Il nuovo mantra della politica italiana in materia di lavoro è l'introduzione di salari correlati ai risultati aziendali. Non c'è politico che non abbia proposto questa soluzione "per rilanciare il potere d'acquisto delle famiglie italiane".
Nessuno, però, che si ponga la domanda fondamentale: questi meccanismi hanno senso? E, soprattutto, funzionano?
A sentire il professor Michael Beer, della Harvard Business School, non sempre.
Funzionano discretamente come incentivo per i manager, anche se a volte possono causare incentivi distorti (come nel caso delle stock option, che possono creare conflitti tra interessi di breve e lungo periodo, oppure conflitti legati alla maggior propensione al rischio di un titolare di una opzione, oppure ancora nella politica di distribuzione degli utili come dividendi ovvero riacquisti di azioni).
Ma è molto difficile costruire meccanismi di remunerazione legati ai risultati per tutti i lavoratori di una azienda.
Il primo problema riguarda la definizione degli obiettivi e la misurazione e verifica dei risultati. Chi fissa gli obiettivi, e come? Se vengono negoziati, c'è un evidente problema di asimmetrie informative tra le parti coinvolte; se vengono imposti dall'alto, possono essere mal calibrati; se adottati dal basso, possono essere poco impegnativi.
Il secondo problema riguarda la gestione delle risorse umane: se il risultato del mio lavoro dipende non solo da ciò che faccio io, ma anche da ciò che fanno i miei collaboratori, inevitabilmente sorgeranno contrasti nell'organizzazione dei gruppi di lavoro. La tendenza prevedibile è che si formeranno gruppi di "elite" composti dai dipendenti migliori e più esperti, ed altri composti dai peggiori e meno esperti: questo snatura l'essenza stessa del tanto celebrato "team work". Si avrebbe, da un lato, il problema di avere gruppi di lavoro con evidenti disparità di capacità ed esperienza, con ovvi problemi nella definizione dei turni di lavoro, e dall'altro un rallentamento di quei fenomeni di spillover della conoscenza che rivestono un ruolo fondamentale nella formazione e nella crescita del personale di una azienda.
Il terzo ordine di problemi riguarda il rischio di conflitti tra chi lavora e chi misura la performance, quando ritardi e in generale problemi nella produzione di origine esterna all'azienda tali da generare risultati negativi (o viceversa benefici derivanti unicamente dall'esterno tali da generare risultati positivi) danneggiano ed influenzano il lavoro dei dipendenti dell'azienda. Come misurare questi effetti, e come calcolarne l'incidenza sull'effettivo risultato conseguito?
Un quarto ordine di problemi riguarda il tempo che continuamente il management deve dedicare all'aggiustamento degli obiettivi e delle misurazioni, per adattarli ai continui mutamenti del mondo reale in cui un'azienda opera.
Un ultimo problema riguarda il fatto che, per alcuni lavori, potrebbe essere preferibile un compenso certo, con la tranquillità che ne deriva, piuttosto che uno stipendio variabile, con l'insicurezza che questo comporta: molti lavoratori potrebbero accettare uno stipendio variabile solo se compensati con un adeguato premio per il rischio.
Tutti questi problemi rappresentano ovviamente dei costi per un'azienda, che devono essere confrontati con gli eventuali benefici, per valutare correttamente la validità della soluzione. L'imposizione dall'esterno di meccanismi di correlazione tra salari e risultati esula completamente da questo tipo di logica.
Ciò di cui le aziende italiane (ed i lavoratori italiani) avrebbero davvero bisogno è di una maggiore libertà contrattuale, di un abbandono del mito della concertazione e del contratto unico nazionale a favore di una maggior flessibilità e libertà di scelta.
Non è escluso che, lasciando i manager ed i rappresentanti aziendali dei lavoratori liberi di discutere, non si raggiunga il risultato di ottenere stipendi correlati ai risultati dell'azienda. Ma sarebbe una libera scelta di imprese e lavoratori, sulla base di aspettative ed obiettivi condivisi, non un'imposizione arbitraria ed autoritaria dello stato accentratore, e, con buona probabilità, sarebbe attuata nella convinzione che, in quella specifica azienda, i benefici che ne deriverebbero sarebbero maggiori dei costi.
E, soprattutto, sarebbe bene non confondere questi schemi di performance pay, ovvero di stipendi dei singoli lavoratori legati ai risultati conseguiti da ciascuno di essi, con gli aumenti contrattuali generalizzati di una singola azienda legati ad aumenti della produttività complessiva dei lavoratori dell'azienda stessa.
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