Nella prima metà degli anni '90 l'Italia avviò un impegnativo processo di riforma delle imprese pubbliche, caratterizzato da alcuni provvedimenti chiave:
- la trasformazione giuridico-istituzionale delle imprese pubbliche non s.p.a., requisito indipensabile per avviare in seguito processi di privatizzazione;
- la definizione di regole per le privatizzazioni e l'inserimento in programmi di privatizzazione delle imprese pubbliche che potevano essere oggetto d'interesse di investitori privati;
- la riforma della regolazione delle utilities attraverso la creazione di Autorità indipendenti di regolazione (l'Autorità per l'energia nel 1995 e l'AGCOM due anni dopo);
- l'assegnazione dell'esercizio della funzione proprietaria sulle partecipazioni pubbliche al Ministero del Tesoro (ora MEF, Ministero dell'Economia e Finanze).
Nel realizzare questo percorso, positivo per gli obiettivi generali perseguiti ma molto meno per le modalità adottate, gli obiettivi intermedi e i vincoli accolti, i governi di allora (e neppure i successivi) non si accorsero di un 'fallimento' rilevante che può essere definito come 'paradosso delle privatizzazioni':
- quando la proprietà di un'impresa passa dal settore pubblico a quello privato l'effetto atteso più rilevante è la crescita dell'efficienza produttiva che permette di ridurre i costi unitari di produzione e aumentare i profitti;
- le aziende pubbliche che possono essere oggetto di privatizzazione sono tuttavia solo quelle che realizzano livelli già soddisfacenti di efficienza produttiva, chiudono i bilanci in utile e sono in tal modo in grado di attrarre l'interesse dei sottoscrittori privati;
- le aziende pubbliche molto inefficienti e con bilancio in pesante deficit non sono privatizzabili, pertanto non è possibile accrescere la loro efficienza produttiva attraverso la privatizzazione;
- la privatizzazione, in conseguenza, accrescerà ulteriormente l'efficienza delle imprese pubbliche già abbastanza efficienti, aumentando il divario rispetto alle altre.
Vi è inoltre un secondo lato della medaglia, anch'esso problematico, relativo alla regolazione di questi settori produttivi:
- per i settori produttivi interessati da processi di privatizzazione una legge generale sulle privatizzazioni del 1994 aveva richiesto l'istituzione di Autorità indipendenti di regolazione;
- in tal modo si eliminava la possibilità per i governi di far ricadere obiettivi atipici di politica economica, o di politica tout cort, sulla gestione delle aziende privatizzate, evitando agli azionisti il rischio di caduta della redditività delle imprese e del valore delle azioni, conseguente all'apposizione da parte del soggetto pubblico di obiettivi discrezionali sulla gestione delle aziende;
- una regolazione indipendente, realizzata su basi esclusivamente tecnico economiche, ha (soprattutto) il vantaggio di proteggere i consumatori dal potere di mercato di gestori non concorrenziali, ponendo vincoli ai prezzi che essi possono praticare o alla loro crescita nel tempo; in tal modo il miglioramenti dell'efficienza produttiva delle aziende privatizzate va anche a favore dei consumatori anzichè tradursi esclusivamente, trasformando l'inefficienza produttiva dei monopoli pubblici in inefficienza allocativa dei monopoli privatizzati, in maggiori profitti peri gestori;
- le Autorità indipendenti, per contro, non sono state istituite nel caso italiano per i settori le cui aziende pubbliche erano talmente inefficienti (trasporti, servizio postale) da non poter neppure essere privatizzate; in tal modo, tuttavia, non sono stati attivati meccanismi per evitare la ricaduta su queste aziende di obiettivi politici e neppure per proteggere i consumatori, dal lato dei prezzi e della qualità, dalle scelte inefficienti dei gestori (un esempio per tutti: l'abolizione nel 2006 del francobollo ordinario delle lettere e, contemporaneamente, della qualità della corrispondenza prioritaria);
- in tal modo queste aziende già molto inefficienti hanno potuto continuare a rimanere tali, o anche a peggiorare le loro performance (Alitalia, recapito postale, trasporto locale ferroviario e su gomma, Tirrenia), associando in tal modo inefficienza produttiva e inefficienza allocativa.
La nostra medaglia sulle imprese pubbliche italiane non ha ancora esaurito le sue faccie. Mi perdoneranno i numismatici ma qui ve ne è persino una terza, legata al ruolo del Tesoro come azionista:
- affidare la gestione dei processi di privatizzazione al Tesoro era una scelta ovvia e ampiamente condivisibile; affidare al Tesoro l'esercizio della funzione proprietaria sulle partecipazioni privatizzande e sulle quote residuali delle imprese parzialmente privatizzate pure; ma per le imprese pubbliche non privatizzabili perché troppo inefficienti è lecito esprimere qualche dubbio;
- in questo caso, infatti, la risposta è positiva solo nel caso in cui il Tesoro fosse stato in grado di gestirle in un logica industriale, profondamente differente dalla logica finanziaria accettabile per la prima tipologia;
- il grosso problema è che il Tesoro non è stato in grado di farlo; a distanza di quasi un quindicennio nessuna di queste imprese è fuoriscita dall'occhio del ciclone, nessuna ha risanato i bilanci (tranne le Poste, ma ho spiegato in un'altra occasione come vi è riuscita), nessuna si caratterizza per performance industriali accettabili, nessuna opera in mercati liberalizzati (tranne Alitalia, per scelte dell'Europa e non certo nostre);
- poichè molte di queste imprese operano nel settore dei trasporti, anzi, se prese assieme, coprono praticamente tutta l'offerta collettiva di trasporto (sia merci, che passeggeri), la conseguenza è che in Italia il trasporto non funziona (le merci esportate dall'Italia per via area partono dall'aeroporto di Francoforte mentre le merci che dal sud est asiatico sono destinate alla pianura padana vengono sbarcate a Rotterdam) e non abbiamo ancora un servizio postale (né pubblico, perchè non funziona, nè privato perchè in parte vietato dalle leggi e in parte impedito dal regolatore, pubblico ma non indipendente);
- se il trasporto non funziona, non si comprende neppure come possa funzionare il sistema economico; ci vorrebbe Willy Wonka come Ministro dei Trasporti, visto che era in grado di teletrasportare (purtroppo solo cinematograficamente) le barrette di cioccolato;
- Alitalia è sull'orlo del fallimento e le altre non se la passano molto bene, tanto che si parla ormai frequentemente di 'Alitalia prossime venture', ma dal ministero dell'Economia e delle Finanze non si vedono ancora segnali di un cambiamento dall'approccio finanziario alle partecipazioni pubbliche, sinora dominante, ad un approccio industriale in grado di 'pensare' al risanamento di queste aziende prima che si instradino definitivamente sulla rotta di Alitalia, come accadrà inevitabilmente dopo la liberalizzazione dei rispettivi mercati.
Alitalia è un caso emblematico: ha chiuso in utile un solo bilancio nell'ultimo ventennio (il che deve essere avvenuto, intendo il solo esercizio in utile, per qualche inspiegabile errore che sarebbe interessante accertare); opera in un mercato completamente liberalizzato da dieci anni a questa parte (almeno sui cieli europei, sui quali volano tre passeggeri Alitalia su quattro); il settore è stato oggetto di crisi e turbolenze rilevanti (l'11 settembre, la Sars cinese, il nuovo shock petrolifero); l'azienda non potrebbe più ricevere sovvenzioni dal suo azionista principale sino al 2011; le altre grandi aziende, Usa ed europee sono state oggetto di ristrutturazioni talvolta pesanti e fusioni quando non amministrazioni controllate e fallimenti. Cosa ha fatto Alitalia in tutto questo tempo, nel quale ci saremmo aspettati almeno tre o quattro piani impegnativi di ristrutturazione: assolutamente nulla. Cosa ha fatto il Tesoro in tutto questo tempo su Alitalia: assolutamente nulla.
In realtà qualcosa hanno fatto che sarebbe stato invece meglio non fare.
Alitalia: pur avendo meno di trenta aerei idonei al lungo raggio, dieci anni fa ha raddoppiato il suo hub, aprendo Malpensa e gestendolo con dipendenti in onerose trasferte da Roma, ma dopo soli tre anni dall'inaugurazione, dopo l'11 settembre, ha drasticamente ridotto l'offerta intercontinentale senza più ripristinarla nei precedenti livelli ma continuando a mantenere il doppio hub per altri sei anni (sino a tre mesi fa).
Tesoro: ha concesso ai vertici Alitalia remunerazioni stellari, tra le più elevate dei vettori europei, per risultati economici sotto terra, i peggiori tra tutte le compagnie di bandiera; un anno e mezzo fa il Governo Prodi si è finalmente deciso a vendere l'azienda, unica scelta approvabile, ma il bando del Tesoro ha zavorrato la procedura con così tante condizioni per l'acquirente da rendere l'azienda non risanabile; nessun compratore, comprensibilmente, ha accettato. Ha quindi riprovato con Air France ma ha permesso che il vero azionista di Alitalia, il sindacato, la mettesse in fuga. Il vettore francese, che era l'unico soggetto interessato ad essere dotato di indiscutibile solidità economica e competenza industriale nel settore, aveva elaborato un piano di ristrutturazione molto serio ma non drastico che non potrà essere ripetuto da nessun altro, neppure dallo stesso vettore francese se decidesse di ritornare sui suoi passi. Bastava avere il coraggio di porre a referendum, nonostante il parere contrario dei sindacati, la proposta di Air France (si sarebbe ottenuto l'85% di adesioni dei lavoratori) e oggi Alitalia sarebbe un problema della compagnia francese ma non più del contribuente italiano. Infine, ciliegina sulla nostra torta, in ben due occasioni nel corso della procedura di privatizzazione ha lasciati i vertici di un'azienda in così grave crisi privi di una guida operativa manageriale: la prima volta è avvenuta al momento dell'uscita di Cimoli, quando ai vertici di Alitalia fu designato il prof. Libonati, insigne giurista ma certo non manager di imprese aeronautiche; la seconda volta all'inizio dello scorso aprile, con le dimissioni dell'Ing. Prato.
Il risultato è che oggi Alitalia, sull'orlo del fallimento, è gestita da un consiglio di amministrazione ridotto ai mimimi termini, all'interno del quale nessun componente apporta competenze di gestione di imprese di trasporto aereo; inoltre non ha neppure un direttore generale come guida operativa. Purtroppo, coerentemente con la logica con la quale il Tesoro ha gestito le partecipazioni pubbliche dagli anni novanta ad oggi, la mission che si riconosce è di trovare un compratore per l'azienda, non di risanarla. Ma se non si elaborano idee per risanarla, e dovrebbe essere in primo luogo nell'interesse del venditore farlo, non si troverà neppure un compratore. Questo vale per Alitalia e per tutte le altre aziende pubbliche nel limbo le cui reali criticità emergeranno con le liberalizzazioni dei rispettivi mercati. Alitalia, in fondo, è la più efficiente di queste aziende e ne rappresenta una piccolissima frazione (dei costi e delle inefficienze totali). Se se non si acquisiranno in tempi rapidi competenze per il loro risanamento sarà una catastrofe per il settore pubblico e l'economia nazionale.
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