sabato 31 maggio 2008

L'inflazione di decreti salvAlitalia e il vuoto di idee per la ristrutturazione

Siamo ormai al terzo decreto salvAlitalia in meno di due mesi:
1) col primo il governo uscente concedeva il prestito statale bipartisan di 300 milioni di euro a 'condizioni di mercato';
2) col secondo il governo attuale stabiliva, in deroga alle norme che regolano il funzionamento delle S.p.A., che Alitalia può considerare a suo piacimento il suddetto prestito come capitale proprio se questo le può servire per ripianare perdite consistenti che potrebbero ingenerare per la medesima conseguenze fastidiose quali dover abbattere e reintegrare il capitale sociale;
3) col terzo decreto, datato ieri, è avviata una nuova fase del processo di privatizzazione che vede la nomina di Banca Intesa come advisor.
Anche in questo caso sono state stabilite deroghe non irrilevanti: (a) alle norme generali sui processi di privatizzazione (risalenti al 1994); (b) alle norme sugli obblighi di informazione al mercato che riguardano le società quotate, i quali vengono ora sospesi, nel solo caso Alitalia, tra l'individuazione del soggetto acquirente e la presentazione dell'offerta.
Non posso che estendere a questo provvedimento un giudizio fortemenente negativo, analogo a quello formulato in relazione ai due precedenti: sono tutti espressione di un dirigismo economico criticabile sia dal punto di vista del metodo che per l'impossibilità di conseguire risultati apprezzabili. Per quanto riguarda il metodo è evidente che si è di fronte a un abuso della legislazione la quale, nel tentativo di cucire vestiti normativi su misura di Alitalia, è distruttrice del diritto (poichè trasforma regole in variabili). In secondo luogo la strada intrapresa, oltre a essere discutibile sul piano procedurale, è criticabile per il fatto che non riuscirà a ottenere, utilizzando strumenti sbagliati, i risultati che persegue.
Alitalia non si salva con norme ad hoc ma con un piano efficace di ristrutturazione. L'acquirente (o finanziatore non pubblico) serve per conferire i capitali necessari per attuare il piano ma non è indispensabile per iniziare ad elaborarlo. Se si aspetta a predisporlo, per contro, Alitalia fallirà prima di trovare un acquirente poichè nessuno sarà disponibile a mettere dei soldi se non può avvalersi di un piano credibile di ristrutturazione (questa è la ragione principale per la quale non si è ancora materializzata la cordata tricolore).
Alitalia ha bisogno urgente, più che di un advisor per la cessione, di un advisor competente in ristrutturazioni di compagnie aeree in crisi. Dubito che esista in Italia e non vorrei che un patriottismo ingenuo impedisse di cercarlo altrove. Il nostro vettore di bandiera necessità di una ristrutturazione da almeno un quinquennio, da quando è emerso che anche (o soprattutto) dopo Malpensa continuava a registrare perdite sistematiche.
Il solo piano che ha visto la luce in questo periodo è stato quello predisposto da Maurizio Prato, coerente con la cessione a Air France. Esso è stato avviato dal punto di vista dell'offerta con l'orario della stagione estiva, a inizio aprile, esattamente in concomitanza con l'uscita del suo autore dall'azienda. Dal punto di vista del contenimento dei costi, invece, non si ha notizia che siano stati attuati provvedimenti significativi. Poichè l'offerta di voli è stata ridotta e i costi operativi totali non sono stati abbassati nella stessa proporzione, è prevedibile un incremento non trascurabile dei costi unitari di produzione (costi operativi per posto km offerto) col II trimestre. Questi maggiori costi unitari non potranno trovare copertura in maggiori proventi unitari a causa dell'elevata pressione concorrenziale nel mercato e si tradurranno in conseguenza in maggiori perdite operative, sia unitarie che totali.
A questo fattore si deve aggiungere un prevedibile calo di prenotazioni causato dall'incertezza sul futuro della compagnia: non è razionale comperare un biglietto Alitalia se si teme che alla data prevista l'azienda potrebbe aver interrotto l'operatività e non essere in grado di effettuare il volo. Si sceglierà una compagnia più solida, con conseguenze negative sul load factor e sul conto economico del vettore di bandiera. Questo effetto sembra già aver iniziato a verificarsi col prime trimestre 2008: il traffico passeggeri si è ridotto quasi del 10% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente (nonostante la Pasqua anticipata), con un effetto riduttivo di tre punti percentuali sul già contenuto load factor di Alitalia.
Pensare che si possa trovare un acquirente 'di mercato' in una simile fase, caratterizzata da ulteriore deterioramento e dalla totale assenza di idee per arrestarlo appare del tutto illusorio.

Dizionario dal Brasile / Autarchia


Questa incredibile foto, scattata da una missione di ricognizione nei cieli dell'Amazzonia, mostra com'era il mondo quando non c'era il capitalismo.

Considerazioni di buon senso

Sono già on line le Considerazioni finali del Governatore della Banca d'Italia, che Mario Draghi sta leggendo ora. Ad una prima occhiata, appaiono considerazioni di grande buon senso. Al netto dell'ampia parte dedicata alla "turbolenza finanziaria" (in cui Draghi è molto attento a separarare l'acqua sporca dal bambino), c'è molto da meditare sul federalismo fiscale, sul Mezzogiorno (tema sul quale non si può non leggere ed applaudire, oggi, Angelo Panebianco sul Corriere), su banche ed SGR, sulla crescita, sulle tasse.
A livello di curiosità, ma una curiosità non priva di significato, si può notare che il Govenatore continua ad estrarre dalla galleria dei suoi maggiori un solo nome: quello di Luigi Einaudi. In quest'occasione, straordinariamente a proposito:
Aliquote elevate penalizzano le imprese nella competizione internazionale,
riducono la propensione a investire, possono determinare distorsioni
nella scelta della dimensione d’impresa. Tagliano le retribuzioni del lavoro
regolare, scoraggiano l’emersione di quello irregolare. Già nel 1946, all’Assemblea
Costituente, Luigi Einaudi ammoniva che “solo abbassando le aliquote
vigenti e diminuendo la spinta alla frode si potrà ottenere un gettito migliore
per lo stato”.

venerdì 30 maggio 2008

Sindacalisti privati & imprese pubbliche

Dopo le ultimissime nomine ai vertici delle imprese pubbliche il contribuente italiano medio si pone la seguente domanda: "Dopo che il governo di centrosinistra ha nominato un paio d'anni fa l'ex sindacalista Moretti ai vertici di FS e ieri il governo di centro destra ha nominato l'ex sindacalista Ialongo alla presidenza di Poste, come è possibile che non si sia ancora trovato un ex sindacalista al quale affidare anche le delicate sorti di Alitalia?"
La risposta è nella forma di mercato: Alitalia opera in concorrenza, grazie alla liberalizzazione Europea che si è conclusa ormai dieci anni fa, Ferrovie e Poste no. In Alitalia le inefficienze gestionali, che sono una frazione microscopica rispetto a quelle di Ferrovie e Poste, sono rese immediatamente visibili grazie alla concorrenza, non possono essere accollate ai cittadini e rischiano di portare l'azienda al fallimento; nelle altre due aziende le inefficienze sono, grazie alla non liberalizzazione, interamente a carico del cittadino che le copre in parte attraverso le tariffe e in parte attraverso consistenti trasferimenti pubblici. Questa è la ragione per la quale esse possono essere tranquillamente (dis)amministrate anche da ex sindacalisti.
Per dimostrare l'assurdità di questo modello di gestione delle imprese pubbliche, che ha sinora resistito a tutti i cambi di governo e di repubbliche, è sufficiente formulare le seguenti domande: avete mai visto un ex sindacalista guidare un'impresa privata? E una grande impresa straniera (sia essa privata o pubblica)? Avete mai visto un ex manager al quale siano state affidate le sorti di un sindacato?
Poichè la risposta è sempre no, è evidente che si tratta di un modello non difendibile e portatore di molte conseguenze negative, come le vicende di Alitalia (non direttamente amministrata da sindacalisti ma pesantemente condizionata nella gestione) dimostrano.
Poterci liberare degli ex sindacalisti ai vertici dei monopoli pubblici è una ragione già più che sufficiente per insistere nel chiedere la liberalizzazione dei mercati e la privatizzazione delle imprese.

mercoledì 28 maggio 2008

We do not ship to Africa, Mexico and Italy

Proteggere un monopolista ed impedire la concorrenza non è solo ingiusto, ma è anche stupido: permette alle ineficienze di perpetuarsi, e preclude la strada all'innovazione.
Abbiamo spesso parlato in questo blog delle storture del nostrano mercato postale, e forse qualcuno di voi si chiederà se non è uno spreco di energia concentrarsi su servizi così desueti... Chi spedisce più di un paio di lettere l'anno, dopo tutto?
In realtà, il mercato delle comunicazioni postali non è fatto solo di auguri di natale: è fatto di bollette che dovrebbero arrivare in tempo per essere pagate, estratti conto, pacchi da consegnare rapidamente. E' un mercato che sta declinando nella forma che conoscevano i nostri nonni, per trasformarsi in qualcosa di nuovo. Per fare un, importante!, esempio, è alla base dell'e-commerce.

E questo bell'articolo su Repubblica.it di oggi ci spiega come le inefficienze del nostro settore postale danneggino chi vuole comprare su ebay e yoox:

"Le vostre poste non funzionano" Su eBay non vendono agli italiani

I pacchi spediti arrivano in ritardo o non arrivano per niente
di FRANCESCO CACCAVELLA


MIKE vive negli Stati Uniti ma grazie ad eBay vende migliaia di CD a meno di un euro in tutto il mondo. In tutto il mondo tranne che nel nostro paese perché Mike, come è scritto chiaramente nella sua inserzione, non spedisce in Italia. James Zhou vende DVD da Shanghai ma anche lui non spedisce in Italia, in Africa o in Messico. York, sempre americano, vende orologi Casio a buon mercato ma non ad italiani, greci o nigeriani, che sono, come è scritto nella sua pagina, gli "artisti della truffa".

Insomma, siamo considerati la pecora nera mondiale del commercio elettronico. E tutto per colpa - dicono i venditori - del nostro sistema postale. Su eBay la clausola "do not ship to italy" (non spediamo in Italia) è presente in oltre 37 mila inserzioni: per la Francia le inserzioni con la stessa dicitura sono 3 mila, per la Spagna poco più di 700 e quasi nessuna per l'Inghilterra. Sono 10 mila gli ebayer che non spediscono in Germania, ma in quel caso si tratta di stringenti regolamenti per le importazioni, mentre in Italia il problema segnalato è sempre l'inefficienza delle spedizioni.

"Spedisco da otto anni in 89 nazioni", scrive nella community di eBay un utente da 22 mila e più vendite. "In 88 nazioni sono andate a buon fine il 100% delle spedizioni e solo in una, l'Italia, il tasso di successo è del 47%". Tutti i venditori che abbiamo contattato ce lo hanno confermato: in Italia i pacchi arrivano tardi o non arrivano per niente e i compratori o chiedono il rimborso oppure segnalano come inaffidabile il venditore. "Gli italiani indicano sempre che non ricevono i pacchi che spedisco. Ho perso diverse centinaia di dollari avendo a che fare con compratori italiani, non posso andare avanti così..." ci dice un venditore del Delaware. Ben rappresentato anche il cliché dell'italiano truffatore: "Diversi pacchi di valore che ho spedito in Italia non sono mai arrivati. Non so se sia vero, ma chiedendo sui forum in internet mi hanno detto che il vostro sistema postale è corrotto e gli impiegati aprono i pacchi e li rubano".

Il fenomeno del "non vendiamo agli italiani" va avanti da mesi e si è aggravato nel corso delle ultime festività natalizie. Andrea Polo, responsabile comunicazione di eBay, ne è consapevole anche se vede spiragli di miglioramento. "Il problema è dovuto sia ai lunghi tempi di spedizione - dice a Repubblica.it -, sia dell'aspettativa del consumatore che, poco esperto di commercio elettronico, spesso non considera a dovere i complicati meccanismi che regolano un acquisto internazionale: pagamento, invio della documentazione, sdoganamento e così via". Maggiore efficienza, aggiunge, potrebbe derivare dall'uso dei corrieri per la spedizione o di PayPal per il pagamento.
Scegliendo i corrieri rispetto all'azienda di Stato le cose migliorano, ma il prezzo aumenta. Lo sanno anche principali imprese di commercio elettronico italiane che si affidano sempre a corrieri privati: Yoox, il leader nella vendita di abbigliamento online, spedisce con UPS, Mediaworld, Mr. Price ed ePrice del settore dell'elettronica di consumo si affidano a TNT o Bartolini mentre IBS, che spedisce 4000 pacchi al giorno, affianca a SDA, il corriere delle Poste, un corriere privato.

Chi vende su eBay o chi gestisce un piccolo negozio di commercio elettronico fa quasi sempre affidamento alle più economiche spedizioni dei servizi pubblici che poi, in Italia, vengono poi prese in carico da Poste Italiane. Ma il problema non riguarda solo le spedizioni estere. "Mi sono fatta in quattro per consegnare tutti gli ordini immediatamente dopo aver ricevuto la conferma - scrive su un forum dell'Associazione italiana di commercio elettronico la proprietaria di un piccolo sito di e-commerce - e poi le poste italiane, invece che metterci 3 giorni (più uno di accettazione) come scritto sulle condizioni, ce ne mettono più di 7".

I forum di eBay sono diventati una sorta di centro di raccolta delle lamentale sul sistema postale italiano e sul web sono nati siti che raccolgono notizie e informazioni sulle sue inefficienze. Si è mossa anche la magistratura sulla scia di un'inchiesta di Repubblica che lo scorso gennaio ha mostrato 200 tonnellate di posta accatastate nei sotterranei del centro postale di Milano Roserio, quello in cui arrivano molti dei pacchi inviati dai venditori esteri di eBay. Da alcuni giorni, infine, alla procura di Milano è arrivato anche un esposto dei Cobas delle Poste nel quale si ipotizza che, per smaltire le giacenze postali lombarde, si sia mandata al macero la corrispondenza non lavorata o recapitata.

Ma il problema non riguarda solo il mondo, seppur vastissimo, di eBay. Il valore del commercio elettronico italiano è tre volte più piccolo di quello francese, sei volte di quello tedesco e dieci di quello inglese ed la logistica è indicata come uno dei maggiori freni alla sua affermazione. Una ricerca Netcomm-Bocconi presentata al Netcomm e-Commerce Forum di Milano alcune settimane fa ha mostrato come l'efficienza delle spedizioni sia, assieme alla garanzia delle transazioni, lo strumento principale con cui superare lo scetticismo dei consumatori verso questo modo di fare acquisti.

E se ci fossero ancora dubbi basterebbe riascoltare le parole del numero due di Amazon, Diego Piacentini, pronunciate al Netcomm Forum, parole che va ripetendo da anni: se Amazon - che è presente in Francia, Germania e Inghilterra - non apre in Italia è soprattutto a causa del sistema delle spedizioni. "A Natale - ha detto il top manager Amazon - sono stato a trovare i miei genitori che non ricevevano la posta perché il postino era ammalato".

(26 maggio 2008)

Alitalia: conti economici e prestiti molto amari

La situazione di Alitalia è sempre più critica; il commissariamento della compagnia di bandiera potrebbe essere la soluzione definitiva del processo di privatizzazione iniziato ormai 16 mesi fa, nel dicembre del 2006.
In seguito al rinvio del consiglio di amministrazione del 26 Maggio, che aveva il compito di esaminare i conti del vettore del 2007, e ai dati pubblicati il giorno successivo che evidenziavano una perdita vicina al mezzo miliardo di euro forse sarebbe meglio chiedere la fine dell’agonia del vettore.

Nel corso dello scorso anno Alitalia ha bruciato 364 milioni di Euro, ma con la svalutazione della flotta, il passivo sfiora i 500 milioni di Euro. Negli ultimi nove anni, la compagnia ha bruciato più di 3 miliardi di Euro, sempre ripianati con salvataggi di Stato. Le perdite nel primo trimestre del 2008 sono state di 215 milioni di Euro; per ogni 100 euro ricavati, la compagnia ne ha spesi 115, in peggioramento rispetto al già difficile primo trimestre 2007. La disponibilità finanziaria netta a fine marzo era di soli 36 milioni di Euro e la ricapitalizzazione è sempre più necessaria, poiché il patrimonio è quasi negativo.

Il bilancio del 2007 è risultato profondamente preoccupante. Il miglioramento rispetto al 2006 è molto illusorio. I maggiori ricavi derivano in gran parte alle operazioni straordinarie, quali la vendita di slot o la vendita di opzioni sul carburante. Le minori uscite sono dovute al minor costo del carburante (grazie alla forza dell’euro nel 2007 il jet - fuel è costato di meno) ed ad una svalutazione della flotta molto meno ingente rispetto allo scorso anno.
Al netto di questi maquillage, la perdita operativa sarebbe stata non solo ben superiore ai 310 milioni di Euro effettivamente contabilizzati, ma anche superiore ai 466 milioni di Euro del 2006.
L’anno in corso rischia di essere veramente campale per la compagnia e i dati del primo trimestre ne sono la conferma.

Alitalia, dal momento dell’abbandono dell’amministratore delegato Maurizio Prato, è senza una guida reale. L’uscita di AirFrance - KLM, a causa dell’opposizione dei sindacati e dall’atteggiamento irresponsabile di molti politici, ha lasciato la compagnia sempre più vicina al commissariamento. Il colosso franco-olandese prevedeva un investimento di 6,5 miliardi di Euro e un’iniezione di capitali immediata per circa 2 miliardi di Euro. La sola soluzione alternativa trovata attualmente è un prestito ponte di 300 milioni di Euro da parte del Ministero delle Attività Produttive, che si configura come aiuto di Stato.

Il prestito ponte, tramite un decreto del Governo, avrebbe inoltre lo scopo di ricapitalizzare l’azienda ormai sull’orlo del fallimento. Questa mossa disperata serve a rimandare una ricapitalizzazione di Alitalia e di conseguenza allungare i tempi dell’agonia in attesa del concretizzarsi di una cordata
Il vettore è sull’orlo del baratro, pur essendo i mesi estivi i meno difficili grazie alla stagionalità favorevole del settore aereo; infatti sta iniziando l’effetto per il quale i clienti prenotano su altre compagnie per paura che Alitalia possa fallire. Nei primi tre mesi dell’anno corrente, l’offerta del vettore è diminuita del 5,8 per cento, ma la domanda è crollata di quasi il 10 per cento rispetto al 2007.
Le responsabilità di questa crisi sono totalmente a carico dei sindacati e dei politici.

È necessario dunque lasciare agire il mercato, in modo che le compagnie più efficienti possano continuare a far sviluppare il mercato del trasporto aereo italiano. Il salvataggio di Alitalia non può essere effettuato ancora una volta sulle spalle dei contribuenti italiani con una notevole distorsione del mercato. Il Governo deve agire per una immediata rinegoziazione degli accordi bilaterali che regolano molte rotte intercontinentali, in modo che anche il mercato intercontinentale venga pienamente liberalizzato.

martedì 27 maggio 2008

Alitalia e la finanza pubblica transgender

Appare come un caso di ermafroditismo giuridico-economico la formula utilizzata nell'ultimissimo decreto salvAlitalia seconda la quale il prestito ponte di 300 milioni di euro potrà essere utilizzato per "far fronte alle perdite che comportino una diminuzione del capitale versato e delle riserve al di sotto del livello minimo legale". A seconda delle esigenze di Alitalia, in sostanza, la somma elargita dalle casse pubbliche sembra poter assumere la forma di:
a) finanziamento temporaneo, sottoposto a una precisa scadenza, o:
b1) aumento di capitale proprio, ma avente anch'esso carattere transitorio, finalizzato al ripianamento di perdite consistenti che metterebbero a repentaglio la continuità aziendale, oppure, in una interpretazione alternativa alla precedente:
b2) ripianamento di perdite finalizzato a non dover abbattere il capitale al di sotto del minimo legale e non dover richiedere il suo reintegro ai soci.
Da qualunque punto di vista la si analizzi, questa formula appare come un istituto giuridico di fantasia che non trova precedenti nella lunga storia dell'uso italiano del diritto pubblico al servizio dello statalismo economico. Ed è tanto più inaccettabile se si considera che influisce su un'azienda organizzata in forma societaria, regolata dal diritto comune e operante in mercati ampiamente liberalizzati.
Tutte le altre imprese soggette al codice civile si finanziano con due sole modalità, capitale di debito e capitale proprio, alimentato dai conferimenti dei soci e dall'accantonamento di utili non distribuiti. Entrambe le tipologie sono soggette a regole precise e l'unico istituto che permette di transitare dall'una all'altra è il prestito obbligazionario convertibile (ma non riconvertibile all'indietro).
L'idea che si possa "far fronte (giuridicamente e non solo finanziariamente) alle perdite che comportino una diminuzione del capitale versato" con capitale di debito fornito transitoriamente per decreto legge dal socio pubblico (tra l'altro non socio unico ma solo di maggioranza relativa) credo non trovi precedenti nella storia del capitalismo occidentale. Sarei davvero stupito se i vettori che competono con Alitalia e non possono godere dei vantaggi derivanti da simili acrobazie giuridiche non presentassero ricorso contro il provvedimento appena emanato così come se esso passasse indenne sotto i riflettori di Bruxelles.
A ben riflettere, e dovendo giustificare l'ingiustificabile, un modo migliore sarebbe quello di sostenere con Bruxelles che il finanziamento di 300 milioni non è un prestito e neppure un aumento di capitale, bensì un indennizzo dello Stato per i danni provocati all'azienda attraverso le interferenze nella gestione, l'assegnazione di obiettivi impropri e la nomina di manager incompetenti tesserati dai partiti. Non un aiuto di Stato, quindi, ma il rimborso per un danno di Stato.

Nessuno tocchi il brevetto

Ottimo intervento di Benedetto Della Vedova sull'International Herald Tribune. Un must-read.

domenica 25 maggio 2008

Dr. Catri e Mr. Calà

Pare che venerdì alla LUISS sia andato in scena uno spettacolo straordinario durante la prolusione del presidente dell'AGCM.



Di fronte alla platea dei laureati in giurisprudenza dell'ateneo di Confindustria, Antonio Catri si è azzardato a dichiarare che nei servizi pubblici a rete «appare necessaria l'introduzione di un regime di completa separazione proprietaria tra ambiti di monopolio [...] al fine di semplificare la struttura dei costi delle imprese regolate e di eliminare gli incentivi del gestore di rete all'adozione di comportamenti e strategie escludenti, intesi a impedire, limitare o falsare la concorrenza nei segmenti di attivita' verticalmente collegati». Chapeau! Non avremmo saputo dirlo meglio.

«In questo quadro – ha proseguito Catri – appare necessario rendere Rfi del tutto autonoma da Trenitalia». Peccato che a distanza di qualche minuto il suo collega Antonio Calà si sia issato sul podio per ribadire che quanto detto non vale per il settore del gas. O meglio, vale solo in parte.

È ben vero, infatti, che finalmente all'AGCM paiono essersi liberati della sciagurata superstizione che il monopolio della rete sia garanzia di forza contrattuale nell'approvvigionamento. Però, secondo Calà, «se noi, come è giusto, chiederemo l'undbundling, lo faremo a favore di una società europea da costituire con tutti i conferimenti di tutti i proprietari delle reti e per i traders col denaro». Come come? Credevamo che le ultime lettere dell'acronimo AGCM indicassero concorrenza e mercato, non community-wide monopoly. Un network europeo (pubblico, ça va sans dire, anche se Catricalà non lo specifica) è una idea esecrabile tanto per la competitività del settore quanto per l'efficienza delle infrastrutture, e davvero non si capisce perché dovremmo barattare ventisette monopoli locali verticalmente integrati con un enorme monopolio orizzontale nella distribuzione.

Insomma, questo Antonio Calà non convince proprio, e confidiamo che l'originale sia Antonio Catri. Se, però, Calà deve essere, noi scegliamo senza indugi il vecchio Jerry.


sabato 24 maggio 2008

Quando le Poste sono deboli in geografia...

Che le Poste fossero deboli in geografia lo sapevamo già da tempo: a fine anni ottanta era noto che inviavano in aereo da Milano le corrispondenze per smistarle nei grandi centri meccanizzati del Sud (Palermo, ad esempio) e riportarle indietro in aereo alla loro destinazione finale... in Lombardia; anche in epoche molto più recenti abbiamo avuto non poche notizie di smarrimenti, ritardi colossali e posta inviata al macero nell'impossibilità di individuare la localizzazione del destinatario. Sinora, tuttavia, i problemi geografici delle Poste avevano per oggetto le buste, non i francobolli (se si eccetua il Gronchi Rosa, il quale peraltro risale al 1961, molto prima dell'istituzione di Poste Italiane S.p.A.). Da oggi, invece, sappiamo che anche sui francobolli le Poste riescono a sbagliare la geografia.
La notizia arriva dal nuovo francobollo da 60 centesimi dedicato alla Valle d'Aosta, stampato da Poste Italiane in 3.600.000 esemplari nella collana Regioni d'Italia, il quale riproduce un'immagine del Monte Cervino. Un'ottima occasione di marketing territoriale e di promozione della regione, se non fosse che il francobollo ritrae il Monte Cervino visto dal versante di Zermatt, nota località del vallese, confederazione elvetica, anzichè da quello italiano.
Il 'disguido' ha fatto comprensibilmente infuriare gli amministratori locali e gli operatori turistici della Valtournenche i quali ora, a titolo di risarcimento, potrebbero chiedere a Poste Italiane di affidare la corrispondenza destinata alla loro vallata direttamente al postino di Zermatt, con prevedibile miglioramento della qualità del recapito. L'imbarazzo è ancora maggiore se si considera che per questa tipologia di emissioni regionali è prassi delle Poste pubblicare un fascicolo esplicativo aperto da un articolo introduttivo firmato dal presidente della regione interessata. A chi lo chiederanno in questo caso? A Luciano Caveri, governatore della Valle d'Aosta, o al suo omologo svizzero?
Come è stato possibile il disguido? Sembra che le Poste avessero inviato il bozzetto al postino di Breuil-Cervinia per un controllo diretto dei luoghi ma che il plico, inoltrato attraverso la stessa rete postale pubblica, sia andato disperso.

(P.S.: L'ultima parte del mio post è immaginaria e non dovrebbe quindi corrispondere a verità, ma mi si deve riconoscere che, almeno in Italia, è verosimile)

Nucleare e mercato

La maggior parte dei commenti al mio ultimo post sul nucleare riguardano la presunta incompatibilità tra il nucleare e il mercato. Questa posizione è stata espressa anche, tra gli altri, da Ermete Realacci e Gianni Silvestrini. La mia sensazione è che questo dibattito sia del tutto inutile e fuorviante. La vera questione non è nucleare sì o nucleare no: questo tema riguarda solo le aziende che intendono scommettere su questa opzione e i loro azionisti. La competitività del nucleare dipende da una marea di variabili, la maggior parte delle quali esogene (i prezzi del petrolio nei prossimi 30 anni, le condizioni del mercato del credito, eccetera). Una sola leva è a disposizione del governo: il rischio politico ossia, in termini più espliciti, la credibilità della politica energetica dell'esecutivo.

In altre parole, la via che dovremmo seguire non è quella dell'obbligo o del divieto - che invece mi pare sia la più gettonata - bensì quella del nucleare possibile. Qual è il fattore dominante, e quale dovrebbe essere l'impegno della maggioranza? La risposta è semplice: la creazione di un framework normativo e regolatorio chiaro e stabile (per questo dicevo che non si può pensare di procedere, su un terreno del genere, a suon di forzature parlamentari). Anche chi è contrario al nucleare per ragioni di natura economica e finanziaria non dovrebbe avere obiezioni. Quel di cui il paese ha un maledetto bisogno è di un percorso autorizzativo ben definito e di un'attività regolatoria calibrata con la possibilità che qualcuno tra gli attori operanti in Italia (oppure un nuovo entrante) voglia tentare la carta dell'atomo. L'Autorità per l'energia non ha alcuna competenza in materia di nucleare. Analogamente, l'iter amministrativo oggi esistente è stato concepito ai tempi del monopolio pubblico e non è coerente con un sistema liberalizzato.

Se il governo saprà definire il quadro generale entro cui le aziende si possano muovere, avrà reso un grande servizio al paese. L'obbligo di chi crede nel mercato è assumere una posizione in qualche modo defilata e impopolare: battersi perché il nucleare sia possibile, ma anche perché non sia erogato un solo euro di denaro pubblico (o perché l'intero costo degli impianti vada in bolletta, non in tariffa). Queste cose il mercato le vede, e provvede di conseguenza. Se, nonostante tutto, nessuno vorrà effettivamente investire sul nucleare, non sarà un fallimento del mercato, ma un fallimento di quella specifica tecnologia (così come l'assenza di competitività è un fallimento, per esempio, del solare fotovoltaico). Quello che proprio non mi appassiona è la logica del derby. Se vogliamo scannarci e urlare cori da stadio, allora non è il caso di scomodare Enrico Fermi. E' più utile e divertente sbrigarla da uomini.

Crossposted @ RealismoEnergetico

mercoledì 21 maggio 2008

Tutelare i fannulloni non è di sinistra

Qualche giorno fa, il neo-ministro Brunetta ha rilanciato la crociata contro i fannulloni. Una proposta in questo senso era stata già avanzata, senza troppo entusiasmo, dal precedente governo: la sinistra radicale l'aveva dismessa in pochi minuti, definendola "insensata" ed "inquietante".
Oggi, nella Puglia di Vendola, sinistrorso e radicale che più non si può, si compie finalmente un atto "inquietante": si licenzia un fannullone dell'Acquedotto pugliese.
Ivo Monteforte, amministratore della società, di proprietà della regione, spiega: «semplicemente, il dipendente non lavorava. O meglio, si presentava regolarmente all'Acquedotto, timbrava il cartellino e usciva con il suo compagno di squadra. Ma dopo un po' andava in un capannone e lavorava tutto il giorno con la moglie. La sera rientrava, timbrava di nuovo e se ne andava a casa». E conclude: «non tutti a sinistra sono disposti a proteggere i pelandroni».
Speriamo sia così: perché non riesco davvero a capire come quella parte del ceto politico che si propone di rappresentare i lavoratori si ostini a difendere chi, di lavoro, non vuol sentire neanche l’odore. Ergere barriere a tutela di chi non lavora già è un affronto a chi, nel mercato del lavoro non riesce ad entrarci.

Fonte, Corriere

Meno tasse per il Sud

Lo so che non è abbassando le tasse che ci si libera dalla criminità organizzata, che si trasforma il Meridione in un tempio della certezza del diritto, che si sbaraccano i rifiuti dalle strade di Napoli. Per tutti questi buoni motivi, la proposta dell'IBL (trasformiamo il Mezzogiorno in una "no tax region") raccoglie reazioni freddine.
Via e-mail, ci è stato fatto notare che il Sud "è già una no tax region": perché in tanti non pagano le tasse. Ma un conto è un'evasione diffusa (che comunque "abbassa" i costi dell'operazione), altro trasformare la possibilità di essere esentati dalle imposte in uno strumento di attrazione di capitali.
Raccontata per sommi capi, la proposta (elaborata in "Liberare l'Italia. Manuale delle riforme per la XVI legislatura" da Piercamillo Falasca) prevede:
- un azzeramento delle imposte sul reddito delle imprese che investono in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna per 10 anni, anche per le imprese già ora presenti;
- per i 5 anni successivi, un livello d’imposta pari al 50 per cento dell’aliquota nazionale;
- l’istituzione di una flat tax del 10 per cento per i cittadini stranieri che decidano di porre la loro residenza in una regione del Sud Italia ma che producano il loro reddito prevalentemente all’estero, mutuando – con modifiche – l’esperienza britannica dei cosiddetti “non-dom”.
Ripeto. Nulla di tutto questo serve a liberare le strade di Napoli dalla monnezza, né mette alla sbarra mafia e camorra. Ma magari serve a dare al Sud un orizzonte diverso, una diversa prospettiva, una traiettoria di sviluppo. Non mi sembra poco.

domenica 18 maggio 2008

Alitalia ovvero il condizionale è d'obbligo

Le affermazioni del capogruppo del Partito Democratico Antonello Soro circa la preoccupazione che Alitalia non abbia il denaro sufficiente a pagare gli stipendi di maggio sono alquanto allarmanti; tuttavia le rassicurazioni del Ministro Matteoli dovrebbero fugare ogni dubbio, anche perché i 300 milioni di Euro del prestito ponte sono una boccata d’ossigeno per la compagnia.
La situazione rimane comunque nella piena incertezza, mentre il Consiglio d'Amministrazione della compagnia rimane con il numero minimo legale di consiglieri e senza un amministratore delegato operativo.

Alitalia a fine febbraio aveva praticamente azzerato la disponibilità finanziaria netta a breve; le operazioni straordinarie di vendita di azioni AirFrance, il rimborso tributario ricevuto il 2 Aprile scorso e il prestito ponte hanno dato la possibilità alla compagnia di sopravvivere ed avere denaro sufficiente a fare fronte alle uscite dei prossimi mesi estivi. Nel periodo estivo la compagnia non dovrebbe bruciare altro denaro grazie alla positiva stagionalità del settore.

La compagnia rimane in crisi profonda ed è necessaria una ricapitalizzazione di almeno un miliardo di Euro. Il possibile rientro nel processo di vendita da parte di AirFrance è positivo, perché la compagnia francese è in grado di assicurare investimenti importanti nel vettore italiano e si configura come una soluzione di mercato. Non è possibile che i contribuenti italiani paghino la sopravvivenza di Alitalia con l’ennesimo aiuto di stato.

Il vettore nel primo trimestre ha peggiorato i propri conti avendo avuto costi per 115 Euro ogni 100 Euro di ricavi. L’offerta della compagnia è diminuita del 5,2 per cento, ma la domanda è peggiorata in maniera più rilevante essendo caduta del 10 per cento; nonostante gli aerei abbiano volato meno, i costi per il personale sono aumentati dello 0,5 per cento. La produttività del personale Alitalia è peggiorata nel primo trimestre nonostante la crisi porti sempre più vicino al commissariamento.

I vettori in questa prima parte dell’anno e ancor più nei prossimi mesi dovranno far fronte all’incremento dei costi del carburante ed Alitalia, avendo aeromobili molto vecchi e dispendiosi in carburante, sarà colpita più gravemente.

Il mercato aereo in Italia, dopo essere cresciuto del 10 per cento nel 2007, nei primi tre mesi del corrente anno il numero di passeggeri è ancora aumentato del 7,5 per cento.
Le occasioni per le compagnie efficienti rimangono molto interessanti perché il mercato è liberalizzato a livello nazionale, europeo ed Atlantico.
Il Governo Italiano deve assumersi la responsabilità di trovare una soluzione di mercato nella vendita di Alitalia, pena il commissariamento della compagnia e deve dare a Malpensa la possibilità di sostituire il vettore di bandiera tramite l’apertura delle rotte intercontinentali con nuovi accordi bilaterali. Lo scalo lombardo in parte ha già coperto la partenza di Alitalia grazie alle possibilità offerte dalla liberalizzazione europea; proprio questo processo d’apertura del mercato ha dimostrato che poco importa la nazionalità del vettore per lo sviluppo del settore.
Il mercato aereo italiano è più che raddoppiato negli ultimi 10 anni grazie alle compagnie straniere e non certo grazie ad Alitalia.

In questo clima di "condizionale d'obbligo" per Alitalia solo due cose dovrebbero essere meno condizionali: la liberalizzazione delle rotte intercontinentali non ancora liberalizzate e una soluzione di mercato per la privatizzazione di Alitalia.

Fallimenti del mercato

Intervistato sul Sole 24 ore in merito all’aumento del costo del petrolio, Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, dichiara: «siamo di fronte a un caso scolastico di fallimento del mercato».
Quando gli viene chiesto perché, continua: «perché quando hai i senatori democratici americani che propongono una legge per valutare se c'è stata una speculazione del mercato vuol dire che la tentazione di regolare i mercati è forte, troppo forte per resistere».
Ora, tutti sappiamo che i fallimenti del mercato sono uno degli escamotages inventati dagli economisti per giustificare l’intervento pubblico. Solitamente, questi economisti cercano di giustificare quando e perché ci sia un fallimento del mercato che richieda l’intervento statale. Nell’articolo del Sole, invece, il ragionamento è circolare: c’è un fallimento del mercato perché lo stato vuole intervenire! Sarebbe come a dire che c’è un tumore perché l’oncologo ha voglia di operare…
Senza contestare la teoria generale dei fallimenti del mercato, che pure è tutt’altro che solida, vediamo più attentamente i punti d’analisi.

Il cartello
Questo è un esempio banale di fallimento del mercato. e diventa ancora più banale quando si parla di petrolio: l’Opec. L’Opec è un cartello dichiarato, è formato da petrolieri avidi, e per di più mediorientali: come si fa a non odiarli? Peccato che da quando è in piedi, non sia riuscito una volta a tener fede alle dichiarazioni cartellistiche: troppo forte l’incentivo a “scartellare”. Non a caso, a Microeconomia – corso introduttivo, è l’esempio scolastico non della pericolosità dei cartelli, ma della loro instabilità (a causa del dilemma del prigioniero).

La guerra
Sicuramente la guerra è una brutta cosa. Sicuramente l’instabilità geopolitica del Medioriente rende più difficile il funzionamento del mercato. Ma non è un fallimento del mercato: è un fallimento della politica, della diplomazia, del genere umano, financo. È una causa esogena, non un fallimento del meccanismo di coordinamento delle attività umane che è il mercato. Sarebbe come a dire che se in seguito ai bombardamenti la gente muore è un fallimento della medicina moderna.

Investimenti
Tabarelli continua spiegando che i paesi produttori, una volta nazionalizzate le imprese, hanno perso la possibilità di usufruire della tecnologia estrattiva più avanzata, controllata dai paesi occidentali. Verissimo. Sarebbe forse più corretto dire che nazionalizzando i pozzi di petrolio, questi paesi hanno impedito la gestione da parte delle imprese più efficienti e l’hanno affidata a dei, ehm, “campioni nazionali”: ma è un fallimento del mercato o della politica?

La peste verde
Le chiacchiere ambientaliste con cui i governi dei paesi occidentali, ed in particolare l’utopica Europa del 20-20-20, amano trastullarsi stanno dando informazioni sbagliate ai produttori: fanno credere che fra qualche anno non avremo più bisogno di petrolio, e «per questo stanno spremendo quello che si può spremere per ricavare più possibile da ciò che hanno». Che l’idea di sopravvivere con i biocarburanti o l’idrogeno (e per trasformare l’idrogeno in una fonte di energia non bastano maggiori investimenti e più ricerca: bisogna abolire la seconda legge della termodinamica) sia una follia è vero. Ma, ancora una volta, chi ci ha infilati in questa follia? Il mercato, o la politica che sta drogando il mercato con decenni di incentivi all’energia verde?

Il costo marginalmente basso
Uno dei motivi per cui il caro-prezzi energetico, che si riverbera su tutti gli altri settori produttivi, è un fallimento del mercato è perché… «la benzina costa ancora meno dell'acqua. Considerando anche la tassazione elevata, il costo è ancora marginalmente basso... ». L’osservazione si commenta da sé.


Il prezzo del petrolio sta salendo. E salirà ancora, probabilmente, perché la domanda aumenta. Non è il mercato che può ridurre la domanda - a meno che non vogliamo augurarci che si personifichi e vada ad ammazzare un qualche miliardo di asiatici in paesi che stanno crescendo ed, orrore!, vogliono la macchina e l’elettricità in casa come noi. Il mercato non può nemmeno moltiplicare i pozzi di petrolio. Tutto quello che può fare è comunicare, attraverso i prezzi, ai produttori che c’è più gente che vuole questi prodotti: e lo sta facendo benissimo. È colpa del mercato se una serie di cause politiche non rendono possibili gli investimenti? È colpa delle sette sorelle se non gli vengono concessi i permessi per fare il loro lavoro ed aumentare l’offerta?

Qualche giorno fa, alla presentazione di un bel libro del prof. Clò, qualcuno ha detto che non possiamo fare affidamento sul mercato, per assicurarci la sicurezza energetica, perché basta un nulla per farlo crollare. L’esempio utilizzato era l’uragano Katrina, che ha allagato alcuni stabilimenti di raffinazione, mettendo in ginocchio la produzione americana. Ovviamente, se l’uragano si fosse chiamato Natasha ed avesse colpito gli stabilimenti dell’Unione Sovietica dei bei tempi, questi non si sarebbero allagati…
Anche in questo caso, invece, il mercato è stato impeccabile: aumentando i prezzi dell’energia, ha subito attirato investimenti e permesso di risistemare gli impianti in meno di due mesi.
Cosa vogliamo di più, per dichiarare che non c’è un fallimento del mercato? Che impedisca il maltempo?

Crossposted@realismo energetico

mercoledì 14 maggio 2008

Lenzuolate parigine

Le lenzulate à la Bersanì arrivano a Parigi. Il ministro delle Finanze Christine Legarde ha annunciato che la parziale liberalizzazione degli esercizi commerciali sarà l'elemento più importante del progetto di modernizzazione economica del paese. La notizia è buona, ma agrodolce. Nel senso che è senza dubbio rilevante ridurre la burocrazia nell'apertura e nella gestione dei negozietti, così come introdurre la libera negoziazione tra i negozianti e i loro fornitori o semplificare l'avvio di piccoli supermercati. Ma pensare che sia questo il problema, o presentare una tale misura - lo ripeto, che apprezziamo e appoggiamo e invochiamo - come il perno del lavoro di modernizzazione dell'economia, fa una grande tristezza. E ci consola, perché nonostante l'Italia sia quello che è, c'è chi sta peggio di noi.

sabato 10 maggio 2008

Anche le banche piangano

Alitalia italiana, banche e petrolieri pagheranno il conto. Il buon giorno si vede dal mattino.