranieri che hanno portato in Italia; i vettori tradizionali più del doppio. Non dovremmo riflettere su questi dati? Quanto Pil e quanti occupati in più avremmo ora se il mercato del trasporto aereo fosse stato più aperto e il vettore pubblico meno protetto? Sono più importanti per il nostro sistema economico 20 mila dipendenti del gruppo Alitalia o 40 milioni di turisti stranieri in arrivo?
domenica 2 marzo 2008
Alitalia vicina al fallimento
La vendita degli slot di Londra Heathrow e altre maggiori entrate e minori costi non ricorrenti hanno “salvato” il bilancio del 2007, ma non permettono di salvare la compagnia.
La lentezza della gara di privatizzazione dovuta alla procedura farraginosa del Ministero dell’Economia, gli intralci del TAR chiamati in causa da Airone e la battaglia politica intorno a Milano Malpensa precipitano le condizioni del vettore.
La ricapitalizzazione invocata dall’amministratore delegato Maurizio Prato di 750 milioni di Euro è sempre più necessaria e la vendita ad AirFrance deve accelerare.
L’anno scorso si è rivelato uno dei migliori per le compagnie aeree e i profitti sono cresciuti per la maggior parte dei vettori; in particolare le maggiori compagnie aeree europee hanno mostrato dei risultati eccellenti.
Il primo gruppo europeo e mondiale, Air France-KLM nei primi 9 mesi fiscali (31 Dicembre 2007) ha accresciuto il proprio risultato operativo a 1451 milioni di Euro dai 1216 milioni di Euro del 2006 (+18 per cento).
L’EBIT di British Airways è cresciuto del 28 per cento arrivando alla fine del 2007 (9 mesi fiscali) a superare i 730 milioni di Sterline (circa 1 miliardo di Euro).
La spagnola Iberia, che sempre più sta focalizzando il proprio business sull’intercontinentale, ha migliorato il risultato operativo passando da 135 milioni di Euro del 2006 ai 412 milioni di Euro del 2007.
La stessa Ryanair, primo vettore low cost europeo, che ha mostrato segni di debolezza nel terzo trimestre fiscale del 2007 (conclusosi il 31 Dicembre 2007), nei primi nove mesi ha visto crescere l’EBIT a 505 milioni di Euro dai 443 milioni di Euro dell’anno precedente.
Alitalia continua a macinare perdite e ogni giorno di più si avvicina il fallimento. Febbraio sarà un altro mese molto difficile per la compagnia e Marzo sarà forse salvato dalla Pasqua anticipata. Il load factor in questi mesi invernali è molto basso e lo yield è in continua diminuzione.
Entro il 14 Marzo AirFrance ha la possibilità di fare la propria offerta per la compagnia italiana. Lo scoglio AZ Service non è facile da superare, soprattutto in campagna elettorale, in quanto sono a rischio migliaia di posti di lavori nel bacino romano. L’inefficienza di questa società del gruppo Alitalia e di Fintecna è difficile da risolvere senza esuberi.
Dopo il 14 Marzo inoltre, Airone è libera di fare la propria offerta per la compagnia di bandiera italiana, sempre che sia in grado.
E Malpensa?
I difensori del Nord in realtà stanno bloccando lo sviluppo dello scalo varesino. La legge regionale della Regione Lombardia approvata lo scorso mese, blocca il rilascio degli slot e nonostante 18 compagnie, tra le quali grandi operatori mondiali, vogliano entrare o rafforzare la propria presenza sullo scalo, di fatto tutto è bloccato.
La legge regionale impone un parere, seppur non vincolante, che la Lombardia deve dare al fine di poter ri-assegnare gli slot. La perdita di tempo non è utile all’aeroporto e rallenta il rilancio di Malpensa senza Alitalia.
In questo incrociarsi di leggi e ricorsi, l’unico a perderci è il mercato, mentre Alitalia lentamente ogni giorno di più si avvicina al fallimento.
sabato 1 marzo 2008
L'ospite di marzo
L'Italia un Paese normale?
C'è un'altra lettura, oltre a quella che l'Italia stia diventando un "Paese normale": potrebbe essere che quando uno è alla disperazione, come l'Udc/Rosabianca, tenta persino la più disperata delle carte, cioè prendere voti facendo il liberista. Di per sé, la tendenza di queste elezioni pare essere: "todos liberales", tranne la sinistra arcobaleno e Tremonti.
Dopo Casini, e paradossalmente usando Casini come "benchmark" di liberismo, il Sole oggi interpella Lanzillotta e Alemanno. Quello che dice la Lanzillotta non è sorprendente: quello che dice Alemanno sì. Da quando la destra sociale è diventata "privatizzatrice"? O il "lanzilottismo" di Alemanno si può comprendere e leggere soprattutto in funzione anti-leghista (per la Lega, Roma è -ogni tanto- ladrona, ma le municipalizzate mai)?
Credo che Massimiliano abbia fondate speranze su un punto. C'è più "normalità" oggi in Italia di quanto ve ne sia stata negli ultimi anni. Il dramma però è che si tratta di una "normalità" dalla quale il programma della probabile prossima coalizione di governo è meno contagiato di altri.
Nel manifesto del Pdl, ci sono "cosette" buone. Ma sono cosette: e anche gli amici che hanno dato fiato alle trombe, esaltandone il liberismo, si sono fermati sui dettagli per non vedere il quadro nel suo complesso (vedi l'ottimo Della Vedova qui). In realtà, le "cosette" buone (e per fortuna la parte sul lavoro è resuscita, dopo essere stata stralciata nella versione circolata su Libero!) non compensano tre "cosone" preoccupanti: (1) la voglia di "protezione" cui il programma cerca tremontianamente di dare espressione; (2) l'analisi di fondo: stiamo entrando in tempi straordinari che esigono uno straordinario intervento pubblico (banca del Sud, distribuzione di pani e pesci da parte dei comuni, 'piano Fanfani' per una nuova edilizia pubblica); (3) l'assordante silenzio sui grandi nodi della spesa, a cominciare dalla sanità.
Eppure ci sono tanti, nella Cdl, da Sacconi a Della Vedova, da Capezzone a Baldassarri, da Berlusconi che con toni liberisti ha "venduto" alla stampa il programma colbertista, fino persino a un ex statalista a cinque stelle come Alemanno, che non solo pensano, ma parlano pure, in questi giorni di campagna elettorale, usando sfumature molto diverse.
Vincerà la carta del programma, o lo spirito degli uomini di buona volontà? Probabilmente dipenderà semplicemente (e tragicamente) dalle circostanze: chi farà il ministro di che cosa; quanti saranno i punti di distacco fra Pd e Pdl; quanto piglia la Lega; etc.
Uno sguardo al programma del Pd, altrettanto raccogliticcio e goffamente polifonico (una legge sulla concorrenza all'anno! corporate social responsibility nelle imprese! flessibilità "ma anche" sicurezza! più imprenditorialità nella sanità pubblica "ma anche" meno sanità privata! liberalizzazioni nell'energia "ma anche" rottamare il petrolio!), non dà molte speranze in più (nonostante vi sia molta meno paura della globalizzazione, da quelle parti). Siamo in una fase di transizione e delicatissima. Che vi sia nella cultura di mercato qualcosa da imparare, è opinione condivisa da tutti tranne che da un paio di ex ministri dell'economia. Ma il fatto che non si sia ancora appreso come esprimersi e pensare in termini di cultura di mercato, dimostra una volta di più quanto disperato bisogno abbia questo Paese di quella grande opera di "incivilimento" culturale nella quale le persone che animano questo blog si ritrovano spesso troppo sole.