Il Foglio di ieri riporta un pezzo molto interessante dal titolo "Alitalia - Il gioco del vero e del falso. Qualche informazione utile prima del decollo della nuova compagnia". Nell'articolo, che condivido quasi integralmente, vi è tuttavia un 'non vero' che riguarda la produttività del personale di volo:
"Piloti pigri. Da qualche settimana sappiamo tutti come sono efficienti i comandanti di Air France (650 ore di volo) e Lufthansa (700), esempi virtuosi per il personale navigante. E’ una verità quindi che le aquile tricolori volano meno (570). E’ altresì una verità quanto sostiene Anpac, ossia che il contratto Alitalia consentirebbe di superare tedeschi e francesi, poiché il limite d’impiego è fissato in 900 ore annue. “Se ciò non avviene, è colpa dell’azienda che mal ci impiega”, affermano i sindacalisti. C’è però una terza verità da aggiungere, dentro la compagnia tutta la direzione che supervisiona l’attività di volo e che malimpiega i piloti è un monocolore Anpac. I posti chiave sono tutti presidiati da iscritti al sindacato di Berti."
Il testo precedente non spiega se le aquile tricolori volano di meno dei loro cugini francesi e tedeschi perchè non vogliono volare di più (cugini in realtà dei nullafacenti di Brunetta e Ichino?) o per altri motivi e lascia intendere che la ragione sia la prima. Pur occupandomi con intensità e da tempo del trasporto aereo non ho una risposta netta sulla produttività dei piloti. Posso però ricordare che i piloti non volano da soli, con la rilevante eccezione del trasvolatore della Manica dotato di ali in fibra di carbonio, ma al comando di aerei e che la minore produttività dei piloti di Alitalia è un riflesso della minore produttività delle macchine (meno ore volate in un anno rispetto alle altre compagnie).
Da cosa dipende la minore produttività degli aerei di Alitalia posso però spiegarlo e non c'entra nulla con la voglia di lavorare dei piloti o il potere del sindacato di Fabio Berti: dipende dal fatto che Alitalia vola prevalentemente sul breve-medio raggio mentre gli altri grandi vettori europei volano sul lungo (dove realizzano tra l'80 e il 90% del traffico). Purtroppo l'85% degli aerei Alitalia, quelli destinati al breve-medio raggio, vola in media solo 2500 ore l'anno che corrispondono esattamente a 410 minuti al giorno e a 6 voli quotidiani da un'ora e dieci, in sostanza a 6 voli sulla Milano Roma o su tratte equivalenti. Purtroppo per Alitalia, tuttavia, non è possibile aumentare il numero di voli quotidiani per macchina oltre i 6 (non vi riesce neanche Ryanair) perchè si dovrebbe volare in ore notturne prive di interesse per i clienti (a differenza dei consumatori transatlantici che volano volentieri anche di notte). Nei voli intercontinentali, invece, la possibilità di utilizzare le ore notturne fa aumentare notevolmente la produttività degli aerei perchè permette di percorrere molti più chilometri. Persino le pochissime macchine di Alitalia dedicate al lungo raggio volano in media circa 4900 ore l'anno, corrispondenti a 13 ore e mezza al giorno (che equivalgono a un viaggio Roma-Los Angeles).
Abbiamo a questo punto capito perchè la produttività degli aerei (e probabilmente anche quella dei piloti) di Alitalia è più bassa: Milano e Roma sono troppo vicine; se Roma stesse a Reggio Calabria la produttività sarebbe molto più alta. Potremmo suggerirlo agli amici di CAI: spostiamo Roma un pò più in giù, così i piloti volano molto di più.
P.S. 1: Il lettore avrà notato che ci ho messo un pò per spiegare l'arcano; se avessi sostenuto che i piloti AZ preferiscono sindacaleggiare anzichè volare me la sarei cavata con molte meno parole e minor sforzo intellettuale.
P.S. 2: Trarre da descrizioni (i piloti AZ volano meno degli altri) prescrizioni (dovrebbero volare in maniera eguale) può essere ingannevole se non si individua la ragione normativa (la sottostante teoria) per la quale questo possa verificarsi o meno. Ce lo aveva già ricordato David Hume qualche tempo fa.
martedì 30 settembre 2008
domenica 28 settembre 2008
Alitalia: la sconfitta del mercato
La vendita di Alitalia sta arrivando al suo epilogo; la preoccupazione per il mercato del trasporto aereo italiano non è indifferente poiché dal Piano Fenice risulta chiaro che i prezzi dei voli domestici aumenterà a causa della restrizione della concorrenza.
La privatizzazione Alitalia è stato l’ennesima dimostrazione che in Italia il mercato è lasciato in disparte. La vendita, cominciata a fine del 2006, si è conclusa peggio di quanto fosse cominciata; nel frattempo la compagnia di bandiera ha bruciato circa 1,4 miliardi di euro (considerando anche il terzo trimestre 2008) e ha continuato a perdere quote di mercato, arrivando ad avere in luglio di questo anno solamente il 17 per cento del mercato italiano.
I modelli tedesco o francese che tanto sono ammirati forse non sono conosciuti a fondo; in Francia, dove Air France è quasi monopolista, il mercato si è sviluppato molto meno che in Italia, tanto che nel nostro paese, il numero di passeggeri intra-Unione Europea ha superato quello dei cugini Transalpini. Sarebbe stato meglio prendere ad esempio il mercato inglese, nel quale viaggiano ogni anno l’80 per cento di passeggeri in più rispetto alla Francia e dove British Airways è un operatore forte, ma non dominante.
La CAI, Compagnia Aerea Italiana, sarà un piccolo operatore europeo con circa il 3 per cento dei passeggeri trasportati in Europa e il 25 per cento del mercato italiano. La fusione tra AirOne ed Alitalia provocherà tuttavia una concentrazione sul mercato domestico, in particolar modo sulla tratta Milano Linate – Roma Fiumicino, dove la CAI avrà il 95 per cento degli slot disponibili. La concorrenza verrà limitata e il decreto legge del Governo dello scorso agosto sospende la normativa antitrust che avrebbe impedito un simile monopolio. I viaggiatori avranno dunque una scelta limitata.
La privatizzazione Alitalia è stato l’ennesima dimostrazione che in Italia il mercato è lasciato in disparte. La vendita, cominciata a fine del 2006, si è conclusa peggio di quanto fosse cominciata; nel frattempo la compagnia di bandiera ha bruciato circa 1,4 miliardi di euro (considerando anche il terzo trimestre 2008) e ha continuato a perdere quote di mercato, arrivando ad avere in luglio di questo anno solamente il 17 per cento del mercato italiano.
I modelli tedesco o francese che tanto sono ammirati forse non sono conosciuti a fondo; in Francia, dove Air France è quasi monopolista, il mercato si è sviluppato molto meno che in Italia, tanto che nel nostro paese, il numero di passeggeri intra-Unione Europea ha superato quello dei cugini Transalpini. Sarebbe stato meglio prendere ad esempio il mercato inglese, nel quale viaggiano ogni anno l’80 per cento di passeggeri in più rispetto alla Francia e dove British Airways è un operatore forte, ma non dominante.
La CAI, Compagnia Aerea Italiana, sarà un piccolo operatore europeo con circa il 3 per cento dei passeggeri trasportati in Europa e il 25 per cento del mercato italiano. La fusione tra AirOne ed Alitalia provocherà tuttavia una concentrazione sul mercato domestico, in particolar modo sulla tratta Milano Linate – Roma Fiumicino, dove la CAI avrà il 95 per cento degli slot disponibili. La concorrenza verrà limitata e il decreto legge del Governo dello scorso agosto sospende la normativa antitrust che avrebbe impedito un simile monopolio. I viaggiatori avranno dunque una scelta limitata.
Alitalia ha accumulato perdite nette per 3,5 miliardi di euro dal 2003 ad oggi, in gran parte a carico dei contribuenti e la vendita alla nuova compagnia aerea italiana costerà altri 2 o 3 miliardi di euro; con la stessa cifra si sarebbe potuta costruire l’alta velocità tra Milano e Firenze a costi europei.
La trattativa privata rischia di penalizzare il contribuente e i creditori di Alitalia. La valutazione del valore degli asset acquistati dalla CAI non verrà definito dalle forze del mercato, ma da una decisione presa dal commissario straordinario di Alitalia. Il valore degli slot posseduti dall’ex vettore di bandiera è di almeno mezzo miliardo di euro e si auspica che venga fatta un’offerta che dia il giusto valore. Attualmente, le indiscrezioni giornalistiche sembrano invece confermare un’offerta che oscilla tra i 350 e i 450 milioni di euro.
Un fallimento della compagnia avrebbe avuto un impatto limitato sul mercato del trasporto aereo italiano, dato che ormai l’83 per cento dei passeggeri è trasportato da vettori concorrenti di Alitalia; le rotte redditizie sarebbero effettuate da altre compagnie, mentre quelle non redditizie sono già garantite dagli oneri di servizio pubblico che agiscono a livello Comunitario.
Il Piano Prato, dal nome dell’ex amministratore delegato di Alitalia, tanto criticato nei mesi scorsi prevedeva una diminuzione delle rotte intercontinentali e la scelta di un unico “hub”. Il piano Fenice, tanto supportato politicamente e dai sindacati Confederali, riduce di almeno il 10 per cento il numero delle rotte verso le destinazioni intercontinentali rispetto al Piano Prato, sia nel caso arrivi AirFrance che Lufthansa come partner internazionale.
Per quanto riguarda il partner internazionale, che quasi certamente tra 5 anni diventerà azionista di maggioranza della nuova compagnia italiana perché il mercato va verso una concentrazione, è necessario per la CAI.
A questo punto non deve essere più la politica a fare scelte industriali, ma deve essere lasciato spazio ai nuovi imprenditori.
Il Governo dovrebbe invece agire invece per liberalizzare il trasporto aereo intercontinentale rivedendo gli accordi bilaterali affinché il mercato possa continuare il proprio sviluppo. La soluzione tutta italiana non solo costa miliardi di euro ai contribuenti, ma riduce anche gli spazi per la concorrenza.
Il mercato trova sempre meno spazio ed tipico dell’Italia che una scelta coraggiosa quale il fallimento non sia stata nemmeno presa in considerazione.
La trattativa privata rischia di penalizzare il contribuente e i creditori di Alitalia. La valutazione del valore degli asset acquistati dalla CAI non verrà definito dalle forze del mercato, ma da una decisione presa dal commissario straordinario di Alitalia. Il valore degli slot posseduti dall’ex vettore di bandiera è di almeno mezzo miliardo di euro e si auspica che venga fatta un’offerta che dia il giusto valore. Attualmente, le indiscrezioni giornalistiche sembrano invece confermare un’offerta che oscilla tra i 350 e i 450 milioni di euro.
Un fallimento della compagnia avrebbe avuto un impatto limitato sul mercato del trasporto aereo italiano, dato che ormai l’83 per cento dei passeggeri è trasportato da vettori concorrenti di Alitalia; le rotte redditizie sarebbero effettuate da altre compagnie, mentre quelle non redditizie sono già garantite dagli oneri di servizio pubblico che agiscono a livello Comunitario.
Il Piano Prato, dal nome dell’ex amministratore delegato di Alitalia, tanto criticato nei mesi scorsi prevedeva una diminuzione delle rotte intercontinentali e la scelta di un unico “hub”. Il piano Fenice, tanto supportato politicamente e dai sindacati Confederali, riduce di almeno il 10 per cento il numero delle rotte verso le destinazioni intercontinentali rispetto al Piano Prato, sia nel caso arrivi AirFrance che Lufthansa come partner internazionale.
Per quanto riguarda il partner internazionale, che quasi certamente tra 5 anni diventerà azionista di maggioranza della nuova compagnia italiana perché il mercato va verso una concentrazione, è necessario per la CAI.
A questo punto non deve essere più la politica a fare scelte industriali, ma deve essere lasciato spazio ai nuovi imprenditori.
Il Governo dovrebbe invece agire invece per liberalizzare il trasporto aereo intercontinentale rivedendo gli accordi bilaterali affinché il mercato possa continuare il proprio sviluppo. La soluzione tutta italiana non solo costa miliardi di euro ai contribuenti, ma riduce anche gli spazi per la concorrenza.
Il mercato trova sempre meno spazio ed tipico dell’Italia che una scelta coraggiosa quale il fallimento non sia stata nemmeno presa in considerazione.
sabato 27 settembre 2008
Biancaneve e i 16 nani (Italianerie)
Quasi sul finale del film su Alitalia ne abbiamo finalmente compreso il titolo: Biancaneve e i 16 nani. Biancaneve (Alitalia), in condizioni precarie a causa dei malefici della regina cattiva (il governo che sceglieva con grande perfidia gli amministratori delegati) sta per essere affidata alla amorevoli cure di 16 nani coraggiosi che la proteggeranno sino all'arrivo del principe azzurro. Il regista Silvio B. non ha però ancora scelto chi impersonerà il principe: dopo i provini sono rimasti in lizza un certo Spinetta e un certo Mayrhuber.
Delusione (Veltroneide)
Pare che Veltroni sia molto deluso. Avrebbe voluto essere lui al posto di Berlusconi a pagare con soldi pubblici Colaninno & soci per fare in modo che si comprassero Alitalia.
Aggiungi un posto a tavola (Veltroneide)
Dopo essere riuscito, grazie a un invito a pranzo, a mettere d'accordo Colaninno ed Epifani su Alitalia pare che Veltroni abbia già in mente i prossimi ospiti: Ahmadinejad e Bush.
venerdì 26 settembre 2008
A Gattusolandia...
...non sanno come spendere i soldi.[HT: The Sports Economist]
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Quesiti mattutini
Con Gheddafi un "patto" da cinque miliardi di dollari
Sarà mica un aiuto di stato per interposta persona?
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giovedì 25 settembre 2008
L'idea chiave del piano Fenice è completamente sbagliata (Italianerie)
Il piano Fenice si regge su un’unica idea fondamentale che purtroppo è sbagliata: la possibilità di aumentare in maniera consistente la produttività degli aerei della nuova Alitalia operanti sul breve e medio raggio; associata ad un incremento quasi equivalente della produttività dei dipendenti permetterebbe un notevole miglioramento del rapporto ricavi operativi/costi operativi e il riequilibrio economico finanziario dell’azienda nell’arco di un triennio. Contrariamente a quanto ho avuto occasione di scrivere in precedenza il piano Fenice non incrementa in maniera consistente le tariffe della nuova Alitalia, non riduce drasticamente, almeno all’apparenza, la concorrenza sul mercato del trasporto aereo, non lascia a terra nove milioni di clienti, non farà viaggiare i passeggeri uno sopra l’altro e intende inoltre riportare l’azienda in attivo.
La quadratura del cerchio tra tutti questi vincoli e obiettivi è di una semplicità sconcertante e geniale nello stesso tempo: far volare molto di più gli aerei (e i loro equipaggi, ma con salari più bassi). Nel 2007 gli aerei Alitalia impiegati hanno mediamente volato per 2500 ore. Il piano Fenice prevede che tale valore aumenti dapprima a 3000 ore anno e successivamente a 3300, con un incremento complessivo del 32%. Questo risultato verrebbe realizzato integralmente grazie al maggior utilizzo delle macchine impiegate sul breve e medio raggio (Europa, Nord Africa, Medio Oriente) a fronte di una stazionarietà di utilizzo dei pochi aerei ancora adibito al lungo raggio.
Purtroppo da un punto di vista di organizzazione del trasporto aereo un aumento di quelle dimensioni della produttività tecnica degli aerei non è realizzabile. Il piano Fenice, basato su quest’unica idea, non sta pertanto in piedi. Gli aerei, impiegati su collegamenti preesistenti, possono volare di più solo se compiono più voli (visto che la distanza tra ogni coppia di città e il tempo di volo necessario per coprirla è costante). Il maggior numero di voli, annui e quotidiani, deve essere realizzato nella fascia oraria economicamente utile (quella nella quale vi sono passeggeri disponibili a volare) che per il breve raggio è di circa 16 ore al giorno, grosso modo dalle 7 di mattina alle 23 (se un vettore organizzasse un volo da Milano a Roma alle 3 di mattina non avrebbe nessun cliente a bordo). Quanti voli si possono fare nel breve raggio in quella fascia temporale? Anzi, quante coppie di voli, visto che a fine giornata ogni velivolo ritorna alla sua base? Lo standard per il breve raggio è di tre coppie di voli, ciò di sei voli quotidiani. Se si vuole volare di più si deve passare a quattro coppie di voli, cioè a otto voli quotidiani e in questo caso l’incremento è proprio del 33%.
E’ possibile realizzare quattro coppie di voli in una fascia complessiva di 16 ore? Si, ma solo a condizione che la durata di ogni volo sommata al tempo a terra per sbarco, verifiche della macchina, rifornimento e imbarco non ecceda in alcun modo le due ore. Questo vuol dire che sui collegamenti dall’Italia verso il resto d’Europa è sostanzialmente impossibile e che su collegamenti interni è forse possibile ma solo su tratte brevissime che utilizzano aeroporti non congestionati e in grado di non trattenere troppo a terra gli aerei. In sostanza è forse possibile ma solo su una percentuale limitatissima dei collegamenti e non sulla generalità, come invece incorporato nel piano Fenice. Applicando l’incremento di produttività tecnica previsto dal piano Fenice, i voli medi giornalieri per velivolo passerebbero dai 5,8 di Alitalia ai 7,5 della Cai. Purtroppo per Cai persino Ryanair riesce a fare in media solo 6 voli al giorno.
Ma se lo sono chiesto gli estensori del piano Fenice come mai questa loro bril-lantissima idea non è venuta prima a Spinetta di Air France-Klm nel piano AliFrance del marzo 2008, a Mayrhuber di Lufthansa e neppure al tirchissimo O’Leary di Ryanair per la sua compagnia?
Il testo integrale della mia recensione della Grande Opera al Teatro Fenice è pubblicato, assieme ad una tabella con i dati più significativi, sul Sussidiario.
La quadratura del cerchio tra tutti questi vincoli e obiettivi è di una semplicità sconcertante e geniale nello stesso tempo: far volare molto di più gli aerei (e i loro equipaggi, ma con salari più bassi). Nel 2007 gli aerei Alitalia impiegati hanno mediamente volato per 2500 ore. Il piano Fenice prevede che tale valore aumenti dapprima a 3000 ore anno e successivamente a 3300, con un incremento complessivo del 32%. Questo risultato verrebbe realizzato integralmente grazie al maggior utilizzo delle macchine impiegate sul breve e medio raggio (Europa, Nord Africa, Medio Oriente) a fronte di una stazionarietà di utilizzo dei pochi aerei ancora adibito al lungo raggio.
Purtroppo da un punto di vista di organizzazione del trasporto aereo un aumento di quelle dimensioni della produttività tecnica degli aerei non è realizzabile. Il piano Fenice, basato su quest’unica idea, non sta pertanto in piedi. Gli aerei, impiegati su collegamenti preesistenti, possono volare di più solo se compiono più voli (visto che la distanza tra ogni coppia di città e il tempo di volo necessario per coprirla è costante). Il maggior numero di voli, annui e quotidiani, deve essere realizzato nella fascia oraria economicamente utile (quella nella quale vi sono passeggeri disponibili a volare) che per il breve raggio è di circa 16 ore al giorno, grosso modo dalle 7 di mattina alle 23 (se un vettore organizzasse un volo da Milano a Roma alle 3 di mattina non avrebbe nessun cliente a bordo). Quanti voli si possono fare nel breve raggio in quella fascia temporale? Anzi, quante coppie di voli, visto che a fine giornata ogni velivolo ritorna alla sua base? Lo standard per il breve raggio è di tre coppie di voli, ciò di sei voli quotidiani. Se si vuole volare di più si deve passare a quattro coppie di voli, cioè a otto voli quotidiani e in questo caso l’incremento è proprio del 33%.
E’ possibile realizzare quattro coppie di voli in una fascia complessiva di 16 ore? Si, ma solo a condizione che la durata di ogni volo sommata al tempo a terra per sbarco, verifiche della macchina, rifornimento e imbarco non ecceda in alcun modo le due ore. Questo vuol dire che sui collegamenti dall’Italia verso il resto d’Europa è sostanzialmente impossibile e che su collegamenti interni è forse possibile ma solo su tratte brevissime che utilizzano aeroporti non congestionati e in grado di non trattenere troppo a terra gli aerei. In sostanza è forse possibile ma solo su una percentuale limitatissima dei collegamenti e non sulla generalità, come invece incorporato nel piano Fenice. Applicando l’incremento di produttività tecnica previsto dal piano Fenice, i voli medi giornalieri per velivolo passerebbero dai 5,8 di Alitalia ai 7,5 della Cai. Purtroppo per Cai persino Ryanair riesce a fare in media solo 6 voli al giorno.
Ma se lo sono chiesto gli estensori del piano Fenice come mai questa loro bril-lantissima idea non è venuta prima a Spinetta di Air France-Klm nel piano AliFrance del marzo 2008, a Mayrhuber di Lufthansa e neppure al tirchissimo O’Leary di Ryanair per la sua compagnia?
Il testo integrale della mia recensione della Grande Opera al Teatro Fenice è pubblicato, assieme ad una tabella con i dati più significativi, sul Sussidiario.
sabato 20 settembre 2008
Le parole di Veltroni e i numeri di Colaninno (Italianerie & Veltroneide)
New York, 19 set. (Apcom) - Roberto Colaninno "non l'ho sentito, ma è una persona che stimo: è un imprenditore e fa il suo mestiere". Lo ha detto il segretario Walter Veltroni, parlando delle vicende Alitalia a New York, dove si trova per presentare l'edizione inglese del suo libro "La scoperta dell'alba".
Non condivido la fiducia di Veltroni nell'imprenditore Colaninno. Un imprenditore dovrebbe predisporre piani d'impresa ineccepibili, a maggior ragione se implicano oneri per la finanza pubblica. Il piano Cai-Intesa, invece, non solo non è stato valutato da nessun advisor indipendente prima che il governo se ne facesse garante in maniera totalmente acritica verso i media e l'opinione pubblica ma i pochi numeri pubblicati sono contradditori e di impossibile realizzazione. Il piano prevede infatti una consistente riduzione degli aerei utilizzati dalla nuova compagnia: 137 nel primo anno di attività, destinati a salire poco sopra i 150 negli anni successivi, a fronte di oltre 240 impiegati complessivamente da Alitalia e AirOne nel 2007. La riduzione è consistente e supera il 40%, così come quella del personale (da 21.500 occupati complessivi delle due aziende a 12.500 dipendenti della nuova compagnia più 1.500-2.000 esternalizzazioni).
A fronte di una diminuzione così consistente nei fattori produttivi impiegati il fatturato e i passeggeri trasportati si ridurrebbero invece, secondo i numeri indicati dal piano, in misura trascurabile: il fatturato previsto nel primo anno di attività è indicato dai media in 4,3 miliardi di euro (destinati a crescere negli anni successivi sino a 5,2 miliardi) mentre il dato aggregato di Alitalia e AirOne era nel 2007 di 4,9 miliardi; inoltre, a fronte dei 31,5 milioni di passeggeri totali di Alitalia e AirOne nel 2007, trasportati da oltre 240 velivoli, ve ne sarebbero ora, sempre secondo i media, 28 milioni nel primo anno trasportati da appena 137 aerei. La mia stima, invece, è che con soli 137 aerei non si possano superare i 22 milioni di passeggeri anno (pur conteggiando una crescita strepitosa del tasso di occupazione dei posti) e anche qualora tutti gli aerei viaggiassero sempre con tutti i sedili occupati non si potrebbero superare i 26 milioni (visto che non si possono trasportare persone in piedi, nella stiva o sulle ali).
I dati inclusi nel piano Cai incorporano incrementi strepitosi di produttività degli aeromobili: con 28 milioni di passeggeri la produttività media dei velivoli sarebbe di 204 mila viaggiatori annui mentre nelle due vecchie compagnie era (nel 2007) solo di 130 mila passeggeri. L’aumento di produttività fisica risulterebbe del 58%. Un valore analogo per quanto riguarda la produttività in valore: mentre nel 2007 un aereo delle due compagnie procurava in media 20 milioni di euro di ricavi, già nel primo anno di attività della nuova Alitalia ne porterebbe a casa 31 milioni (il 56% in più). Risultati strabiliante, non c’è che dire, per degli imprenditori che non si sono mai occupati in precedenza di trasporto aereo. Pare che Spinetta e Mayrhuber abbiano promesso ai loro azionisti di cedere le ripettive poltrone in Ai France-Klm e Lufthansa a Colaninno e Sabelli se effettivamente riusciranno a raggiungere questi risultati.
Non condivido la fiducia di Veltroni nell'imprenditore Colaninno. Un imprenditore dovrebbe predisporre piani d'impresa ineccepibili, a maggior ragione se implicano oneri per la finanza pubblica. Il piano Cai-Intesa, invece, non solo non è stato valutato da nessun advisor indipendente prima che il governo se ne facesse garante in maniera totalmente acritica verso i media e l'opinione pubblica ma i pochi numeri pubblicati sono contradditori e di impossibile realizzazione. Il piano prevede infatti una consistente riduzione degli aerei utilizzati dalla nuova compagnia: 137 nel primo anno di attività, destinati a salire poco sopra i 150 negli anni successivi, a fronte di oltre 240 impiegati complessivamente da Alitalia e AirOne nel 2007. La riduzione è consistente e supera il 40%, così come quella del personale (da 21.500 occupati complessivi delle due aziende a 12.500 dipendenti della nuova compagnia più 1.500-2.000 esternalizzazioni).
A fronte di una diminuzione così consistente nei fattori produttivi impiegati il fatturato e i passeggeri trasportati si ridurrebbero invece, secondo i numeri indicati dal piano, in misura trascurabile: il fatturato previsto nel primo anno di attività è indicato dai media in 4,3 miliardi di euro (destinati a crescere negli anni successivi sino a 5,2 miliardi) mentre il dato aggregato di Alitalia e AirOne era nel 2007 di 4,9 miliardi; inoltre, a fronte dei 31,5 milioni di passeggeri totali di Alitalia e AirOne nel 2007, trasportati da oltre 240 velivoli, ve ne sarebbero ora, sempre secondo i media, 28 milioni nel primo anno trasportati da appena 137 aerei. La mia stima, invece, è che con soli 137 aerei non si possano superare i 22 milioni di passeggeri anno (pur conteggiando una crescita strepitosa del tasso di occupazione dei posti) e anche qualora tutti gli aerei viaggiassero sempre con tutti i sedili occupati non si potrebbero superare i 26 milioni (visto che non si possono trasportare persone in piedi, nella stiva o sulle ali).
I dati inclusi nel piano Cai incorporano incrementi strepitosi di produttività degli aeromobili: con 28 milioni di passeggeri la produttività media dei velivoli sarebbe di 204 mila viaggiatori annui mentre nelle due vecchie compagnie era (nel 2007) solo di 130 mila passeggeri. L’aumento di produttività fisica risulterebbe del 58%. Un valore analogo per quanto riguarda la produttività in valore: mentre nel 2007 un aereo delle due compagnie procurava in media 20 milioni di euro di ricavi, già nel primo anno di attività della nuova Alitalia ne porterebbe a casa 31 milioni (il 56% in più). Risultati strabiliante, non c’è che dire, per degli imprenditori che non si sono mai occupati in precedenza di trasporto aereo. Pare che Spinetta e Mayrhuber abbiano promesso ai loro azionisti di cedere le ripettive poltrone in Ai France-Klm e Lufthansa a Colaninno e Sabelli se effettivamente riusciranno a raggiungere questi risultati.
Veltroni da immobile a immobiliare (Veltroneide)
Veltroni da immobile (politicamente) a immobiliare: a Manhattan, grazie ai diritti d'autore sul suo libro sulla scoperta dell'alba, ha comperato un appartamento destinato a ospitare il soggiorno di studio della figlia. Pare che alla notizia numerosi elettori del PD, che non percepiscono diritti d'autore e fanno fatica a mantenere i figli pur nelle scassate università italiane, abbiamo immediatamente contattato Di Pietro. A quando un libro di Veltroni sulla scoperta del come si fa opposizione?
Veltroni scopre l'alba (Veltroneide)
Veltroni vola a New York per scoprire l'alba. 59 milioni di italiani, rimasti in patria a causa del tramonto (*), si consolano a loro spese (**) guardandolo su tutte le reti Rai.
(*) Inteso come declino economico degli italiani
(**) Grazie al canone
(*) Inteso come declino economico degli italiani
(**) Grazie al canone
Veltroni vola Alitalia (Veltroneide)
Di fronte a un pubblico di italiani Veltroni ha presentato a New York il suo libro sulla scoperta dell'alba, è stato intervistato da giornalisti italiani e ripreso (da angolazioni diverse) da tre troupe italiane della Tv di stato (inviate a spese dei contribuenti che invece non hanno potuto muoversi da casa per ragioni economiche). Molti hanno commentato che se la presentazione fosse avvenuta a Busto Arsizio Veltroni avrebbe avuto più pubblico. In realtà poiché tutti gli interessati hanno volato Alitalia, c'è da credere che questo sia l'ultimo tentativo di salvare la compagnia di bandiera.
Veltroni (Dizionario degli italiani)
Veltroni. Intellettuale e scrittore italiano molto noto anche negli Stati Uniti. Per hobby dirige un grande partito politico e nel tempo libero, tra una presentazione letteraria e un festival cinematografico, si oppone alla maggioranza che a tempo pieno (s)governa l'Italia.
Veltroneide (Italianerie)
Questo fine settimana l'appuntamento con le 'italianerie' (cazzate di bandiera, idiozie tricolori, dichiarazioni, comportamenti e decisioni 'ad minchiam' dei protagonisti della politica e dell'economia nazionale) è dedicato in maniera monografica a Walter Veltroni e alla sua visita negli States. I post seguenti, pertanto, compongono una 'Veltroneide'.
Mi occuperò prossimamente del centrodestra, dei sindacati aviatori e della CAI, sperando nel frattempo in un Cay-pass che permetta una soluzione di mercato alla crisi della compagnia di bandiera.
Mi occuperò prossimamente del centrodestra, dei sindacati aviatori e della CAI, sperando nel frattempo in un Cay-pass che permetta una soluzione di mercato alla crisi della compagnia di bandiera.
venerdì 19 settembre 2008
Alitalia: un’ottima “partecipazione” Statale
La Compagnia Aerea Italiana è fuggita da Alitalia e dalle sue nove sigle sindacali. Non era un esito impossibile da prevedere, ma le possibilità che si potesse avverare non erano troppo elevate.
Bisogna tuttavia ricordare che in Italia nulla è definivo e quindi forse è ancora giusto utilizzare il condizionale.
Quali sarebbero dunque le soluzioni alternative?
Il commissario straordinario di Alitalia Augusto Fantozzi deve fare il possibile affinché l’operatività dell’azienda sia perpetuata; questo non può non avvenire che tramite con la messa in cassa integrazione di almeno 3 mila dipendenti e con la vendita immediata di asset non strategici dell’azienda. L’azione avverrebbe comunque con notevole ritardo in quanto il piano dell’ex amministratore delegato Maurizio Prato, presentato il 30 agosto del 2007 prevdeva a partire da aprile 2008 una diminuzione di circa 40 aerei dalla flotta di Alitalia.
Il management della compagnia di bandiera, totalmente inefficace, non solo non ha provveduto a tagliare i costi del personale, ma non sembra aver venduto gli aerei inutilizzati (non c’è certezza in quanto non è stato pubblicato il bilancio del secondo semestre 2008 della compagnia).
L’azionista di maggioranza, il Ministro dell’Economia, non sembra aver vigilato molto attentamente sull’operato degli amministratori delegati e del commissario.
La privatizzazione di Alitalia era necessaria tanto quanto il fallimento, anche se questo ultimo sarebbe dovuto avvenire almeno cinque anni fa quando ormai era chiaro che l’azienda non era in grado di competere su un mercato estremamente concorrenziale.
La vendita del vettore di bandiera ha mostrato pienamente l’incapacità dello Stato di agire come un imprenditore.
Il Governo Prodi nel dicembre del 2006 decise di privatizzare l’azienda imponendo tuttavia dei paletti nocivi per un’asta competitiva anche a causa delle ali più estremi della sua maggioranza. Falliti i tentativi di vendita, nell’autunno s’iniziò un nuovo processo che portò all’individuazione di due possibili acquirenti: Air France-KLM e AirOne. Tra le due cordate, la proposta francese era certamente migliore di quella abruzzese, ma i veti sindacali, in piena campagna elettorale, fecero scappare i francesi ad inizio aprile del corrente anno. Poco dopo si raggiunse l’apice della farsa: un “perfetto” prestito bipartisan che doveva permettere alla compagnia dodici mesi di sopravvivenza, che tuttavia si configurava come un chiaro aiuto di Stato fu immesso nelle “casse bucate” di Alitalia.
La terza fase di privatizzazione e la scelta di Intesa San Paolo come advisor iniziò così nel peggiore dei modi e si concluse con il commissariamento italiano, con un decreto legge che limita la concorrenza e con una cordata italiana debole che non ha voluto comunque “affondare” con i sindacati.
Il processo di vendita non ha portato ad alcuna soluzione, ma nel frattempo l’azienda ha bruciato circa 1,1 miliardi di euro.
Il fallimento è vicino, ma il commissario ha i mezzi per evitarlo. Il principale strumento non è la cassa, che presumibilmente è vicina ai 50 milioni di euro, quanto gli asset della compagnia che possono essere venduti.
È necessario che entrino “gli stranieri” tanto osteggiati dai politici e dai sindacati; essi presumibilmente acquisteranno i pezzi di valore di Alitalia.
Si spera che la procedura di vendita del Commissario sia più trasparente e che tuteli maggiormente i creditori della compagnia e i contribuenti italiani rispetto a come è stata condotta fino ad ora. La valutazione da parte di CAI, che investiva solo un miliardo di euro, di Alitalia si aggirava intorno ai 400 milioni di euro; questa cifra tuttavia non arrivava nemmeno al valore degli slot della compagnia di bandiera (il 26 dicembre 2007 Alitalia ha venduto tre coppie di slot a Londra Heathrow per 54 milioni di euro).
Il “piano B” non è escludibile e vedrebbe alcuni “capitani coraggiosi” con un forte partner straniero.
Il fallimento molto probabilmente costerà meno della soluzione CAI. Gli asset verranno valutati maggiormente; il mercato aereo italiano è cresciuto di più del 100 per cento negli ultimi dieci anni ed Alitalia vale circa il 17 per cento della market share e i dipendenti in esubero dell’ex compagnia di bandiera verranno riassorbiti dal mercato.
AirOne, pur essendo una compagnia in difficoltà, potrà trarre benefici dal probabile ridimensionamento di Alitalia e tutti i concorrenti troveranno più spazi per svilupparsi.
Alitalia ha bruciato 3,5 miliardi di euro negli ultimi dieci anni, di cui 1,1 miliardi negli ultimi 22 mesi; la creazione della BadCo sarebbe costata tra i 2 e i 3 miliardi di Euro.
Per salvare Alitalia inoltre si è introdotta la possibilità di restringere la concorrenza nel mercato domestico e non si è fatto nulla per liberalizzare le rotte intercontinentali.
Un’ottima “partecipazione” Statale…
Bisogna tuttavia ricordare che in Italia nulla è definivo e quindi forse è ancora giusto utilizzare il condizionale.
Quali sarebbero dunque le soluzioni alternative?
Il commissario straordinario di Alitalia Augusto Fantozzi deve fare il possibile affinché l’operatività dell’azienda sia perpetuata; questo non può non avvenire che tramite con la messa in cassa integrazione di almeno 3 mila dipendenti e con la vendita immediata di asset non strategici dell’azienda. L’azione avverrebbe comunque con notevole ritardo in quanto il piano dell’ex amministratore delegato Maurizio Prato, presentato il 30 agosto del 2007 prevdeva a partire da aprile 2008 una diminuzione di circa 40 aerei dalla flotta di Alitalia.
Il management della compagnia di bandiera, totalmente inefficace, non solo non ha provveduto a tagliare i costi del personale, ma non sembra aver venduto gli aerei inutilizzati (non c’è certezza in quanto non è stato pubblicato il bilancio del secondo semestre 2008 della compagnia).
L’azionista di maggioranza, il Ministro dell’Economia, non sembra aver vigilato molto attentamente sull’operato degli amministratori delegati e del commissario.
La privatizzazione di Alitalia era necessaria tanto quanto il fallimento, anche se questo ultimo sarebbe dovuto avvenire almeno cinque anni fa quando ormai era chiaro che l’azienda non era in grado di competere su un mercato estremamente concorrenziale.
La vendita del vettore di bandiera ha mostrato pienamente l’incapacità dello Stato di agire come un imprenditore.
Il Governo Prodi nel dicembre del 2006 decise di privatizzare l’azienda imponendo tuttavia dei paletti nocivi per un’asta competitiva anche a causa delle ali più estremi della sua maggioranza. Falliti i tentativi di vendita, nell’autunno s’iniziò un nuovo processo che portò all’individuazione di due possibili acquirenti: Air France-KLM e AirOne. Tra le due cordate, la proposta francese era certamente migliore di quella abruzzese, ma i veti sindacali, in piena campagna elettorale, fecero scappare i francesi ad inizio aprile del corrente anno. Poco dopo si raggiunse l’apice della farsa: un “perfetto” prestito bipartisan che doveva permettere alla compagnia dodici mesi di sopravvivenza, che tuttavia si configurava come un chiaro aiuto di Stato fu immesso nelle “casse bucate” di Alitalia.
La terza fase di privatizzazione e la scelta di Intesa San Paolo come advisor iniziò così nel peggiore dei modi e si concluse con il commissariamento italiano, con un decreto legge che limita la concorrenza e con una cordata italiana debole che non ha voluto comunque “affondare” con i sindacati.
Il processo di vendita non ha portato ad alcuna soluzione, ma nel frattempo l’azienda ha bruciato circa 1,1 miliardi di euro.
Il fallimento è vicino, ma il commissario ha i mezzi per evitarlo. Il principale strumento non è la cassa, che presumibilmente è vicina ai 50 milioni di euro, quanto gli asset della compagnia che possono essere venduti.
È necessario che entrino “gli stranieri” tanto osteggiati dai politici e dai sindacati; essi presumibilmente acquisteranno i pezzi di valore di Alitalia.
Si spera che la procedura di vendita del Commissario sia più trasparente e che tuteli maggiormente i creditori della compagnia e i contribuenti italiani rispetto a come è stata condotta fino ad ora. La valutazione da parte di CAI, che investiva solo un miliardo di euro, di Alitalia si aggirava intorno ai 400 milioni di euro; questa cifra tuttavia non arrivava nemmeno al valore degli slot della compagnia di bandiera (il 26 dicembre 2007 Alitalia ha venduto tre coppie di slot a Londra Heathrow per 54 milioni di euro).
Il “piano B” non è escludibile e vedrebbe alcuni “capitani coraggiosi” con un forte partner straniero.
Il fallimento molto probabilmente costerà meno della soluzione CAI. Gli asset verranno valutati maggiormente; il mercato aereo italiano è cresciuto di più del 100 per cento negli ultimi dieci anni ed Alitalia vale circa il 17 per cento della market share e i dipendenti in esubero dell’ex compagnia di bandiera verranno riassorbiti dal mercato.
AirOne, pur essendo una compagnia in difficoltà, potrà trarre benefici dal probabile ridimensionamento di Alitalia e tutti i concorrenti troveranno più spazi per svilupparsi.
Alitalia ha bruciato 3,5 miliardi di euro negli ultimi dieci anni, di cui 1,1 miliardi negli ultimi 22 mesi; la creazione della BadCo sarebbe costata tra i 2 e i 3 miliardi di Euro.
Per salvare Alitalia inoltre si è introdotta la possibilità di restringere la concorrenza nel mercato domestico e non si è fatto nulla per liberalizzare le rotte intercontinentali.
Un’ottima “partecipazione” Statale…
16 capitani prudenti e il coraggio del mercato (Italianerie)
Il piano Fenice era antitetico al mercato. Nel mercato, infatti, chi valuta un bene (che può anche essere un'azienda) più del prezzo richiesto lo compra e chi lo valuta di meno lo vende. Nel caso Alitalia, invece:
1) a Air France che era disponibile a pagarla, accollandosi tutti i debiti, è stato impedito di comperarla;
2) a CAI, che non era disponibile a pagarla, è stato 'tagliato' un abito normativo su misura e permesso di acquistare 'à la carte' solo gli asset più interessanti e di lasciare i debiti alla 'bad company'.
Il piano inoltre:
1) imponeva ai contribuenti (che ne avrebbero fatto volentieri a meno) di pagare per sette anni senza metter piede sugli aerei l'80% dello stipendio a 3 o 6 mila dipendenti considerati da CAI in esubero. Invece:
2) vi sono diversi milioni di consumatori tuttora disposti, su base volontaria, a pagare il 100% dello stipendio alle stesse persone, che non considerano in esubero, purchè siano in grado di farli viaggiare in aereo alle tariffe consuete (questa disponibilità è nota in economia come 'domanda').
Ora che con la rinuncia di CAI la new company si è dissolta, l'altra compagnia, quella dei contribuenti, è un pò meno bad e il mercato si è preso una bella rivincita: ha bloccato i 16 imprenditori di stato (di fronte ai quali noi liberisti dovremmo rendere omaggio alle vecchie partecipazioni statali) e per farlo si è avvalso di 6 sindacati dei quali tutto si può dire tranne che del mercato siano amici (e forse dopo questa esperienza un pò meno nemici diverranno, se sono in grado di apprendere).
Un bel contrappasso, non c'è che dire: se Alitalia fallirà, come non speriamo, sarà una soluzione di mercato e se Alitalia sarà finalmente venduta prima del fallimento a chi forse è ancora disponibile a pagare per averla, sarà un'altra soluzione di mercato (meno traumatica della precedente). In ogni caso, e con grande soddisfazione, la bandiera tricolore possiamo ammainarla dai velivoli per usarla in futuro in circostanze più adeguate.
1) a Air France che era disponibile a pagarla, accollandosi tutti i debiti, è stato impedito di comperarla;
2) a CAI, che non era disponibile a pagarla, è stato 'tagliato' un abito normativo su misura e permesso di acquistare 'à la carte' solo gli asset più interessanti e di lasciare i debiti alla 'bad company'.
Il piano inoltre:
1) imponeva ai contribuenti (che ne avrebbero fatto volentieri a meno) di pagare per sette anni senza metter piede sugli aerei l'80% dello stipendio a 3 o 6 mila dipendenti considerati da CAI in esubero. Invece:
2) vi sono diversi milioni di consumatori tuttora disposti, su base volontaria, a pagare il 100% dello stipendio alle stesse persone, che non considerano in esubero, purchè siano in grado di farli viaggiare in aereo alle tariffe consuete (questa disponibilità è nota in economia come 'domanda').
Ora che con la rinuncia di CAI la new company si è dissolta, l'altra compagnia, quella dei contribuenti, è un pò meno bad e il mercato si è preso una bella rivincita: ha bloccato i 16 imprenditori di stato (di fronte ai quali noi liberisti dovremmo rendere omaggio alle vecchie partecipazioni statali) e per farlo si è avvalso di 6 sindacati dei quali tutto si può dire tranne che del mercato siano amici (e forse dopo questa esperienza un pò meno nemici diverranno, se sono in grado di apprendere).
Un bel contrappasso, non c'è che dire: se Alitalia fallirà, come non speriamo, sarà una soluzione di mercato e se Alitalia sarà finalmente venduta prima del fallimento a chi forse è ancora disponibile a pagare per averla, sarà un'altra soluzione di mercato (meno traumatica della precedente). In ogni caso, e con grande soddisfazione, la bandiera tricolore possiamo ammainarla dai velivoli per usarla in futuro in circostanze più adeguate.
lunedì 15 settembre 2008
What Antitrust stands for
President Nixon in 1971 discussed intimidating the nation's three major television networks by keeping the constant threat of an antitrust suit hanging over them. In a July 2, 1971 taped recorded discussion, aide Charles W. Colson told Nixon that whether filing an antitrust case against ABC, NBC and CBS "is good or not is perhaps not the major political consideration. But keeping this case in a pending status gives us one hell of a club on an economic issue that means a great deal to those three networks ... something of a sword of Damocles." Nixon responded, "Our gain is more important than the economic gain. We don't give a goddam about the economic gain. Our game here is solely political. ... As far as screwing them is concerned, I'm very glad to do it"Maurice E. Stucke, "Does the Rule of Reason Violate the Rule of Law?", UC Davis Law Review, Vol. 42, No. 5, 2009
"If the threat of screwing them is going to help us more with their programming than
doing it, then keep the threat," said Nixon. "Don't screw them now. [Otherwise] they'll figure that we're done." As for the antitrust actions, the White House kept the DOJ from filing suit until April 1972, when the government accused the networks of restraining trade and monopolizing prime-time entertainment with their own programs. The suits were dismissed without prejudice in 1974 after the government was unable to identify the requested documents.
[HT: Antitrust & Competition Policy Blog]
domenica 14 settembre 2008
Ex volo (Italianerie)
Fantozzi (il Commissario Alitalia) ha dichiarato che da lunedì prossimo i voli Alitalia sono a rischio cancellazione per la possibilità che le compagnie petrolifere non forniscano più il carburante. Dopo questo annuncio è assai più probabile che a rimanere vuoti non siano i serbatoi ma i sedili (per la fuga della clientela verso vettori gestiti da amministratori più prudenti nel linguaggio). Che il Commissario Fantozzi sia in corsa per il premio "Ragionier Fantozzi"?
sabato 13 settembre 2008
Ex concorrenza (Italianerie)
Il ministro Tremonti ha sostenuto nell'audizione parlamentare di mercoledì scorso che il piano Fenice non restringe la concorrenza sulla tratta Milano-Roma poichè dal prossimo anno la vera concorrenza sarà quella del treno ad alta velocità. Nel pensiero di Tremonti, in sostanza, la concorrenza è ammissibile ma solo se si realizza tra carrozzoni di stato (o ex tali).
venerdì 12 settembre 2008
Ex cattedra (Italianerie)
Dopo l'obbligo del grembiule per gli alunni e la reindroduzione del maestro unico siamo in grado di prevedere la prossima fondamentale e definitiva riforma del ministro Gelmini: l'obbligo del grembiule per il maestro unico.
N.B.: Italianerie: idiozie di bandiera; dichiarazioni o scelte pubbliche "junk", di nessuna efficacia ma di particolare impatto mediatico; nel linguaggio di Fantozzi (il ragioniere) "boiate pazzesche" tenacemente perseguite da decisori/personaggi pubblici.
N.B.: Italianerie: idiozie di bandiera; dichiarazioni o scelte pubbliche "junk", di nessuna efficacia ma di particolare impatto mediatico; nel linguaggio di Fantozzi (il ragioniere) "boiate pazzesche" tenacemente perseguite da decisori/personaggi pubblici.
lunedì 8 settembre 2008
Conflitti ad alta quota?
Su La Stampa del 3 settembre ("Il conflitto d'interessi vola Alitalia"), i redattori dell'eccellente noiseFromAmerika denunciavano il conflitto d'interessi che investirebbe Emma Marcegaglia e Roberto Colaninno nella vicenda del salvataggio della compagnia di bandiera. Contrariamente alla norma, i loro argomenti non mi persuadono. Proverò a spiegare perché.
La situazione della presidente di Confindustria mi pare piuttosto chiara. Perché si possa parlare di conflitto d'interessi, non bastano gli interessi: serve, appunto, un conflitto. Nel caso della signora Marcegaglia, non è ben chiaro dove il conflitto risieda. Che i suoi personali interessi confliggano con quelli generali dell'associazione da lei rappresentata è tutt'altro che dimostrato: e soprattutto, non può essere valutato da altri che dai membri di Confindustria. Ancor meno sostenibile è l'imputazione di un conflitto con interessi pubblici. Sebbene i redattori di nFA affermino che «in buona sostanza, la presidenza di Confindustria è una importante carica pubblica», Confindustria è e rimane un ente privato che persegue fini privati. Più probabilmente, l'allusione è all'influenza che l'associazione degl'industriali (e le altre altre "parti sociali") esercitano - nel nostro Paese - sulla messa a punto degl'indirizzi di politica economica del governo: ma è con tale perversione del gioco democratico che bisogna fare i conti, non con le (legittime) aspirazioni del presidente di turno.
Peraltro, leggendo l'articolo, si sarebbe indotti a credere che sino a ieri la Marcegaglia abbia fatto la missionaria in Zaire, e non la dirigente di un grande gruppo siderurgico. A meno che la direzione di Confindustria non venga affidata ad una showgirl, non può sorprendere che il presidente degli imprenditori sia portatore d'interessi... imprenditoriali. In tal senso, non è facile capire come la partecipazione in una compagnia aerea differisca dall'impegno nell'acciaio, o in un'azienda dolciaria (o, per dire, dal coinvolgimento in un'impresa automobilistica). Certo, la sospensione ad hoc della normativa antitrust è una considerevole peculiarità del caso Alitalia, ma non sembra affatto che essa si possa addebitare all'opera della signora Marcegaglia.
Quanto a Roberto e Matteo Colaninno, è in primo luogo difficile sostenere che il ministro ombra per lo Sviluppo Economico abbia svolto alcun intervento attivo nella vicenda Alitalia. La circostanza è, peraltro, trascurabile. Come gli economisti di nFA riconoscono, non ci dovremmo (pre)occupare del presunto conflitto d'interessi se 1) Alitalia operasse in condizioni di libero mercato e 2) la vendita si fosse ispirata a criteri di mercato: se cioè, aggiungo io, si fosse ceduta l'azienda al miglior offerente senza porre alcuna condizione, invece di far ricorso al patriottismo (disinteressato?) di alcuni "capitani coraggiosi". Ma, ancora una volta, allora, siamo al cospetto di scelte governative criticabili, più che di un conflitto d'interessi da sanare.
Come sottolineano (da quarant'anni) la teoria della Public Choice e (da ben prima) il comune buon senso, gli uomini non si spogliano dei propri interessi per il fatto stesso di assurgere a cariche pubbliche. La natura dell'uomo è la medesima, tanto che s'incarni in un salumiere od in un assessore comunale. Ma la via maestra per porre freno alle relazioni incestuose tra politica ed attori economici non consiste nell'evirare quest'ultimi, quanto nel ridurre l'incidenza delle tentazioni. Piuttosto che richiamare ad un improbabile galateo del potere - della cui legittimità si può dubitare in primo luogo - è dunque opportuno intervenire sul contesto istituzionale: restringendo considerevolmente il perimetro del politico e restituendo al mercato ciò che è proprio del mercato.
La situazione della presidente di Confindustria mi pare piuttosto chiara. Perché si possa parlare di conflitto d'interessi, non bastano gli interessi: serve, appunto, un conflitto. Nel caso della signora Marcegaglia, non è ben chiaro dove il conflitto risieda. Che i suoi personali interessi confliggano con quelli generali dell'associazione da lei rappresentata è tutt'altro che dimostrato: e soprattutto, non può essere valutato da altri che dai membri di Confindustria. Ancor meno sostenibile è l'imputazione di un conflitto con interessi pubblici. Sebbene i redattori di nFA affermino che «in buona sostanza, la presidenza di Confindustria è una importante carica pubblica», Confindustria è e rimane un ente privato che persegue fini privati. Più probabilmente, l'allusione è all'influenza che l'associazione degl'industriali (e le altre altre "parti sociali") esercitano - nel nostro Paese - sulla messa a punto degl'indirizzi di politica economica del governo: ma è con tale perversione del gioco democratico che bisogna fare i conti, non con le (legittime) aspirazioni del presidente di turno.
Peraltro, leggendo l'articolo, si sarebbe indotti a credere che sino a ieri la Marcegaglia abbia fatto la missionaria in Zaire, e non la dirigente di un grande gruppo siderurgico. A meno che la direzione di Confindustria non venga affidata ad una showgirl, non può sorprendere che il presidente degli imprenditori sia portatore d'interessi... imprenditoriali. In tal senso, non è facile capire come la partecipazione in una compagnia aerea differisca dall'impegno nell'acciaio, o in un'azienda dolciaria (o, per dire, dal coinvolgimento in un'impresa automobilistica). Certo, la sospensione ad hoc della normativa antitrust è una considerevole peculiarità del caso Alitalia, ma non sembra affatto che essa si possa addebitare all'opera della signora Marcegaglia.
Quanto a Roberto e Matteo Colaninno, è in primo luogo difficile sostenere che il ministro ombra per lo Sviluppo Economico abbia svolto alcun intervento attivo nella vicenda Alitalia. La circostanza è, peraltro, trascurabile. Come gli economisti di nFA riconoscono, non ci dovremmo (pre)occupare del presunto conflitto d'interessi se 1) Alitalia operasse in condizioni di libero mercato e 2) la vendita si fosse ispirata a criteri di mercato: se cioè, aggiungo io, si fosse ceduta l'azienda al miglior offerente senza porre alcuna condizione, invece di far ricorso al patriottismo (disinteressato?) di alcuni "capitani coraggiosi". Ma, ancora una volta, allora, siamo al cospetto di scelte governative criticabili, più che di un conflitto d'interessi da sanare.
Come sottolineano (da quarant'anni) la teoria della Public Choice e (da ben prima) il comune buon senso, gli uomini non si spogliano dei propri interessi per il fatto stesso di assurgere a cariche pubbliche. La natura dell'uomo è la medesima, tanto che s'incarni in un salumiere od in un assessore comunale. Ma la via maestra per porre freno alle relazioni incestuose tra politica ed attori economici non consiste nell'evirare quest'ultimi, quanto nel ridurre l'incidenza delle tentazioni. Piuttosto che richiamare ad un improbabile galateo del potere - della cui legittimità si può dubitare in primo luogo - è dunque opportuno intervenire sul contesto istituzionale: restringendo considerevolmente il perimetro del politico e restituendo al mercato ciò che è proprio del mercato.
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domenica 7 settembre 2008
L'Europa, la Russia e l'antitrust
Sul Financial Times, Anders Aslund affronta il tema dei rapporti tra l'Europa e la Russia con una serie di argomenti che trovo molto criticabili - oltre che velleitari. La sua proposta è, nella pratica, quella di una "guerra freschina" giocata tutta su una interpretazione piuttosto azzardata delle norme antitrust, e una certa sopravvalutazione della forza (e dell'utilità) dell'Europa. In verità, Aslund parte da una constatazione di grande buon senso: le sanzioni economiche non sono la via giusta, sia per la loro dubbia efficacia, sia perché rischiano di rafforzare le oligarchie russe al potere. Lo studioso suggerisce quindi una strategia più articolata, il cui perno è però l'utilizzo della competition policy contro Gazprom. Non è una richiesta del tutto originale: negli Stati Uniti, la House ha approvato una proposta democratica del tutto simile in chiave anti-Opec, e anche il nostro ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha invocato gli articoli 81-82 del Trattato Ue, ora contro l'Opec, ora contro gli speculatori (qualunque cosa intenda). Rispetto a queste proposte, che sono davvero naif e populiste, quella di Aslund è più elaborata; ma ugualmente poco convincente. Il quadro generale è quello descritto da Massimo Nicolazzi, che ho commentato nel mio post di ieri; mi limiterò, quindi, alle tesi di Aslund. Ne considererò solo due, in quanto le altre tre esulano dalle questioni di politica energetica in senso stretto.
In primis, egli chiede che l'Unione europea sviluppi una politica energetica comune, e che imponga le regole della Carta dell'energia - in particolare su trasparenza, protezione degli investimenti e non discriminazione nell'accesso ai gasdotti - alla Russia. Ci sono molte ragioni per cui l'Europa avrebbe bisogno di una politica energetica comune - la prima che mi viene in mente è che gli investimenti energetici, in un mercato integrato o in via di integrazione, hanno dimensione transazionale; la seconda, più opportunistica, è che almeno Bruxelles la smetterebbe di fare politica energetica per via ambientale o antitrust. E ci sono una marea di buoni argomenti a favore della Carta dell'energia (di cui si è ampiamente occupato Silvio Boccalatte nel nostro libro Sicurezza energetica). Ma un trattato internazionale, normalmente, non lo si può imporre - non se non si è prima vinta una guerra. Occorre creare le condizioni perché la sua ratifica divenga conveniente da entrambe le parti: oggi, semplicemente, quelle condizioni non ci sono, e parte della spiegazione è che le stesse regole della Carta non sono pienamente applicate neppure in alcuni paesi chiave dell'Ue (ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale). Sul filo del paradosso si gioca, invece, la successiva affermazione di Aslund: "un'Europa unita ha un potere contrattuale poiché tutte le pipeline al di fuori dell'ex Unione sovietica si dirigono verso l'Europa". Vero. Se non fosse che (a) nel breve termine l'Europa non può rinunciare a comprare gas dalla Russia, così come la Russia non può rinunciare a vendere gas all'Europa e (b) il gas che transita per le pipeline non viene contrattato o acquistato dall'Ue o dagli Stati membri, ma dalle compagnie operanti sul mercato europeo (molte delle quali controllate dai rispettivi governi, ok, ma comunque partecipate dai privati e attive sui listini europei). Non si può avocare all'Unione il potere di fare contratti, svuotando di uno degli elementi essenziali il mercato europeo.
La seconda proposta di Aslund è altrettanto incredibile: "la Commissione europea dovrebbe costringere Gazprom a separare produzione e trasporto e rompere il suo monopolio. Perché la Commissione persegue casi antitrust contro Microsoft ma non contro Gazprom?". La risposta più semplice è: (a) perché è politicamente molto più pagante flettere i muscoli contro un'impresa americana (cioè contro gli Usa, simbolicamente) che contro una russa e (b) perché, date le condizioni dei rispettivi mercati, è probabile che Microsoft (o chi per lei) obbedisca all'Ue, mentre è improbabile che lo faccia Gazprom. Supponiamo, comunque, che il Commissario europeo alla Competizione, Neelie Kroes, apra un procedimento contro Gazprom, lo segua, e condanni il gruppo russo. Che succede, se il monopolista poi non obbedisce? La risposta, la lascio ad Aslund e a chi la pensa come lui, perché tutte le risposte che vengono in mente a me mi fanno ridere. Come ridere mi fa la seguente affermazione di Aslund: Gazprom "dovrebbe riorientare la sua rete di gasdotti al di fuori dei confini russi, abbandonare le discriminazioni di prezzo e terminare la costruzione dei gasdotti North Stream e South Stream". Ma siamo matti? Ok, per la Russia sarebbe un bel guaio, ma nessuno si chiede cosa vorrebbe dire per l'Europa? E, a prescindere da questo, Aslund sembra trascurare che i due nuovi gasdotti vedono la partecipazione attiva di imprese occidentali (tra cui Eni ed E.On) che hanno firmato contratti, investito montagne di denaro, eccetera. Anche io, se potessi scegliere, direi che Nabucco è meglio di South Stream: ma alla fine ciò che conta sono le dure ed eque leggi dell'economia, e sarebbe meglio ascoltare quelle piuttosto che distillare voci dall'aria.
Crossposted @ RealismoEnergetico.org.
In primis, egli chiede che l'Unione europea sviluppi una politica energetica comune, e che imponga le regole della Carta dell'energia - in particolare su trasparenza, protezione degli investimenti e non discriminazione nell'accesso ai gasdotti - alla Russia. Ci sono molte ragioni per cui l'Europa avrebbe bisogno di una politica energetica comune - la prima che mi viene in mente è che gli investimenti energetici, in un mercato integrato o in via di integrazione, hanno dimensione transazionale; la seconda, più opportunistica, è che almeno Bruxelles la smetterebbe di fare politica energetica per via ambientale o antitrust. E ci sono una marea di buoni argomenti a favore della Carta dell'energia (di cui si è ampiamente occupato Silvio Boccalatte nel nostro libro Sicurezza energetica). Ma un trattato internazionale, normalmente, non lo si può imporre - non se non si è prima vinta una guerra. Occorre creare le condizioni perché la sua ratifica divenga conveniente da entrambe le parti: oggi, semplicemente, quelle condizioni non ci sono, e parte della spiegazione è che le stesse regole della Carta non sono pienamente applicate neppure in alcuni paesi chiave dell'Ue (ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale). Sul filo del paradosso si gioca, invece, la successiva affermazione di Aslund: "un'Europa unita ha un potere contrattuale poiché tutte le pipeline al di fuori dell'ex Unione sovietica si dirigono verso l'Europa". Vero. Se non fosse che (a) nel breve termine l'Europa non può rinunciare a comprare gas dalla Russia, così come la Russia non può rinunciare a vendere gas all'Europa e (b) il gas che transita per le pipeline non viene contrattato o acquistato dall'Ue o dagli Stati membri, ma dalle compagnie operanti sul mercato europeo (molte delle quali controllate dai rispettivi governi, ok, ma comunque partecipate dai privati e attive sui listini europei). Non si può avocare all'Unione il potere di fare contratti, svuotando di uno degli elementi essenziali il mercato europeo.
La seconda proposta di Aslund è altrettanto incredibile: "la Commissione europea dovrebbe costringere Gazprom a separare produzione e trasporto e rompere il suo monopolio. Perché la Commissione persegue casi antitrust contro Microsoft ma non contro Gazprom?". La risposta più semplice è: (a) perché è politicamente molto più pagante flettere i muscoli contro un'impresa americana (cioè contro gli Usa, simbolicamente) che contro una russa e (b) perché, date le condizioni dei rispettivi mercati, è probabile che Microsoft (o chi per lei) obbedisca all'Ue, mentre è improbabile che lo faccia Gazprom. Supponiamo, comunque, che il Commissario europeo alla Competizione, Neelie Kroes, apra un procedimento contro Gazprom, lo segua, e condanni il gruppo russo. Che succede, se il monopolista poi non obbedisce? La risposta, la lascio ad Aslund e a chi la pensa come lui, perché tutte le risposte che vengono in mente a me mi fanno ridere. Come ridere mi fa la seguente affermazione di Aslund: Gazprom "dovrebbe riorientare la sua rete di gasdotti al di fuori dei confini russi, abbandonare le discriminazioni di prezzo e terminare la costruzione dei gasdotti North Stream e South Stream". Ma siamo matti? Ok, per la Russia sarebbe un bel guaio, ma nessuno si chiede cosa vorrebbe dire per l'Europa? E, a prescindere da questo, Aslund sembra trascurare che i due nuovi gasdotti vedono la partecipazione attiva di imprese occidentali (tra cui Eni ed E.On) che hanno firmato contratti, investito montagne di denaro, eccetera. Anche io, se potessi scegliere, direi che Nabucco è meglio di South Stream: ma alla fine ciò che conta sono le dure ed eque leggi dell'economia, e sarebbe meglio ascoltare quelle piuttosto che distillare voci dall'aria.
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sabato 6 settembre 2008
AliPassera (Italianerie)
Da Cernobbio l'AD di Intesa Sanpaolo ha duramente bacchettato Marrazzo e Penati: non è appropriato per un'amministrazione pubblica volersi inserire in una profittevole iniziativa privata. E' dunque consigliabile che si rivolgano direttamente al commissario Fantozzi per chiedere di partecipare, con quote di minoranza, alle perdite della bad company.
venerdì 5 settembre 2008
AliFrance (Italianerie)
E' stato smentito che nel 2013 Air France diverrà azionista di maggioranza della nuova Alitalia. Potrebbe infatti accadere nel 2012.
mercoledì 3 settembre 2008
I 12 milioni di passeggeri in esubero del piano Alitalia (Italianerie)
Per dirla con le parole di Fantozzi (il ragioniere, non il commissario Alitalia) il piano della nuova compagnia aerea è una ‘boiata pazzesca’. Infatti non solo lascia a terra dai 6 ai 10 mila dipendenti e ben 110 dei 186 aerei che la compagnia di bandiera utilizzava sino a fine 2007 ma evidenzia persino 10 o 12 milioni di passeggeri in esubero sui 31 trasportati complessivamente da Alitalia e Airone nello scorso anno. Si tratta della prima volta nella ormai plurisecolare storia del capitalismo mondiale che una crisi industriale si verifica non perché gli imprenditori dispongono di fattori produttivi in eccesso (capitale e lavoro) rispetto alla domanda ma bensì a causa dell’eccessivo livello della medesima (il 40% in più del valore desiderato dal produttore).
Il conteggio sui passeggeri in esubero emerge con pochi calcoli a partire dal numero di aerei che la nuova compagnia intende utilizzare: solo 136 contro oltre 240 complessivamente impiegati da Alitalia e Airone sino alla fine del 2007. Quanti passeggeri potrà trasportare la nuova Alitalia nel 2009 rispetto ai 31 che hanno viaggiato nel 2007 con le due compagnie? Se si ipotizza che gli aerei saranno utilizzati con la stessa intensità delle due compagnie aggregate e con identico load factor la risposta è di soli 17 milioni di persone, solo poco più della metà rispetto alla scorso anno. Ovviamente è nell’interesse della compagnia aumentare la produttività degli aeromobili e il load factor: con un tasso di utilizzo degli aerei ex Alitalia più elevato del 10% e a parità di load factor si recupererebbe un milione di passeggeri; un altro milione arriverebbe se il load factor sugli aerei ex Alitalia salisse sino ai livelli di Air France (mission sostanzialmente impossible); altri due milioni se il load factor sugli aerei ex Airone, ora molto basso, salisse ai livelli della vecchia Alitalia (cioè ben 17 punti percentuali in più).
Accogliendo queste ipotesi, assolutamente ottimistiche, la nuova Alitalia potrà al massimo trasportare nel 2009 21 milioni di passeggeri contro gli oltre 31 trasportati nel 2007 complessivamente da Alitalia e Airone (e anche se tutti gli aerei viaggiassero sempre con un load factor al 100% non si potrebbero superare i 25 milioni di viaggiatori). In sostanza 10 milioni di passeggeri (ma più probabilmente 12) non potranno volare nel prossimo anno sulla nuova Alitalia nonostante abbiano dimostrato in passato di essere disponibili a pagare tariffe non propriamente da compagnie low cost. Si tratta di oltre il 10% dei passeggeri che viaggiano sui cieli italiani e di oltre il 25% dei passeggeri che viaggiano su rotte nazionali. Essi non corrono ovviamente il rischio di doversi accampare nelle sedi aeroportuali qualora venga data la possibilità al mercato di funzionare liberamente, riassegnando con immediatezza gli slot lasciati liberi dalla nuova Alitalia. In tal caso sarà Mr. O’Leary di Ryanair o qualche suo collega a pensarci ma se gli verrà data la possibilità di farlo la nuova Alitalia non andrà mai in attivo.
L’unica possibilità che i 16 'capitani coraggiosi' vedano bilanci in utile è che il regolatore non permetta a Mr. O’Leary di imbarcare i 12 milioni di passeggeri lasciati a terra da Passera e Colaninno. La moratoria antitrust inserita nel decreto legge di revisione della Marzano non è ovviamente sufficiente a tal fine e servono provvedimenti molto più drastici. La fantasia del regolatore protezionista non ha tuttavia confini: dopo aver deliberato la chiusura ai voli civili di Ciampino (diurni) con la scusa di proteggere il sonno degli abitanti della zona si potrebbe dichiarare Linate aeroporto militare e rispolverare il vecchio piano sugli aeroporti del non rimpianto ministro dei trasporti del centro sinistra Alessandro Bianchi. L’importante è tenere a terra il 25% dei passeggeri domestici per poter far pagare molto di più al rimanente 75%.
Il conteggio sui passeggeri in esubero emerge con pochi calcoli a partire dal numero di aerei che la nuova compagnia intende utilizzare: solo 136 contro oltre 240 complessivamente impiegati da Alitalia e Airone sino alla fine del 2007. Quanti passeggeri potrà trasportare la nuova Alitalia nel 2009 rispetto ai 31 che hanno viaggiato nel 2007 con le due compagnie? Se si ipotizza che gli aerei saranno utilizzati con la stessa intensità delle due compagnie aggregate e con identico load factor la risposta è di soli 17 milioni di persone, solo poco più della metà rispetto alla scorso anno. Ovviamente è nell’interesse della compagnia aumentare la produttività degli aeromobili e il load factor: con un tasso di utilizzo degli aerei ex Alitalia più elevato del 10% e a parità di load factor si recupererebbe un milione di passeggeri; un altro milione arriverebbe se il load factor sugli aerei ex Alitalia salisse sino ai livelli di Air France (mission sostanzialmente impossible); altri due milioni se il load factor sugli aerei ex Airone, ora molto basso, salisse ai livelli della vecchia Alitalia (cioè ben 17 punti percentuali in più).
Accogliendo queste ipotesi, assolutamente ottimistiche, la nuova Alitalia potrà al massimo trasportare nel 2009 21 milioni di passeggeri contro gli oltre 31 trasportati nel 2007 complessivamente da Alitalia e Airone (e anche se tutti gli aerei viaggiassero sempre con un load factor al 100% non si potrebbero superare i 25 milioni di viaggiatori). In sostanza 10 milioni di passeggeri (ma più probabilmente 12) non potranno volare nel prossimo anno sulla nuova Alitalia nonostante abbiano dimostrato in passato di essere disponibili a pagare tariffe non propriamente da compagnie low cost. Si tratta di oltre il 10% dei passeggeri che viaggiano sui cieli italiani e di oltre il 25% dei passeggeri che viaggiano su rotte nazionali. Essi non corrono ovviamente il rischio di doversi accampare nelle sedi aeroportuali qualora venga data la possibilità al mercato di funzionare liberamente, riassegnando con immediatezza gli slot lasciati liberi dalla nuova Alitalia. In tal caso sarà Mr. O’Leary di Ryanair o qualche suo collega a pensarci ma se gli verrà data la possibilità di farlo la nuova Alitalia non andrà mai in attivo.
L’unica possibilità che i 16 'capitani coraggiosi' vedano bilanci in utile è che il regolatore non permetta a Mr. O’Leary di imbarcare i 12 milioni di passeggeri lasciati a terra da Passera e Colaninno. La moratoria antitrust inserita nel decreto legge di revisione della Marzano non è ovviamente sufficiente a tal fine e servono provvedimenti molto più drastici. La fantasia del regolatore protezionista non ha tuttavia confini: dopo aver deliberato la chiusura ai voli civili di Ciampino (diurni) con la scusa di proteggere il sonno degli abitanti della zona si potrebbe dichiarare Linate aeroporto militare e rispolverare il vecchio piano sugli aeroporti del non rimpianto ministro dei trasporti del centro sinistra Alessandro Bianchi. L’importante è tenere a terra il 25% dei passeggeri domestici per poter far pagare molto di più al rimanente 75%.
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martedì 2 settembre 2008
Unbundling, unbundling, unbundling
Il dibattito sulla cattiva qualità dei servizi pubblici locali innescato ieri da Francesco Giavazzi sulle pagine del Corriere della Sera continua oggi sul sito de L’Occidentale con un articolo di Salvatore Rebecchini che, in qualche modo, appare complementare a quello del professore bocconiano. Se il primo, infatti, lucidamente ricollega lo scandalo della gestione inefficiente delle municipalizzate alla mancanza di concorrenza e, quindi, critica la riforma azzoppata della finanziaria, il secondo ricorda l’importanza degli investimenti infrastrutturali e, quindi, loda gli incentivi economici ad uopo presenti nella medesima manovra. Nessuno ha torto e tutti hanno ragione. Ma entrambi non si soffermano su un punto importante che merita una considerazione a mo’ di “cerniera” tra i due interventi: la separazione proprietaria delle reti.
Il conflitto d’interessi degli operatori verticalmente integrati ostacola sia la gestione efficiente dei servizi sia lo sviluppo delle infrastrutture; il suo definitivo superamento invece fa sì che, fra i diversi soggetti affidatari dei servizi di produzione e di distribuzione in concorrenza fra loro, nessuno goda di trattamenti discriminatori compiacenti da parte del soggetto che, incaricato della sola gestione della rete, non può accrescere il proprio profitto se non migliorando e ampliando le infrastrutture a sua disposizione.
Qualora, insomma, l’obbligatorietà delle gare per l’affidamento (auspicata da Giavazzi) fosse accompagnata dall’unbundling (caldeggiato da molti analisti più importanti del sottoscritto), gli incentivi agli investimenti (elogiati da Rebecchini) sarebbero ancora maggiori rispetto a quelli introdotti dall’art. 77 del decreto fiscale.
Il conflitto d’interessi degli operatori verticalmente integrati ostacola sia la gestione efficiente dei servizi sia lo sviluppo delle infrastrutture; il suo definitivo superamento invece fa sì che, fra i diversi soggetti affidatari dei servizi di produzione e di distribuzione in concorrenza fra loro, nessuno goda di trattamenti discriminatori compiacenti da parte del soggetto che, incaricato della sola gestione della rete, non può accrescere il proprio profitto se non migliorando e ampliando le infrastrutture a sua disposizione.
Qualora, insomma, l’obbligatorietà delle gare per l’affidamento (auspicata da Giavazzi) fosse accompagnata dall’unbundling (caldeggiato da molti analisti più importanti del sottoscritto), gli incentivi agli investimenti (elogiati da Rebecchini) sarebbero ancora maggiori rispetto a quelli introdotti dall’art. 77 del decreto fiscale.
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