mercoledì 18 febbraio 2009

martedì 17 febbraio 2009

5 righe sulla crisi

La crisi non è frutto di troppo mercato ma di troppo poco: poca concorrenza, informazione nascosta, comportamenti nascosti, regole insufficienti e/o non rispettate, eccesso di ruolo e potere di mercato delle grandi organizzazioni, autoreferenzialità dei manager e loro remunerazioni slegate da qualità, affidabilità, capacità di produrre risultati sostenibili nel tempo.

(Più di 5 righe su ilsussidiario.net)

sabato 7 febbraio 2009

15 Marzo 2010: Alitalia è francese

Le dichiarazioni del presidente di Alitalia, Roberto Colaninno, davanti alla Commissione congiunta di Camera e Senato, rilasciate il 4 Febbraio scorso sono sconvolgenti: “Io volo da Verona con Air Dolomiti”.
Peccato che Air Dolomiti è in concorrenza con Alitalia, poiché fa parte del gruppo Lufthansa.
Forse al presidente è sfuggito il fatto che in questo modo si fa concorrenza in casa…

A parte questa affermazione che non è poi cosi grave, perché ogni persona è libera di scegliere l’operatore e lo scalo preferito, ne è seguita un’altra molto più grave.

L’amministratore delegato di Alitalia, Rocco Sabelli, ha mentito davanti alle Commissioni congiunte, affermando che il load factor della nuova compagnia è stato del 43 per cento contro il 50 per cento dello scorso anno; peccato che il load factor di Alitalia era al 64,61 per cento e quello di Airone al 48,46 per cento. Insieme le due compagnie avevano un load factor pari al 62,59 per cento, cioè circa venti punti percentuali in più rispetto ala nuova Alitalia. La fonte dei dati è AEA, cioè l’associazione che raggruppa i vettori tradizionali in Europa.
Come fa il “vettore di bandiera” dirsi soddisfatto?

Se anche dovesse migliorare il LF rispetto a Gennaio, nell'anno in media la nuova Alitalia supererà il 65 per cento di riempimento dei propri aerei, inferiore di 7 punti rispetto allo stesso piano Fenice, ma comunque superiore rispetto al livello di load factor raggiunto da AirOne nel 2008.
Se cosi fosse ci sarebbero ricavi inferiori per circa 500 milioni di euro, con la stima ottimistica di uno yield stabile pur essendo in periodo di crisi (ad esempio Ryanair lo ha abbassato del 20 per cento, per mantenere stabile il LF).

Sabelli ha poi affermato davanti alla Commissione che le compagnie low cost avrebbero abbassato il proprio load factor, riportando cifre senza precisare i vettori.
Andando ad analizzare le due principali compagnie low cost in Europa ed in Italia, dove hanno una quota di mercato del mercato low cost superiore al 50 per cento si denota un’altra volta un’imprecisione da parte dell’amministratore delegato di Alitalia. Easyjet in Gennaio ha si diminuito il load factor al 72 per cento (30 punti percentuali in più rispetto ad Alitalia), ma nel corso degli ultimi 12 mesi lo ha incrementato arrivando a sfiorare l’85 per cento. Ryanair lo ha mantenuto stabile al 69 per cento a Gennaio e superiore all’80 per cento nell’ultimo anno.
A quali low cost si riferiva l’AD di Alitalia? Sicuramente non ai due maggiori concorrenti.
Le stime vedono un’Alitalia gravemente malata con delle perdite per il 2009 pari a 630 milioni di euro, più di quanto fatto dalla pre-fallimentare vecchia Alitalia nel 2007. In questa stima consideriamo anche minori costi dovuti alla diminuzione del prezzo del carburante per circa 200 milioni di euro e stimiamo ottimisticamente che il petrolio non aumenti le proprie quotazioni.
Se le perdite saranno di questa portata le ipotesi sono due: la ricapitalizzazione o il fallimento.
Nel secondo caso si consumerebbe il secondo fallimento in meno 20 mesi per il vettore di bandiera italiana, mentre in caso di ricapitalizzazione, necessaria entro i primi mesi del 2010, il 15 di Marzo del 2010 Air France diventerà socio di maggioranza della nuova Alitalia.

mercoledì 4 febbraio 2009

1/2 Alitalia trasporta 1/4 dei vecchi passeggeri

Gli organi d'informazione sul web riportano con evidenza l'audizione odierna di Colaninno e Sabelli presso le Commissione trasporti riunite di Camera e Senato. La notizia di maggiore interesse non riguarda tuttavia le preferenze aeroportuali di Colaninno, il quale ha dichiarato di non utilizzare Malpensa per i suoi voli a lungo raggio bensì Francoforte via Verona, ma i dati forniti da Sabelli in relazione al tasso di riempimento dei posti nelle prime settimane di attività del nuovo vettore:

"In queste settimane il load factor medio di Alitalia e' sceso al 43% dal 50% di gennaio 2007 (Alitalia piu' Airone)". (Radiocor)

Trovano pertanto conferma ufficiale i dati che erano trapelati da fonti sindacali e aeroportuali e che indicavano come gli aerei della nuova compagnia viaggiassero semivuoti. Il 43% di Sabelli appare persino ottimistico: l'Anpac aveva indicato pochi giorni fa un dato del 39% mentre oggi stesso, nel corso di un'audizione presso la Commissione Territorio della Regione Lombardia, il Presidente di Sea Giuseppe Bonomi ha dichiarato che gli aerei Alitalia che volano su Malpensa hanno un coefficiente di riempimento del 30% e quelli che volano su Linate del 40%. Questi valori corrispondono a un dato medio per Alitalia nei due aeroporti Sea del 37%.
Considerando che si tratta dei due aeroporti italiani nei quali l'offerta della nuova compagnia si è ridotta di più rispetto ai due vettori preesistenti, è difficile pensare che il load factor dei voli Alitalia che non toccano Malpensa e Linate sia tale da portare il 37% di Milano al 43% medio.
Si tratta ovviamente di un'ipotesi; è invece certo che il load factor di Alitalia e AirOne nel gennaio 2008 non era al 50% ma molto più alto. Sabelli ha quindi raccontato una bufala ai parlamentari riuniti delle due autorevoli commissioni: nel gennaio 2008 il load factor di Alitalia è stato del 64,6% (67,0% nel gennaio 2007) e quello di AirOne del 48,5% (44,7% nel gennaio 2007), il peggiore tra tutti i vettori europei. Per l'insieme delle due compagnie il load factor nel gennaio 2008 è stato pari al 62,6%, molto vicino al valore di Alitalia in quanto il vettore pesava quasi sette volte AirOne in termini di posti km offerti e poco meno di dieci in termini di posti km venduti.
La caduta del load factor risulta pertanto vicina ai venti punti percentuali in un anno (26 punti se avesse ragione Giuseppe Bonomi) ed evidenzia la situazione molto critica che interessa il nuovo vettore già al momento del suo decollo. Questa caduta della domanda, dovuta alla crisi del vecchio vettore, all'insufficiente credibilità del nuovo, a tariffe elevate (effettive o comunque attese dal consumatore) e alla recessione economica, si verifica inoltre dopo un'ampia sforbicita dell'offerta che la nuova compagnia ha dato rispetto alle due preesistenti. Non sembra essere emerso nell'audizione parlamentare ma rispetto al gennaio 2008 nel mese scorso Alitalia e AirOne hanno complessivamente tagliato i voli nazionali del 33% e quelli internazionali (europei e intercontinentali) del 54%. I voli totali offerti sono pertanto diminuiti del 42%.
Posta uguale a 100 l'offerta del gennaio 2008, la domanda dei passeggeri era pari a 63. Oggi la domanda è pari a 43 (se ha ragione Sabelli) se continuamo a porre l'offerta pari a 100. Ma l'offerta di oggi è solo il 58% di quella di un'anno fa e i passeggeri rispetto a un anno fa sono il 43% del 58%, cioè il 25%.
In sintesi possiamo dire che (per ora) il piano di rinascita Fenice ha lasciato per strada (o nell'hangar) quasi metà delle due vecchie aziende e i tre quarti dei vecchi passeggeri. Un'Alitalia dimezzata trasporta solo un quarto dei passeggeri di una volta.

Errata corrige: Rettifico un dato del testo precedente: in realtà i passeggeri di gennaio 2009 della nuova Alitalia sono il 25% rispetto ai posti offerti AZ+AP nel gennaio 2008 mentre rispetto ai passeggeri AZ+AP di gennaio 2008 sono il 40%. La riduzione dei passeggeri non è quindi del 75% ma (solo) del 60%. In sintesi: posta uguale a 100 l'offerta AZ+AP di gennaio 2008, i passeggeri di allora erano 63, i posti offerti nel gennaio 2009 sono stati 58 e i passeggeri 25. L'offerta di posti si è quindi ridotta del 42%, la domanda del 60% e il load factor è passato dal 63 al 43%. Spiego meglio il tutto sul ilsussidiario.net.

martedì 3 febbraio 2009

Almeno sono coerenti

Il ministro Zaia:
Gli inglesi fanno bene: con la crisi la tua gente viene prima di tutto
Il capogruppo leghista alla Camera Cota:
Hanno ragione gli operai inglesi
[HT: Lakeside Capital]

No al protezionismo

Non è forse un caso che l’appello “no al protezionismo” al termine del World Economic Forum tenutosi a Davos settimana scorsa abbia visto in testa Germania e Cina; i due paesi sono infatti i maggiori esportatori mondiali e sono anche quelli che subirebbero gli effetti più nefasti dall’innalzamento di nuove barriere al commercio internazionale.
Nonostante questo appello, un vento di “chiusura” soffia sopra l’economia mondiale; il pacchetto di “rilancio” del presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, contiene una clausola molto preoccupante, la cosiddetta “Buy American”. Se tale misura dovesse essere confermata al Senato, i rischi di passare da una recessione ad una depressione diventerebbero reali.
Il protezionismo nel settore delle opere pubbliche ed in particolare per le forniture di acciaio e di calcestruzzo vanno nella direzione sbagliata e se dovessero essere attuate, i partner commerciali degli Stati Uniti prenderebbero le contromisure in seno al WTO.
E dove porterebbe la misura di Obama? Semplicemente ad un innalzamento delle barriere doganali e al rallentamento ulteriore del commercio internazionale che già quest’anno si prevede in forte diminuzione a causa della crisi globale.
“Buy American” rischia di trasformarsi in “Depression’s World” e anche le “scaramuccie” tra il Ministro del Tesoro Americano e le autorità cinesi sui tassi di cambio sembrano andare nella direzione opposta a quella auspicabile.

In periodi di difficoltà economica è abbastanza ovvio, seppur non condivisibile, che si chiedano maggiori tutele, come è stato anche il caso della Gran Bretagna, con la protesta di alcuni sindacati che vogliono mantenere britannici i posti di lavoro.
Le parole di Gordon Brown di difendere i posti di lavoro britannici, poi precisate, sono un’altra indicazione sbagliata che arriva all’economia mondiale nel momento di grande difficoltà.
I dati sono preoccupanti come mostra la caduta del 3,8 per cento del prodotto interno lordo americano nell’ultimo trimestre dello scorso anno e i primi mesi del 2009 potrebbero essere ancora più duri.

I dati indicano recessione, ma certi politici preferiscono definire quella in atto la più grande crisi dal 1929. Attualmente le informazioni disponibili indicano che la crisi forse è la più grave negli ultimi 30 anni e non ha ancora nessun paragone con la “Grande Depressione”.
Sono i dati che parlano senza equivoci: in Germania la disoccupazione è ai livelli più elevati da un anno a questa parte, tuttavia circa 1,8 milioni di disoccupati in meno rispetto al 2005. L’economia tedesca potrebbe essere uscita dalla recessione nell’ultimo trimestre dell’anno scorso e anche in Spagna, paese molto colpito dalla caduta del settore immobiliare, il tasso di disoccupazione, seppur molto elevato è ancora molto distante dai tassi antecedenti al Governo Aznar.

La richiesta di maggiore regolazione serve alla classe politica per riconquistare quello spazio e quel potere che il mercato le ha sottratto negli ultimi anni; potrebbe sembrare un’affermazione fuori dal coro, ma si potrebbe dire che “per fortuna la politica è uscita dal mercato”.
Gli anni dell’inflazione a doppia cifra si registravano quando la politica monetaria delle banche centrali erano sotto il controllo dei Governi ed in generale la politica nel mercato non è mai stata troppo efficiente.

Alla crisi del ’29 si è risposto con maggiore protezionismo, si ricordi “quota 90” nell’Italia fascista e l’esito è stato una terribile guerra mondiale.
Protezionismo e nazionalismo vanno spesso “a braccetto” e dunque è necessario che s’imprima una svolta verso un accordo nel Doha Round.

Si è addirittura sentita la proposta di interrompere gli accordi Schengen e di libera circolazione delle persone e dei lavoratori; la semplificazione alla base di questa grave affermazione, la stessa posizione dei sindacati britannici, è quella per la quale i posti di lavoro sono rubati. Non sarebbe difficile comprendere invece che proprio da una limitazioni delle barriere le economie possono diventare più efficienti e quindi riprendere la strada dello sviluppo, ma la semplificazione politica a volte prende il sopravvento sul buon senso.

Al posto di chiedere maggiore regolazione, i politici devono impegnarsi seriamente per rilanciare il Doha Round e dare slancio al commercio estero, perché solo in questo modo si immette fiducia nel mercato e si evita di cadere nella temuta depressione.
Maggiore trasparenza, come richiesto dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, è indispensabile affinché non ci siano asimmetrie informative, ma la maggiore regolazione invece andrebbe in direzione opposta.

Meno regole, ma più trasparenza.
Meno barriere al commercio e più sviluppo economico.
Due semplici ricette al posto della temibile accoppiata perdente “protezionismo-nazionalismo”.