mercoledì 12 marzo 2008

Perché l’Italia non funziona. Ovvero i sette mali del paese e la loro unica causa.

I partner europei, i commentatori internazionali, gli stranieri interessati all’Italia si stanno convincendo il paese non funziona, che è un membro incomprensibile e inaffidabile dell’Unione Europea e della comunità internazionale. Anche noi italiani stiamo ormai pensando che vi sia qualcosa di grave, che non ha equivalenti negli altri stati democratici e non affligge solo lo politica, ma non riusciamo a comprenderne le ragioni. Per trovare una risposta bisogna invece fare un salto all’indietro di un secolo e mezzo e domandarci cosa intendeva il primo ministro Cavour quando disse “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”. Centocinquant’anni dopo, infatti, gli italiani, se li intendiamo come soggetti capaci di partecipare, rispettando regole, a giochi cooperativi reciprocamente vantaggiosi, non ci sono ancora.
Il nostro problema, che si trasforma in dramma del paese intero, è l’impossibilità non solo della solidarietà tra estranei (utilizzo il titolo di un noto libro di J. Habermas), che presuppone unilateralità e un minimo di altruismo, ma soprattutto della cooperazione tra estranei, che è invece bilaterale/multilaterale e reciprocamente vantaggiosa. Noi italiani cooperiamo solo con chi conosciamo, con chi è omogeneo e coerente con le nostre caratteristiche e idee. In questo caso garantiamo di solito lealtà e, se più potente di noi, persino fedeltà acritica; chi non conosciamo e non è omogeneo rispetto a noi, invece, non è un possibile partner cooperativo ma solo qualcuno che può darci delle fregature o che è normale bidonare.
L’incapacità a cooperare tra estranei è la causa di sette fenomeni negativi, classificabili come mali dell’Italia:
1. la limitatezza della scala cooperativa: se cooperiamo solo con chi conosciamo e di cui ci fidiamo la scala della cooperazione non può che essere molto ridotta (da qui il successo dell’istituzione famiglia, la diffusione della piccola impresa, il proliferare storico dei micro partiti e, sull’altro versante, l’insufficiente presenza e insufficiente performance di tutto ciò che normalmente dovrebbe esser grande, dall’impresa privata operante in settori ad elevate economie (di scala o d’altro tipo) alle organizzazioni pubbliche;
2. la svalutazione delle regole e del loro ruolo: è la cooperazione tra estranei ad aver bisogno di regole mentre la cooperazione tra affini può essere gestita attraverso accordi volta per volta;
3. la diffusione capillare della raccomandazione: essa è infatti l’indispensabile strumento passepartout attraverso il quale un soggetto può passare dalla condizione di estraneo alla condizione di beneficiario di uno schema di cooperazione;
4. il quarto fenomeno è il riflesso del terzo e consiste nella svalutazione del criterio del merito: un estraneo bravo non potrà mai essere preferito ad un mediocre ma fedele appartenente al gruppo;
5. l’immobilismo sociale: per effetto della svalutazione del criterio del merito l’ascesa sociale attraverso l’impegno individuale è problematica o impossibile e allo stesso modo la discesa sociale in caso di demerito;
6. la gerontocrazia: i giovani talenti individuali, per loro natura non organizzati, sono stoppati dagli anziani, non perché anziani ma perchè già membri di schemi di cooperazione chiusi e coesi (questo vale particolarmente nel settore pubblico e nei settori produttivi non esposti alla concorrenza).
7. una grave sottoperformance/inefficienza delle organizzazioni che si traduce in sottoperformance del sistema paese: qualsiasi produzione pubblica in Italia ha costi unitari superiori di almeno il 50% rispetto al banchmark internazionale; il nostro paese, inoltre, ha il debito pubblico più elevato d’Europa, in assoluto e in rapporto al Pil, la crescita economica più ridotta, una strisciante infelicità dei cittadini e una crescente difficoltà per moltissime famiglie ad arrivare a fine mese con le spese.
Si diceva una volta dei cittadini d’oltre Manica: un inglese, un gentleman; due inglesi, un club; tre inglesi, una colonia. Dovremmo invece dire di noi stessi: un italiano, un genio; due italiani, un conflitto; tre italiani, un fallimento. Figuriamoci se gli italiani in gioco sono una decina (i partiti della disciolta maggioranza), una trentina (i ministri del governo uscente), un centinaio (i suoi membri complessivi) o un migliaio (i nostri parlamentari), estranei tra di loro, per formazione, ideologia, interessi e del tutto incapaci a cooperare. Il caos era destinato a crescere in maniera esponenziale, esattamente ciò che è avvenuto e che i media hanno potuto riprodurre a beneficio dell’opinione pubblica mondiale.
Gli italiani non ci sono ancora, ma in questo modo prima o poi l’Italia (così come ora l’Alitalia) rischierà di non esserci più. Bisognerebbe dunque ripartire dalla mission incompiuta del conte Cavour e nel (ri)provare a fare gli italiani, mission (forse) impossibile ma inevitabile se non si vuole che il paese prosegua nella sua deriva.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

E' l'analisi più illuminante e convincente dei problemi italiani che ho letto finora. Ci sono problemi comuni a tutto il mondo o comunque a vaste regioni e problemi locali. La specificità italiana è che ai problemi che abbiamo in comune col resto del pianeta ne aggiungiamo parecchi di produzione nostra.

LF
2909.splinder.com

Anonimo ha detto...

Veramente era D'Azeglio...

Anonimo ha detto...

Un'ordinata descrizione dei "sintomi" della malattia italiana. Ma che potrebbe far pensare a qualche tara antropologica della gente della nostra penisola. Io invece penso che vi sia una causa specifica che ha messo dal dopoguerra in poi il piombo nelle ali della nostra crescita politica-culturale:

http://zamax.wordpress.com/2007/02/07/litalia-tribale/

Giuseppe Sottotetti ha detto...

La verità di quest'analisi salta all'occhio quando si osservano gli italiani all'estero, spaesati ed incapaci di instaurare una relazione qualsiasi con gli indigeni, gli italiani passano il loro tempo a cercare connazionali con cui parlar male del luogo in cui si trovano