domenica 29 luglio 2007

Block Exemption calcistica? / 2

Mi concedo un paio di osservazioni sul corposo e stimolante post di Alessandro Iaria, in qualità di Commissario Tecnico dell'IBL. :-)

Mi pare utile affrontare in rapida successione la questione della distribuzione delle risorse, ed essenzialmente delle modalità di vendita dei diritti televisivi, e quella della block exemption - temi collegati ma distinti.

Si è soliti giustificare la necessità della vendita collettiva dei diritti televisivi facendo riferimento al modello della coopetition. Come già segnalato da Alessandro, si può sostenere che in alcuni settori economici un certo livello di collusione tra gli attori sia cruciale per il successo del prodotto. E che il calcio (lo sport) sia tra questi. Che nel campo d'applicazione di queste considerazioni ricada un interesse generale all'equilibrio delle competizioni sportive - e quindi l'opportunità di redistribuire le risorse che ne derivano - è però tutt'altro che pacifico.

Gli sportivi sembrano infatti essere guidati più spesso:

  1. da ragioni banalmente sentimentali. Per averne una dimostrazione, basti osservare i tifosi dell'Internazionale, che negli ultimi vent'anni hanno seguito la seconda squadra di Milano con passione inesausta nonostante i risultati del club non si discostassero da quelli di compagini come Lazio, Sampdoria, Parma o Napoli. Quando poi i nerazzurri hanno conquistato - a tavolino, prima, ed al termine di un campionato monco, poi - due titoli nazionali non esattamente combattutissimi, non pare che il il seguito della squadra - o del movimento nel suo complesso - ne abbiano risentito*;
  2. dal piacere estetico di assistere ad esibizioni di alto livello. Si pensi - per rimanere alla storia recente - alla grande attenzione suscitata dalla partecipazione della Juventus all'ultimo campionato di serie B, nonostante il prevedibile divario con le altre formazioni in lizza. O si ponga mente alle dinamiche di popolarizzazione di una disciplina, usualmente guidate dal flusso e riflusso dei campioni e delle squadre imbattibili: il Milan di Sacchi o i Bulls di Jordan, Michael Schumacher o Tiger Woods. O ancora, più semplicemente, si rifletta sul successo planetario del calcio, rapportato al localismo degli iper-regolamentati sport americani. Il pubblico sportivo ama l'impresa extraordinaria. E poi i pareggi - la sublimazione dell'equilibrio - sono così noiosi!

Naturalmente non ci si attende che le Melandri - o i Pescante - di questo mondo siano rosi dal dubbio. Per citare l'estensore di questo magnifico articolo dell'Economist, «politicians like the notion of equality. Sportsmen should beware it. Politics is about majorities, averages and keeping lots of people happy. Sport is about individuals, excellence and winning and losing».

Possono, dunque, esistere motivazioni economiche in favore della vendita collettiva - ad esempio l'eventualità che ciò incrementi il valore complessivo del prodotto? Certamente sì. Queste motivazioni superano le obiezioni? Non possiamo affermarlo. Queste motivazioni legittimano l'imposizione ex lege della vendita collettiva? Certamente no. Ancor meno ove si consideri - Alessandro lo ricordava - che l'autonomia contrattuale delle parti aveva già prodotto in seno alla Lega Calcio l'instaurazione di alcuni meccanismi mutualistici.

Ma qui veniamo al punto! Perché il favore dei governi europei per la block exemption è precisamente orientato a scongiurare il pericolo che le Autorità Antitrust nazionali e la Commissione vanifichino i propri sforzi legislativi, sventando l'introduzione del virus del socialismo nel calcio.

Sarà dunque opportuno avversare la sottrazione del calcio al diritto della concorrenza, come fa ancora l'Economist qui, riassumendo l'intera vicenda? Non esattamente. Perché - aldilà del suo perverso sfruttamento - il problema vero della block exemption è di essere un'exemption. Ciò che sosteniamo, piuttosto, è la generalizzazione di un approccio più liberale alla politica antitrust, secondo la consapevolezza che - come dimostrato - spesso i famigerati cartelli non fanno poi troppo male, mentre le restrizioni da combattere fieramente sono quelle legali. Dopo tutto è la cifra del blog che ospita le nostre riflessioni.

PS Nel mio piccolo, avevo proposto alcune osservazioni sul tema calcio in questo IBL Focus di alcuni mesi fa.

* Le opinioni espresse in questo paragrafo sono da riferirsi esclusivamente all'autore del post e non rappresentano necessariamente la posizione dell'Istituto Bruno Leoni.

venerdì 27 luglio 2007

Block Exemption calcistica?

Alcune influenti voci, in Europa (The Indipendent European Sport Review caldeggiata dalla UEFA), vorrebbero che venisse concessa una “block exemption” al settore calcistico. Una block exemption rappresenta la possibilità – per le imprese interessate – di agire nei mercati non curandosi della normativa antitrust. Tale tipo di esenzione ha senso quando la struttura del mercato coinvolto non permette il fiorire della concorrenza, e dunque i migliori risultati a livello di benessere sociale vengono raggiunti lasciando le imprese libere di colludere (vedi ad esempio la R&S nel settore farmaceutico o gli orari dei voli nel settore del trasporto aereo). È questo il caso del calcio nei vari Campionati europei?

Discutendo di ricadute concorrenziali sul settore calcistico è necessario ampliare l’orizzonte al mercato a valle dell'emittenza televisiva. Ciò è dovuto al fatto che per le società calcistiche i ricavi derivanti dalla vendita dei diritti di trasmissione degli incontri rappresentano la parte maggiore degli incassi totali. Dal punto di vista delle emittenti televisive, il prodotto sportivo è praticamente insostituibile per le sue caratteristiche uniche. Tra tali caratteristiche si può in particolare segnalare, a differenza di ogni altro prodotto televisivo, l’altissimo interesse che genera nel pubblico nel momento stesso dell’evento e, insieme, la sua rapidissima deperibilità: dal massimo valore della diretta al minor valore della differita ravvicinata e degli highlights (la rassegna degli incontri di una giornata di campionato), fino allo scarsissimo valore dei giorni successivi all’evento, lo scarto temporale è assai breve.

Il potere contrattuale del generico venditore di diritti sportivi televisivi dipende in parte dal numero di sports che gli spettatori considerano alternativi. Negli Stati Uniti la varietà di sports amati dal pubblico è superiore rispetto a quella dei Paesi europei: baseball, basketball, football e hockey contro l’unica vera nostra passione, il calcio. Per questo motivo, la situazione in Europa è più complessa rispetto a quella negli States, da noi il pubblico viene attratto in modo continuativo quasi unicamente da un solo sport. In questo modo, una fonte essenziale di competizione, quella tra diversi sports, viene a mancare, dando modo alle imprese calcistiche di prendere ogni decisione con maggiore autonomia rispetto agli altri attori del mercato.

Solitamente, ogni sport professionistico viene organizzato sotto forma di lega, la quale si preoccupa di gestire i regolamenti, di mantenere equilibrate le competizioni, di curare i rapporti tra le squadre e la promozione dello sport, ossia di fare in modo che il valore complessivo generato dai partecipanti per il pubblico sia massimo. Abbracciando la teoria dell’entità singola si può affermare che ogni lega sia dal punto di vista concorrenziale un’entità unitaria, la quale compete innanzi tutto con le forme di intrattenimento sportivo (Formula Uno, tennis, palla-nuoto, ecc.) e poi con tutte le altre forme di intrattenimento in generale per occupare il tempo libero dei consumatori finali (i quali hanno pur sempre un monte-ore limitato da allocare tra partite trasmesse, eventi sportivi di altro tipo, cinema, concerti e così via). In conformità a questa dottrina, ed unitamente a quanto detto in precedenza, possiamo affermare che la lega calcistica sia un cartello. Mentre nelle altre industrie non ci si duole della cattiva performance dei concorrenti, anzi se ne trae beneficio, nell’industria del calcio e, in genere, in tutta l’industria dello sport, la scarsa competitività dell’avversario finisce per danneggiare anche i concorrenti. Infatti, affinché un singolo incontro ovvero un intero campionato attraggano il maggior numero di spettatori è necessario che le competizioni siano equilibrate e il loro esito altamente incerto. Ecco perché è importante che vi sia un’organizzazione sopra delle parti – la lega – che operi affinché tale equilibrio venga sempre mantenuto. È possibile, però, separare le decisioni che dovrebbero essere prese dalla lega attraverso la concertazione dei suoi membri per il bene sociale, da quelle che, invece, dovrebbero essere prese individualmente da ogni membro, affinché i consumatori possano godere dei benefici della competizione tra gli stessi. L’adesione ad un regolamento comune ed un calendario di date centralizzato ricade nella prima categoria. La determinazione del numero di biglietti messi in vendita ed il loro prezzo, invece, appartengono alla seconda.

Procedendo per tale via ci si imbatte nel fatto rilevante ai fini competitivi: la vendita dei diritti calcistici dovrebbe essere gestita in modo centralizzato dalla lega o individuale dalle singole squadre? Sorvolando le complesse tematiche giuridiche sulla titolarità di tali diritti, dal punto di vista economico esistono due principali argomentazioni da affrontare per giungere ad una risposta.

Il primo elemento riguarda la redistribuzione delle risorse tra le società facenti parte della lega. La vendita centralizzata assolve primariamente l’obiettivo mutualistico che le squadre nel loro insieme devono garantire tra più forti e più deboli. Ovviamente, le squadre maggiori avranno un bacino di tifosi superiore. Quindi, la domanda per le loro partite sarà maggiore rispetto a quella delle squadre più deboli. Questo, porta il valore dei diritti di trasmissione sugli scontri delle squadre più solide ad essere maggiore. Ciò, in ragione della maggior audience potenzialmente generata dai diritti sulle squadre più forti. Se dunque ogni squadra vendesse indipendentemente dalle altre i propri diritti, ed incassasse il solo valore corrispondente, sul lungo periodo potrebbero manifestarsi fenomeni controproducenti per la lega nel complesso. Le squadre più forti crescerebbero sempre di più grazie alle maggiori risorse disponibili in sede di acquisto dei giocatori e dei membri dello staff, mentre le squadre più deboli continuerebbero ad aggravare la propria situazione. Aumenterebbe la disuguaglianza e verrebbero incrinati gli equilibri dai quali dipendono tutte le squadre e la loro attrattività nei confronti dei tifosi. A tale problema viene posto rimedio attraverso la vendita centralizzata con susseguente suddivisione in parti uguali dei ricavi collezionati. In questo caso, però, a fronte della risoluzione di un problema, ne sorge uno nuovo. Infatti, l’incentivo delle squadre più deboli a rinforzarsi diminuirebbe se, comunque andasse, queste fossero certe di ottenere una quota uguale a quella degli altri membri della lega ed inoltre, quelle più forti si sentirebbero private di parte di quel valore che proprio grazie a loro il campionato nel suo complesso genera. Quest’ultimo punto assume grande rilevanza alla luce del fatto che le squadre più forti non sono coinvolte unicamente nel campionato nazionale ma anche in quello a livello europeo. Dovendosi scontrare con tutte le maggiori società calcistiche di ogni Paese si sentirebbero, quindi, doppiamente bisognose di quelle somme che con il sistema centralizzato andrebbero in favore delle squadre più deboli del campionato nazionale. In Italia, poi, è la squadra di casa il soggetto organizzatore dell’evento, ossia colui che rende disponibili gli ingredienti principali e le infrastrutture necessarie per lo svolgimento dell’incontro, sopportandone il rischio imprenditoriale.

Il secondo elemento riguarda gli effetti sugli assetti del mercato televisivo. La vendita centralizzata tende a concentrare in capo ad un’unica emittente i diritti dell’intero campionato, a meno di non ipotizzare la frammentazione dell’offerta (ad esempio dividendo gli incontri della stagione in più pacchetti), così da favorire l’acquisto da parte di una pluralità di soggetti. Con la vendita individuale, invece, appare meno probabile, sebbene non impossibile, che tutti i diritti vengano acquistati da un’unica emittente.

In considerazione del fatto che ogni singola squadra sia si parte della lega, ma sia anche un’impresa distinta che si assume tutti i rischi derivanti dalle proprie azioni e delle serie ricadute che la negoziazione collettiva potrebbe avere sui mercati a valle, sembra ragionevole schierarsi dalla parte di chi si dice contrario all’idea della block exemption del settore calcistico.

L’unica perplessità potrebbe aversi sull’elemento mutualistico che sembrerebbe essere stato trascurato. In realtà, l’osservazione dei fatti ha confermato che in Italia, per esempio, il sistema redistributivo faticosamente partorito in seno alla Lega Calcio dopo l’abbandono della vendita centralizzata, non sembra aver trasformato il campionato italiano in una competizione squilibrata. Evidentemente, l’esigenza di impedire che il cartello colludesse anche quando non necessario e che si provocassero ulteriori deterioramenti al mercato a valle ha prevalso sul resto; dimostrando, inoltre, l’esistenza di mezzi alternativi alla vendita centralizzata attraverso i quali una lega possa massimizzare la pressione competitiva tra i suoi membri.

Alla ricerca dei fanatici

Ma dove sono “i fanatici del mercato”? Per favore fatemeli conoscere, perché in Italia io non li vedo proprio. Li vede, invece, Alberto Musy in un articolo recentemente pubblicato su www.agendaliberale.it. L’analisi fornita da Musy delle dinamiche che stanno irrevocabilmente modificando la realtà dell’avvocatura è eccellente e vi si rinvia senz’altro.
Ma c’è un punto che proprio non riesco a condividere.
Secondo Musy, i “fanatici del mercato” vedono il mondo delle professioni “come il paradigma dell’autoreferenzialità corporativa”. Ma non sono certo i fantomatici “fanatici del mercato” a vedere così il mondo delle professioni.
Piuttosto, sono i clienti (quelli che certi avvocati si ostinano a chiamare “assistiti”) a rendersi conto ogni giorno che i servizi professionali sono inadeguati, che i prezzi sono esagerati, che nell’avvocatura l’etica è una merce rarissima. Sono i clienti, a chiedere che il mercato sfondi le frontiere della corporazione. Come lo chiedono? Semplice: le parcelle (quelle che rispettano rigorosamente le “tariffe”, e non chiamateli “prezzi”, per carità!) vengono pagate quando capita. Basta chiedere alla massa degli avvocati: è più il tempo usato per chiedere i soldi agli ex clienti (scusatemi ancora: si chiamano “assistiti”!) che quello impiegato per difendere gli interessi del proprio patrocinato. Sono tariffe avulse dalla realtà, che esistono perché si vuole l’assenza di una contrattazione: la reazione sta nel non pagare.
Piuttosto, sono i giovani a rendersi conto ogni giorno che il mondo della professione è totalmente autoreferenziale: regole deontologiche surreali (mentre non c’è alcun rispetto per l’etica della professione, e talvolta nemmeno per la buona educazione) radicate in normative degli anni Trenta (per gli avvocati) o anche prima (per ingegneri o architetti), esami di Stato assurdi, finalizzati solamente ad impedire che il mercato selezioni chi sa lavorare bene, divieti di pubblicità che hanno lo scopo esclusivo di difendere chi esercita l’attività professionale già da decenni.
Sì, i fanatici del mercato: mi piacerebbe proprio che in Italia ci fossero milioni di fanatici del mercato.

mercoledì 25 luglio 2007

Una golden share europea? / 2

Il commissario europeo al Commercio Peter Mandelson torna sulla proposta di una golden share europea in un lungo dialogo con Giuseppe Sarcina sul Corriere. Il suo tentativo è quello di coniugare la difesa delle regole del mercato con la pragmatica accettazione dell'influenza franco-tedesca sulle decisioni di Bruxelles. "Il nostro punto di partenza - dice Mandelson - è che dobbiamo mantenere la libera circolazione dei capitali in Europa e a livello internazionale". In presenza di investimenti pubblici stranieri, per esempio attraverso i fondi sovrani, il discrimine, per Mandelson, deve essere la loro natura: si tratta di operazioni commerciali o politiche?

Mandelson fa alcuni esempi: l'ingresso della China Development Bank nella Barclays apparterrebbe alla prima categoria. (Sarebbe ingeneroso pensare che Mandelson si lasci influenzare dal fatto che i cinesi, con la loro mossa, rafforzano l'offensiva del gruppo inglese su AbnAmro, contrastata da un terzetto composto da Royal Bank of Scotland, Santander e Fortis). Più delicati, secondo Mandelson, potrebbero essere i casi delle reti elettrica e del gas o del colosso Eads (da cui nasce tutta la saga: la golden share europea è la risposta di Bruxelles alle ansie nazionalistiche di Merkel e Sarkozy). Perché mai? Nel caso delle reti, ciò che veramente conta è il principio della separazione proprietaria rispetto a chi opera nella produzione o vendita di elettricità e gas; il loro azionariato è irrilevante. Per quel che riguarda Eads, poi, non si capisce davvero dove stia il problema.

La sensazione, insomma, è che il povero Mandelson sia costretto all'ennesima mediazione con se stesso. Una tesi avvalorata dalle dichiarazioni di Alistair Darling, neocancelliere dello scacchiere, che - in una sorta di attacco preventivo alla linea Merkel-Sarkozy - ha precisato che il Regno Unito continuerà ad accogliere di buon grado qualunque investimento da parte di chiunque voglia esportare capitali sui suoi mercati. Darling ha colto la natura protezionistica della golden share, sia essa nazionale o europea, e ha rispedito il progetto al mittente. Fortunatamente, una posizione critica è quella assunta anche da Emma Bonino, che ha interpretato la convinzione che la libertà di mercato sia un valore non negoziabile.

martedì 24 luglio 2007

Bersani visto da Bersani

Il Ministro dello Sviluppo Economico ha presentato una prima valutazione dell'impatto dei provvedimenti di "liberalizzazione" da lui patrocinati nell'ultimo anno. Il dossier è accessibile sul sito del governo.
Cicero pro domo sua, com'è ovvio, ma la presentazione del dossier parrebbe entusiasmante:

Secondo le prime stime parziali, condotte dagli uffici del Ministero dello Sviluppo economico, proiettando nell’arco temporale di un anno gli effetti rilevati ad oggi, è possibile fotografare in una soglia compresa tra 2,4 e 2,8 miliardi di euro il risparmio annuo sulla spesa dei consumatori derivante da 5 misure di liberalizzazione, fra le oltre 30 varate.

Tale stima è stato calcolata sulla base di ipotesi prudenziali e minime, derivanti da una valutazione tecnica riferita al settore della telefonia (abolizione dei costi fissi di ricarica), ai minori oneri per il trasferimento di proprietà dei beni mobili e per la cancellazione delle ipoteche ed, infine, ad una valutazione dei primi effetti degli sconti sui farmaci da banco e dell’abbassamento delle tariffe aeree.

Il problema, guardando più da vicino queste stime, è che si cammina davvero sul filo del post hoc ergo propter hoc. Riguardo ai medicinali da banco, oltre ad uno studio di Federconsumatori, il ministero cita a favore del proprio provvedimento dati certi ed interessanti: quanti sono i nuovi esercizi?
Alla data dell’11 luglio 2007, risultano 1.148 gli esercizi commerciali che hanno completato la procedura di registrazione presso il Ministero della Salute per la vendita dei medicinali da banco: nel 79% dei casi si tratta di esercizi di vicinato (parafarmacie ed erboristerie) e nel restante 21% di reparti di esercizi della media e grande distribuzione.
Quanti hanno semplicisticamente sostenuto che Bersani stesse solo "facendo un favore alla Coop", dovrebbero ripensare le proprie posizioni. Bersani ha soprattutto fatto un favore ai laureati in farmacia che legittimamente coltivano l'ambizione di avere un'attività propria.

Più complicato il ragionamento sugli altri fronti.
Prendiamo il caso della telefonia:

Si è ridotto del 14,2% il livello dei prezzi nella telefonia mobile. I dati ISTAT sulle tariffe dei servizi di telefonia mobile hanno registrato una marcata riduzione (-14,4%) avvenuta in corrispondenza dell’entrata in vigore delle disposizioni relative all’abrogazione del costo fisso per le ricariche.
Una correlazione non è una causa, e per quanto possa essere forte la correlazione in questo caso, la regola generale nondimeno tiene.
Del resto, quantificare i risparmi per l'abrogazione del costo fisso per le ricariche pare essere veramente un'opera improba, perché a parità di traffico e dunque di spesa, tale costo aveva un peso radicalmente diverso a seconda del numero di ricariche acquistate (in qualche modo, della "pianificazione" di spesa adottata).

Discorso non dissimile sulle tariffe aeree. Il ministero cita una corrispondenza fra diminuzione dei prezzi e l'"operazione trasparenza" contenuta nel secondo round di liberalizzazioni, ma quanto solido sia il legame fra una cosa e l'altra resta da vedere.

Altre considerazioni, che non rietrano nel computo dei risparmi, sono invece interessanti e significative.
Due, in particolar modo.

L'indennizzo diretto.

Da febbraio ad oggi la percentuale degli automobilisti risarcita con l’indennizzo diretto è passata dal 7 al 65% (mediamente entro 40 giorni).
Si tratta di una misura utile e di vero stimolo per la concorrenza: dovendo rimborsare il proprio assicurato, una compagnia di assicurazione è indotta a trattarlo bene (per tenerselo stretto, come cliente). Il fatto che i tempi di risarcimento si siano accorciati lo dimostra.

I panifici.

Altra misura svilita nel dibattito pubblico, ma i cui esiti appaiono interessanti:
Da quando (luglio 2006) è entrata in vigore la norma che ha eliminato l’obbligo della licenza, con relativo contingente numerico, per l’avvio dell’attività di produzione del pane, il numero delle imprese che hanno utilizzato tale opportunità è andato progressivamente aumentando: alla fine di giugno 2007, infatti, su 5.024 nuovi impianti di panificazione avviati nell’ultimo anno, ben 3.793 (pari al 75% circa) hanno aperto senza licenza.
E' evidente allora che riducendo le difficoltà per l'avviamento, aumenta la possibilità di entrare in un mercato e, di conseguenza, il numero degli esercizi.

lunedì 23 luglio 2007

Una golden share europea?

Il commissario europeo al Commercio Peter Mandelson ha ceduto alle richieste di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy e ha aperto la porta a una "golden share" europea. Il cancelliere tedesco e il presidente francese avevano fatto la voce grossa contro la pretesa della Commissione di creare un autentico mercato interno, impuntandosi in particolare sull'intransigenza di Bruxelles di fronte al ricorso, da parte degli Stati membri, a golden share et similia per impedire opa straniere. Quello di Mandelson è quindi un tentativo disperato: piuttosto che lasciare le manovre difensive ai singoli paesi terrorizzati dal "rischio" di cedere attività strategiche a imprese straniere, magari a controllo pubblico - è il suo ragionamento - meglio creare un regime europeo della golden share. Nel breve termine può anche essere una mossa sensata, e di sicuro darà qualche grana a Merkel e Sarkozy. Del resto, la Commissione è generalmente più orientata alle liberalizzazioni di quanto non lo siano gli Stati membri, anche se Neelie Kroes qualche volta pare muoversi più da terminator del mercato che da sincera supporter della concorrenza. Ma se il principio dovesse passare, nel medio o lungo termine potrebbe essere foriero di problemi molto grossi, perché estenderebbe il protezionismo a tutta Europa in tutti i settori, mentre oggi (con l'eccezione forse della Francia, che protezionista lo è su tutto) ciascun paese è protezionista in alcuni settori ma liberista in altri.

domenica 22 luglio 2007

Letta, il Pd e le liberalizzazioni / 2

UPDATE Walter Veltroni annuncia le 10 riforme per cambiare l'Italia. Tutte cose interessanti. Però non c'è nulla che abbia a che fare con la politica economica, se si esclude il frusto e poco credibile (viene dal sindaco di Roma) richiamo al federalismo fiscale.

Alberto Mingardi è scettico sulla candidatura di Enrico Letta alla leadership del Partito Democratico. Nella sostanza, la posizione di Alberto è: Letta predica bene ma non razzola. Di fronte a quella che, per lui, è la "comprovata indifferenza lettiana", insinua (ma veltronianamente non dice) che forse sarebbe meglio "l'anguillesca ambiguità veltroniana".

La penso esattamente all'opposto. Il Pd può essere e in parte è già stato, per il sistema politico italiano nel suo complesso e per il centrosinistra in particolare, un fenomeno positivo, che induce semplicità e chiarezza. Perché ciò accada, serve però che il profilo del Pd sia apertamente riformista, che vuol dire: riformista in politica economica. Tutto il resto è dettaglio. Ora, Alberto concede che Letta predica bene (Veltroni non predica, Rosy Bindi predica male, Furio Colombo berlusconeggia). E questo è già un punto a suo favore. Intendiamoci: Letta è cresciuto nell'Arel di Beniamino Andreatta. La sua idea del mercato non coincide con la nostra. La sua visione è, per così dire, monopoliofobica (nel senso dei presunti monopoli privati) e il progetto di riordino delle authority ne è una dimostrazione. Tuttavia, in un paese dove i monopoli sono monopoli pubblici, all'atto pratico la distanza rispetto a chi, come noi, ritiene che liberalizzare significhi sostanzialmente rimuovere le barriere legali, regolatorie, fiscali e parafiscali all'ingresso non è abissale. Letta ha anche posizioni ragionevoli su un tema come quello delle pensioni, che esprime abbastanza chiaramente nell'introduzione al bel libro di Marianna Madia (nella quale pure non compare una sola volta la parola "scalone"). E in generale Letta è sensibile ai problemi delle imprese e, in un governo diverso da questo, ha fatto (e molto) per liberalizzare.

Alberto ribadisce che, nell'intervista ad Aldo Cazzullo e nella sua azione di governo (questo), Letta è stato defilato. Per lui è una critica, per me un punto di merito. Come poteva, uno con le sue convinzioni e nella sua posizione, fare altrimenti? Uscire allo scoperto avrebbe voluto dire venir meno alle responsabilità di cui è investito. Suppongo che, dentro di sé, Letta abbia del primo anno di governo Prodi un'opinione non molto diversa da quello della maggior parte degli italiani, compresi molti che l'avevano appoggiato. D'altronde, gettare la spugna significherebbe lasciare l'esecutivo ostaggio della sinistra sinistra ancor più di quanto non sia, e sarebbe dunque una grave dimostrazione di immaturità. Detto altrimenti: senza quel poco o tanto che Letta ha fatto, il bilancio del governo sarebbe ancora più in rosso.

Sono quindi convinto che, per quanto improbabile, un'affermazione di Enrico Letta farebbe bene al Pd, al governo e al paese. Il vero rischio è che l'anguillesca ambiguità veltroniana affoghi nel nulla un progetto, come quello del Pd, che ha potenzialmente una importante carica innovativa. Nonostante tutto, meglio il silenzioso (forse anche impercettibile, dal punto di vista degli effetti, ma certo non dannoso) lavorio lettiano.

Letta, il Pd e le le liberalizzazioni

Il Corriere della sera, con un lungo articolo di Aldo Cazzullo, annuncia oggi la discesa in campo di Enrico Letta, per le primarie del Pd.
Che c'entra con le liberalizzazioni, di cui si parla su questo sito?
Le questioni di quadro politico sono ovviamente fondamentali, anche per le singole policies che in quel quadro vanno poi a situarsi. E Letta, poi, è l'alter ego di Pierluigi Bersani, insieme hanno fatto un "Viaggio nell'economia italiana", Letta fa parte di quel non ristretto gruppo di "forever young" che in un'Italia gerontocratica pretendono che il solo fatto di non avere i capelli grigi valga loro come patente di outsider, Letta parla al Nord (di recente ha fatto tappa in Veneto, anche a Verona per la prima del "Nabucco", riverito eppure distante dai caporioni leghisti che presidiavano il palco d'onore), è uomo vicino al mondo dell'impresa, insomma dovrebbe incarnare il volto riformista e moderno della sinistra e del Pd.
Del resto, su tutte le grandi questioni economiche la risposta di Walter Veltroni, per ora, è il non dire. Il suo discorso di Torino è stato ecumenico e liscio, per piacere a tutti bisogna dosare le pause.
Letta intervistato da Cazzullo, al contrario, posizioni ne prende. Una impolitica ma simbolicamente fortissima: la rivalutazione degli anni Ottanta, "anni straordinari", "la formazione di chi era ragazzo allora è stata forse più equilibrata di quella della generazione precedenti". Giusto. Solo che di lì a poche righe, Letta parla di un avvicinamento alla politica "dopo la crisi delle ideologie", fingendo che gli anni Ottanta non siano stati sì quelli del tracollo di un'ideologia, ma anche quelli dell'evidente vittoria storica del modello capitalista, che ebbe la ventura di trovare, finalmente, due facce politiche adeguate a rappresentarlo: Thatcher e Reagan.
Ancora, Letta gioca di sponda col partito "dei giovani", parla di innalzamento dell'età pensionabile, poi però plaude all'accordo spuntato da Prodi coi sindacati.
Soprattutto, però, non nell'articolo ma nelle cose non si può ignorare un dato di sostanza: il Letta che ora si presenta come uomo degli imprenditori (indicati come "caldeggiatori" della sua candidatura), è lo stesso che in un anno e rotti di governo non ha mai fiatato quando l'impresa e la concorrenza venivano cannoneggiati.
Il suo nome è legato solo ad un provvedimento, che dal punto di vista del mercato ha luci ed ombre: il progetto di riordino delle authorities. Il suo gemello emiliano Bersani vanta un operato discutibile, ma qualcosa di tangibilmente coerente con il suo profilo elettoral-intellettuale almeno l'ha fatto.
Il giovane Letta è al fianco di Prodi come un centurione, come lo zio era stato con Silvio Berlusconi. La sua candidatura ha oggettivamente il merito di spezzare l'ipocrisia del ticket Veltroni-Franceschini (ma ci aveva già pensato la Bindi). Ma, nel merito delle cose, vale la pena chiedersi se è davvero peggio - per quanti coltivano la speranza di un Pd non chiuso ai valori del mercati - l'anguillesca ambiguità veltroniana, della comprovata indifferenza lettiana.

P.S.: L'autore di questo post non ha la benché minima intenzione di votare alle primarie del partito democratico.

venerdì 20 luglio 2007

Le lenzuolate di Harry Potter

Il presidente dell'Adam Smith Society Alessandro De Nicola ha scritto, sul Sole 24 Ore di ieri, un bellissimo articolo sulla lezione liberale dell'Ordine della Fenice, il quinto episodio della saga di Harry Potter. Lo incollo qui sotto nella convinzione che, dove non arriva la teoria economica, possa arrivare Hollywood.

Da Hogwarts una lezione di deregulation

di Alessandro De Nicola

La battaglia con Voldemort? Noo
Il bacetto di Harry con Cho Chang? Naa
L'assalto dei Dissennatori allora? Ma via.
Se c'e' una scena che vale da sola il nuovo film di Harry Potter ("L'ordine della Fenice") essa vede protagonisti due comprimari del racconto, i gemelli Weasley.

I due ragazzi dai capelli rossi sono una fucina di scherzi e goliardate ma non esattamente dei secchioni. All'ennesima punizione della nuova professoressa della scuola per maghi di Hogwarts, l'odiosa miss Umbridge, i due si guardano in faccia sogghignanti e mormorano "la scuola non è tutto nella vita". Quando viene l'ora del l’esame finale, che si svolge nel silenzio più totale sotto lo sguardo accigliato della Umbridge, i gemelli danno fondo al loro repertorio: botti, fuochi, girandole. Crollano i 123 divieti appesi sul muro (una scena epica: la regolamentazione che rovina su se stessa sommergendo il regolatore), tutti gli alunni escono all'aria aperta sciamando con grida liberatorie e i Weasley se ne volano con le scope magiche non senza aver disegnato nel cielo una "W" infuocata, marchio della loro attività imprenditoriale che li renderà milionari. Bellissimo. Per chi ama il genere è una citazione dei romanzi di Ayn Rand, autrice cult dei libertari di ogni risma (compreso il giovane Alan Greenspan), la quale raccontava storie di individui che riuscivano tra mille ostacoli burocratici a far emergere e fiorire la loro creatività e genio.

Harry Potter ha sempre diffuso messaggi liberali, ma "L'Ordine della Fenice" supera i precedenti: può diventare ciò che è stato per i socialisti umanitari "I miserabili" di Victor Hugo (sì, d'accordo, sto enfatizzando un po'). Vediamo il perché.

La follia del regolamentatore. Miss Umbridge è stata delegata dal Ministero della Magia a raddrizzare le cose ad Hogwarts. Comincia perciò ad emanare una serie di divieti che il custode Gazza appende al muro, ma ad ogni nuova regola gli studenti trovano il modo di aggirarla o sorgono conseguenze inintenzionali, ergo l’ineffabile professoressa ne emana sempre una nuova fino a che il muro non riesce più a contenerli ed arriva la nemesi dei Weasley.

Nemo judex in re propria: il Ministro della Magia Caramel, il cui ritratto in stile sovietico capeggia dappertutto (i riferimenti a “1984” di Orwell sono sublimi), non è un cattivo uomo ma si mette a presiedere il Tribunale che deve giudicare un’infrazione di Potter ed è portato a confondere le sue convinzioni accusatorie con il suo ruolo imparziale. Meno male che arriva il preside di Hogwarts, Albus Silente, a raddrizzare la situazione, ma nella realtà di tutti i giorni Silente non c’è …

Il governo non ci arriva mai. Il governo non ha un punto di vista privilegiato sulle vicende umane. Le informazioni sparse nella società e nel mercato gli giungono incomplete, in ritardo, distorte e le decisioni conseguenti sono dettate da motivazioni politiche. Ecco perché Caramel e la sua cricca negano, contro ogni evidenza, che Tu-sai-chi, il terribile Voldemort, sia tornato: è una notizia vera ma non politicamente conveniente perciò meglio essere prigionieri delle proprie menzogne.

Libertà di educazione. La pestifera Umbridge toglie l’autonomia ad Hogwarts ed impone un insegnamento ministeriale solo teorico da effettuarsi sul manuale approvato dall’Autorità competente. Risultato: i ragazzi non imparano niente.

Libertà è responsabilità. Il film mostra anche come un popolo di servi non raggiunga la libertà, che richiede schiena dritta. Ecco l’Ordine della Fenice che, come massoni e carbonari del Risorgimento, si organizza contro il malvagio Signore delle tenebre. Ed ecco Harry che crea la sua scuola privata in cui si impara veramente la difesa contro le arti oscure.

I vantaggi della cooperazione volontaria. Harry è un grande maghetto, ma è la collaborazione spontanea con i suoi amici, l’intelligente e preparata Hermione (la figura che adoro di più), il fedele Ron, la pazzerella Luna, il coraggioso padrino Sirius Black che porta alla vittoria contro il Male. Non è una grande massa collettiva ispirata da un leader rivoluzionario, ma un insieme di individui che si aiutano intelligentemente.

Viva la diversità. I diversi, gli originali, gli emarginati sono il sale del film. La società di eguali è un incubo. Ci vogliono il bizzarro professor Malocchio Moody, l’eterea Luna Lovegood, i centauri, il gigantesco Grop fratello dell’irsuto Hagrid, per formare una società aperta, che vive, pulsa ed ama la libertà.

Insomma, chi se ne importa degli effetti speciali, dei dialoghi, persino del senso dell’umorismo presenti nel film. “L’Ordine della Fenice” è un messaggio meraviglioso per gli adolescenti che stanno andando a vederlo a frotte: la libertà ci fa crescere e crescere vuol dire diventare liberi e responsabili.

giovedì 19 luglio 2007

La politica fiscale passa, le liberalizzazioni restano

Prendendo spunto dall'articolo "Una lenzuolata, ma di tasse" comparso oggi sulla testata settimanale Economy, possiamo tentare di contribuire al dibattito in corso sull'oscuro concetto di liberalizzazione e di come i suoi effetti vadano misurati. Per quanto riguarda i problemi del primo ordine, quelli definitori, rimando il lettore interessato agli interventi di Massimiliano Trovato sul presente Blog, e di Carlo Stagnaro nell'introduzione all'Indice del 2007. Per quanto concerne, invece, la comprensione dei suoi effetti, è necessario iniziare a discuterne, perchè fino ad ora, pochi lo hanno fatto.

Troppe volte si tira in ballo la "liberalizzazione" per parlare poi di tutt'altro. Una consapevole misurazione degli effetti della contendibilità dei mercati è necessaria in quanto svincola la - ovvia - lotta che ne segue dall'ombra della crociata. Un'eventuale valutazione positiva - in termini di efficienza (diminuzione dei prezzi reali al consumo) - di una generica liberalizzazione, rappresenterebbe al contempo la premessa e la conferma della desiderabilità del processo.

Quando ci si ferma a riflettere di liberalizzazioni non credo sia fondamentale parlare di politica fiscale. Non si vede come una manovra restrittiva sul versante contributivo possa inficiare la riuscita di una liberalizzazione. Una modifica istituzionale, di revisione delle "regole del gioco", è un qualcosa di assolutamente indipendente dalle variabili toccate dall'aumento della pressione fiscale, e produrrà i suoi effetti per tutto il periodo in cui rimarrà in vigore. Una volta che una buona regola viene scritta, tale rimarrà anche in futuro. La politica fiscale, invece, produce la grossa parte delle sue ricadute sul breve periodo, e non c'è modo per il quale "un'invadente" richiesta contributiva possa andare ad intaccare la nostra buona regola. Difficile approvare, dunque, un giudizio negativo sul tentativo di liberalizzazione perchè - tale processo - sia stato accostato ad una politica fiscale restrittiva. Potremmo discutere sull'effetto congiunto delle due differenti manovre, o se sia più o meno coerente tale decisione di politica economica, o ancora, se il processo di liberalizzazione - e solo lui - stia producendo gli effetti desiderati, ma non affermare di voler andare dal dentista in seguito ad un forte dolore al ginocchio.

Nel tirare le somme sulla "lenzuolata", inoltre, sarebbe saggio accostarsi all'acuta osservazione di Della Vedova richiamata poco sotto da Alberto Mingardi: non si può giudicare irrilevante un tentativo di spinta alla contendibilità unicamente perchè i mercati coinvolti abbiano (apparentemente) un impatto irrisorio sul PIL, e le aspettative degli agenti dove le mettiamo? Per quanto piccoli sul breve, l'insieme degli effetti - diretti ed indiretti sui prezzi nominali e sugli umori - potrebbero avere ricadute importanti sul lungo, e contribuire ad innescare un processo emoliente sui tessuti sclerotici dell'economia italiana.

martedì 17 luglio 2007

Bersani "comunque"

Benedetto Della Vedova ha dato un'intervista molto saggia, rispetto al bilancio delle liberalizzazioni volute dal ministro Bersani. Della Vedova giustamente rileva il carattere "consumerista-populista" di molti dei provvedimenti contenuti nelle 'lenzuolate' (per un esame in dettaglio, vedi l'ultimo Position Paper IBL), ma ammette pure che il ministro ha impresso un cambio di passo al dibattito.
Questo è un punto che non va trascurato. La reazione tipica delle destre è quella di deridere le liberalizzazioni dei parrucchieri, o dei farmacisti. Ma fintanto che di liberalizzazioni "vere" si tratta, cioè di provvedimenti che rimuovono vincoli all'operare degli attori economici, va benissimo anche se l'ambito su cui incidono è ridotto. Sono passi nella direzione più opportuna, comunque. Diverso il discorso quando si usa la clava consumerista anziché - suggerisce Della Vedova - agire più opportunamente sulle condizioni di sistema, a livello fiscale.
Pensate a tutto il dibattito sul costo del carburante, nel quale la riduzione delle accise non viene mai nominata. "Superliberisti" esclusi, ovviamente.

lunedì 16 luglio 2007

Liberalizzazione del trasporto ferroviario.

Un nostro lettore ci scrive “no alle liberalizzazioni selvagge” e argomenta la sua tesi con tre punti principali di critica:

1) Nel settore “c'è una totale mancanza di regole che non permette il decollo delle liberalizazzioni, anzi lascia la parte più redditizzia ai privati e fa gravare le perdite naturali del trasporto universale sulla collettività”.
2) “Manca un ccnl che tutte le imprese che operano nel settore ferroviario applichino, in questo momento i lavoratori del gruppo FS sono tutelati e lavorano in sicurezza e gli altri? Questo vuol dire concorrenza sleale perchè per le FS il costo del lavoro è più alto.”
3) “TRENITALIA SpA è una azienda a totale partecipazione statale, che paga gli affitti delle tratte come una qualsiasi azienda privata a RFI (detentore delle rete), e come può fare una qualsiasi altra società che decida di mettersi sulle rotaie.”

Nel settore del trasporto ferroviario le regole in teoria esistono, ma come diciamo noi, non vengono applicate.
Nello specifico, un conto è avere la norma, un conto è applicarla e proprio per questo motivo abbiamo distinto la prima parte dell'
indice in leggi (pesa il 9 % dell'indice globale)ed accesso (21% del totale). Ricordo che il lavoro prende come benchmark un paese e non una situazione ideale di liberalizzazione; il livello raggiunto in Italia dall’indice normativo e di accesso è dunque relativamente buono.
È stata fatta la separazione tra RFI e Trenitalia, ma fanno parte della stessa holding. Formalmente la legge è stata fatta...
Esiste un ente indipendente per la regolazione del settore (Ufficio Regolazione Servizi Ferroviari), ma in realtà non ha alcun potere.
Manca piuttosto un'autorità dei trasporti.
Le ricerche Eurostat confermano che l'Italia non ha una situazione tragica nella normativa.
Il livello di sicurezza per i lavoratori deve essere massimo; questo non pregiudica il fatto che possano esistere degli operatori di altri paesi dell’Unione Europea che possano venire a competere sul mercato. Il contratto dei lavoratori Ryanair non è lo stesso di quello dei dipendenti Alitalia. Questa è liberalizzazione selvaggia?
Infine Trenitalia può teoricamente competere sul mercato come qualunque altro concorrente, ma di fatto sul mercato italiano l'indice di Herfindhal, che misura la concentrazione, è elevatissimo. Sulle rotaie possono andarci tutti, ma se lo spazio è già occupato da qualcuno, allora non esiste una concorrenza effettiva...
Il vero problema del trasporto ferroviario italiano è che nonostante esistano le leggi, non si sia sviluppato un mercato concorrenziale.

Un premier per un Paese normale



Liberalizzazione dei farmaci: risultati... scontati

Secondo i risultati di un’indagine realizzata dall’Osservatorio nazionale prezzi, tariffe, servizi di Federconsumatori, la legge sull’apertura dei circuiti di distribuzione dei farmaci da banco ha innestato un “circolo virtuoso” che ha consentito di abbassare i prezzi, a beneficio dei consumatori. Su un paniere di 20 farmaci da banco di ampio consumo, lo sconto medio praticato nelle farmacie si è attestato intorno all’8,54%, nelle parafarmacie private al 9,12% e nei corner farmaceutici dei supermercati al 20,62%.
Se i risultati sono stati al di sopra delle aspettative, però, non possiamo adagiarci sugli allori. I farmaci da banco, infatti, rappresentano solo il 14% del mercato totale, ma le spese di gestione di una parafarmacia sono le stesse di una farmacia tradizionale. È difficile dunque sperare che i nuovi esercizi possano aumentare, rafforzando la concorrenza ed abbassando ulteriormente i prezzi, se non verranno fatti ulteriori passi avanti nell’apertura del mercato. Cominciando dalla vendita dei farmaci di fascia C al di fuori del circuito tradizionale: si tratta di una fetta di mercato di oltre 5 miliardi l’anno, che i consumatori devono sborsare di tasca propria. Ci sembra quindi giusto che sia il consumatore a decidere se acquistarli in una farmacia, o in una parafarmacia, che magari potrà praticargli uno sconto maggiore.

sabato 14 luglio 2007

Poste: la concorrenza (non) può attendere

Sembra che l'ultima tappa del processo di liberalizzazione dei servizi postali in Europa sia destinato a spostarsi ancora nel tempo. Inizialmente prevista per il 2006, l'abolizione della riserva legale per i plichi che pesano meno di 50 grammi, che gli stati possono (non devono, ma lo fanno ben volentieri) riconoscere al fornitore del servizio universale (da leggersi:
ex monopolista pubblico) potrebbe verificarsi nel 2011. Salvo ulteriori dilazioni, e con un certo margine di eccezioni...

Il Parlamento Europeo ha infatti emendato con ampia maggioranza la proposta della commissione di aprire alla concorrenza l'ultimo, e più consistente, segmento di mercato: la proposta dovrà ora tornare indietro, secondo la procedura di codecisione, alla ricerca di un compromesso.

Si tratta di una decisione gravissima, che non solo rallenta l'apertura alla concorrenza, e gli inevitabili benefici che questa arreca, ma in più danneggia gli operatori – diversi dall'incumbent – che hanno investito in un mercato prossimo alla liberalizzazione, e che questa liberalizzazione vedono allontanarsi di anno in anno. Ma non tutto il male viene per nuocere, secondo Sergio Bellucci, di Rifondazione Comunista: «questo è un segnale evidente della crisi strategica delle liberalizzazioni del settore. I servizi in rete dimostrano sempre più la loro valenza pubblica, rivelandosi asset vitali per la collettività. Il governo deve prenderne atto ripensando nel complesso la sua politica industriale nei settori dei beni comuni».

Proprio perché essenziali per la collettività, questi servizi non possono essere sottratti alla concorrenza, che permette di razionalizzarne l'utilizzo attribuendo il controllo delle risorse all'operatore che meglio sa utilizzarle: il governo dovrebbe prenderne atto rimodulando la sua azione all'insegna di una maggiore incisività nel portare avanti una riforma utile e giusta. Utile per i consumatori, che vedrebbero migliorata la qualità dei servizi, e giusta nei confronti di chiunque voglia entrare nel mercato, che non debba incontrare barriere di diritto - la riserva legale - o di fatto - il controllo della rete da parte di uno dei concorrenti.

È paradossale, ma non troppo, che Rifondazione si schieri a favore del colosso parastatale Poste Italiane, senza preoccuoparsi dei 2-3000 dipendenti delle diverse agenzie private di recapito private che rischiano in questi giorni di chiudere i battenti perché, allo scadere dei contratti stipulati con Poste per il periodo transitorio che doveva terminare nel 2006, il nuovo bando, emesso con il beneplacito del governo, è fortemente penalizzante. Troppo spesso si dimentica che difendere la concorrenza significa innanzitutto difendere il diritto di chi vuole, e sa, lavorare bene ad entrare nel mercato.

venerdì 13 luglio 2007

Liberalizzazioni. Cosa resta da fare?

E' disponibile la registrazione del convegno Liberalizzazioni. Cosa resta da fare?, organizzato dall'Istituto Bruno Leoni il 12 luglio 2007, in occasione del quale è stato presentato l'Indice delle liberalizzazioni 2007. Un ringraziamento a Radio Radicale.

giovedì 12 luglio 2007

Hanno ammazzato Mario, Mario è vivo

La societa' elettrica francese Schneider ieri ha vinto un'importante battaglia legale con la commissione Ue, visto che la Corte di prima istanza del Lussemburgo ha ordinato alle autorita' Antitrust europee di rimborsare in parte il gruppo per aver bloccato, sei anni fa, la sua fusione con Lagardere. Si riaprono così le polemiche sulle decisioni, in tema di fusioni, prese dal Professor Mario Monti quando era Commissario europeo. Il suo fantasma, fra un fondo sul Corriere e l'altro, continua ad aggirarsi per l'Europa.
Oggi il Wall Street Journal Europe, in un editoriale, arriva addirittura ad ipotizzare che dopo la vittoria di Schneider - che segue il precedente rovesciamento della sentenza da parte della Corte, e che consolida un trend, del quale con Paolo Zanetto abbiamo parlato in più di una occasione (vedi qui e soprattutto "Colpirne uno per educarne cento") - anche Microsoft possa ottenere soddisfazione.
In realtà, il WSJ fa bene a puntare il dito su una questione di fondo, e di grande importanza: ovvero la forma dell'Antitrust europeo, che è giudice dei suoi stessi teoremi. Una sorta di inquisizione spagnola, in cui l'unico vero giudice terzo si incontra in una fase successiva di giudizio: in appello, appunto.
Ciò rappresenta costi notevoli per le imprese, non solo perché crea un clima per nulla collaborativo rispetto alle istituzioni europee (anzi, si vive in una sorta di paura permanente del regolatore), ma anche perché allunga notevolmente costi e tempi legali.
Il fatto che la Corte abbia inchiodato Bruxelles alle sue responsabilità, costringendoli ad un risarcimento per le opportunità imprenditoriali fatte perdere e i costi legali sostenuti, è una buona notizia. C'è un giudice a Lussemburgo. Ma, in una visione non conflittuale ed adulta del mercato, le opportunità che le imprese riescono a cogliere si trasformano in benefici per il consumatore. Ecco, di queste opportunità sprecate, i consumatori, chi li risarcirà?

mercoledì 11 luglio 2007

Indice delle liberalizzazioni

È online l'Indice delle liberalizzazioni 2007, che si propone di valutare il "grado di liberalizzazione" in otto settori strategici della nostra economia e della nostra economia in quanto tale - il risultato, 52 per cento, suggerisce che qualcosa abbiamo fatto, quando proprio ci hanno tirato per i capelli, ma ancora molto resta da fare. Bisogna riconoscere, tuttavia, che tale valore, come ogni media, nasconde eccellenze (l'elettricità, 72 per cento) e disastri (le poste, 38 per cento). In generale dice però che, all'Italia, le liberalizzazioni servono, eccome. Ne parliamo domani giovedì 12 luglio al convegno "Liberalizzazioni: cosa resta da fare", a Milano.

PS Dell'Indice hanno parlato, tra gli altri, il Sole 24 Ore, il Foglio, il Giornale e Libero Mercato.

martedì 10 luglio 2007

Santi, poeti, navigatori e... liberalizzatori

Secondo un'indagine ISPO, il 66 per cento degli italiani (ma il dato sale al 74 per cento tra i manager di grandi aziende) ritiene che le liberalizzazioni abbiano una ricaduta positiva per l’economia. Inoltre, il 58 per cento dei nostri concittadini pensa che gli effetti siano favorevoli anche per la propria famiglia (il 54 per cento dei manager per la propria azienda). Moderatamente positivi anche i giudizi sulla credibilità delle Autorità indipendenti.

I risultati della ricerca, di cui si è discusso ieri a Roma nel corso del convegno “Authority: quali strategie per il futuro?” organizzato da Consumers’ Forum, fanno ben sperare. L'esistenza di un consenso diffuso è un prerequisito indispensabile per la realizzazione delle riforme: ed è indisputabile che in questo momento le liberalizzazioni siano estremamente popolari.

Quel che importa è che tale massa critica non venga incanalata a sostegno di progetti che con le liberalizzazioni hanno assai poco da spartire. L'occasione, per i sostenitori del mercato, è di quelle da non perdere.

lunedì 9 luglio 2007

Liberalizzazioni senza privatizzazioni: il caso Poste Italiane

La privatizzazione di un monopolio pubblico non è condizione sufficiente per garantire una vera liberalizzazione. È però condizione necessaria. Se liberalizzare un settore significa riconsegnarlo all’iniziativa privata, una liberalizzazione che non contempli l’eclissarsi dell’imprenditore stato non è che un bluff. E fa male alla concorrenza.

Un mercato aperto è spesso rappresentato come un piano di gioco, in cui tutti i giocatori sono allo stesso livello: liberi di entrarvi, competere, avere successo o fallire. Ciò è perfettamente inconciliabile con il permanere di un soggetto, nelle cui casse confluiscano pubblici denari, a cui non è permesso di fallire. Un soggetto il cui proprietario decide le regole del gioco.

Il caso di Poste Italiane – ancora oggi posseduta al 65% dal Tesoro e per il rimanente 35% dalla Cassa Depositi e Prestiti – ci offre una serie pressoché infinita di distorsioni dovute ad un palese conflitto d’interessi: dalla ricezione minimale delle direttive comunitarie che ci hanno imposto l’apertura del mercato alla passiva accettazione della stima di Poste Italiane dell’onere del servizio universale, con la fissazione della riserva legale al livello più alto permesso da Bruxelles; dall’esenzione dell’incumbent dal pagamento dell’IVA, che grava invece sui suoi concorrenti, alla penalizzante, e vorticosamente mutevole, regolamentazione della posta ibrida; dall’abolizione della posta ordinaria (!) per mascherare un aumento delle tariffe postali, al recente bando per l’assegnazione di servizi che distrugge ogni residuo di concorrenza in questo piano di gioco sempre più irto per gli attori diversi da quello pubblico.

Non deve sorprenderci quindi il fatto che, secondo il nostro Indice, il settore postale sia quello meno liberalizzato in Italia: non ci sorprenderemmo di certo del risultato di Milan-Inter se ad arbitrare la partita ci fosse Berlusconi o Moratti.

Privatizzazioni senza liberalizzazioni: il caso Telecom Italia

Una delle malattie del discorso pubblico in questo paese è il frequente utilizzo improprio del linguaggio: le categorie di privatizzazione e liberalizzazione non sfuggono a tale regolarità, e vengono assai spesso - in modo più o meno consapevole - confuse e sovrapposte.

Un esempio assai utile ad indagare la distinzione è quello di Telecom Italia. Appare infatti evidente che il decennio trascorso dalla privatizzazione non abbia condotto ai risultati auspicati in termini di concorrenzialità e di beneficio per i consumatori. Ma quali considerazioni è lecito trarre da ciò? Si tratta forse di una conferma della bontà dei monopoli pubblici?

Tutt'altro. Siamo, piuttosto, di fronte all'evidenza che limitarsi a trasferire in mani private (e per solito amiche) i privilegi del pubblico non può certo considerarsi un avanzamento del mercato. La privatizzazione che non sia accompagnata da una genuina liberalizzazione è destinata a rimanere uno specchietto per le allodole; quando non diventi, invece, un boomerang - rinforzando la vulgata della necessità dell'interventismo.

Perché le privatizzazioni abbiano successo, viceversa, non è possibile prescindere dalla creazione di un ambiente istituzionale favorevole alla libertà d'impresa e dall'abbattimento delle barriere legali che ne ostacolino l'esplicazione: il che è chiaramente possibile, come testimonia il caso British Telecom, ma ancora di là da venire in Italia, come apparirà chiaro a chi sfoglierà il nostro Indice delle Liberalizzazioni.

Sospendere Doha (per salvarlo)

In un editoriale sul Wall Street Journal di oggi, Jagdish Bhagwati e Arvind Panagariya attaccano il comportamento americano (ed europeo) durante le negoziazioni multilaterali sul commercio. E' vero che il crollo di Potsdam è stato causato da un irrigidimento di India e Brasile, ma il punto è che il primo passo dovrebbero essere Usa e Ue a farlo. Perché sono più ricchi, perché - teoricamente - dispongono di una maggiore comprensione delle dinamiche economiche, perché è assolutamente velleitario pensare che siano i paesi in via di sviluppo a farlo. "Il problema - scrivono - è che oggi non c'è alcun sostegno politico da nessuno dei partiti, negli Usa, per la riduzione dei sussidi agricoli. I Democratici si stanno leccando i baffi nell'attesa di conquistare la Casa Bianca; i Republicani sono terrorizzati dal perderla. Nessuno rischierà di perdere i voti della farm belt".

Si tratta dell'ennesima dimostrazione che le riforme si fanno subito, o non si fanno. Appena eletto, George W. Bush avrebbe potuto premere l'acceleratore. L'autorizzazione a negoziare a nome degli Stati Uniti senza dover sottoporre ogni piccolo passo all'approvazione del Congresso - che aveva consegnato alla Casa Bianca il potere di predisporre un pacchetto "prendere o lasciare" - avrebbe potuto condurre a risultati rivoluzionari, specie quando (nel 2005, a Hong Kong) la controparte europea era rappresentata da Tony Blair, presidente di turno dell'Unione nonché leader del G8, e Peter Mandelson, commissario europeo al commercio. Quella potenzialità si è ormai dissolta.

Con realismo, Bhagwati e Panagariya riconoscono che né il carisma del presidente, né il miraggio di un accesso ai mercati non agricoli (Nama) saranno interpretati dalla potente lobby agricola come un prezzo ragionevole per cedere su sussidi e tariffe. I due economisti, quindi, prendono la via del pragmatismo e suggeriscono una riforma dei sussidi: "prendete i circa 20 miliardi di dollari di questi sussidi alla produzione e trasformatene, per esempio, due terzi in sussidi non distorcenti - sganciati dai livelli di produzione e dati invece, per dire, agli agricoltori per scopi ambientali, la questione oggi più popolare". Non sono sicuro che questa sia la soluzione. Cambierebbe la natura dei sussidi, e forse nel breve termine le cose andrebbero meglio, ma alla lunga - come ci insegna l'esperienza europea - anche l'ambiente e la sicurezza sono ottimi pretesti per frenare le merci straniere. Non credo vi siano soluzioni di breve termine. Perso un treno - quello di Bush - bisogna aspettarne un altro. Come sempre, per i grandi cambiamenti ci vogliono leadership e visione, che oggi all'America (e all'Europa) mancano.

A livello internazionale, forse sarebbe opportuno sospendere Doha, cercando di portare a casa almeno significativi accordi bilaterali. Senza la determinazione europea o americana ad andare avanti, Doha è tafazzismo multilaterale.

domenica 8 luglio 2007

Un Dpef senza liberalizzazioni

Se il governo Prodi era partito, in termini di liberalizzazioni, con un timido passo nella direzione giusta, ormai le sorti dell'esecutivo sembrano giocarsi attorno a ben altri temi. Lo dimostra anche il Dpef 2008-2011, che - a differenza del Documento di programmazione economico-finanziaria dell'anno scorso - pare una mera chiosa sull'esistente, senza accenni ad alcuna delle riforme sostanziali di cui il paese ha bisogno. Anche quest'anno, l'IBL ha diffuso un Position Paper che analizza nel dettaglio il Dpef, evidenziandone gli spunti interessanti (pochi), le ambizioni mancate (tante), le ipotesi di policy che porterebbero l'Italia ancor più lontano dalla libertà economica, comunque la si voglia definire. In particolare, le liberalizzazioni, nel Dpef, semplicemente non ci sono. E se si tiene conto che il Dpef è, normalmente, un libro dei sogni rispetto al quale la finanziaria è un incubo, non oso immaginare dove ci possa portare un Documento che, perfino come sogno, lascia a desiderare.

sabato 7 luglio 2007

Farmaci: perché continuare a liberalizzare

L'ampliamento dei circuiti distributivi nella vendita dei farmaci da automedicazione è certamente la liberalizzazione che ha avuto maggior successo, fra quelle promosse dal governo Prodi. Secondo un'indagine realizzata dal Censis per conto dell'Anifa, il 92% degli italiani è contento della possibilità di poter acquistare i medicinali da banco al di fuori delle farmacie.
Si può dire, allora, che il ministro Bersani è riuscito a creare consenso, attorno ad una riforma che veniva pretestuosamente presentata, da principio, come un semplice "aiutino" alle cooperative amiche, a spese dei farmacisti,elettori di centro-destra.
Quella di Bersani non è stata una liberalizzazione "totale": non si può comprare l'aspirina in autogrill, o da un distributore automatico in un centro sportivo. Il suo provvedimento, però, ha messo le premesse per un graduale allargamento dei cerchi della distribuzione, garantendo la professionalità e la sicurezza che gli italiani cercano (anche alla Coop, c'è il "corner" del farmacista) e nel contempo aprendo opportunità per i farmacisti non titolari di farmacia. Cioè persone che vantano il medesimo titolo di studio, le stesse qualifiche professionali, ma hanno la sfortuna di non aver né "ereditato" né "sposato" una delle farmacie italiane - che sono stringentemente regolate, anche nel numero.
La liberalizzazione potrebbe ora continuare su uno di questi due tracciati. Da una parte, una radicale revisione della "pianta organica", aprendo il mercato a nuovi esercizi. E' improbabile, e forse non sarebbe nemmeno giusto: ci vorrebbe un processo di apertura del mercato graduale, che non produca uno shock a danno esclusivo dei farmacisti "infeudati". Vantano sì dei privilegi, ma le regole del gioco erano quelle, quando hanno cominciato a giocare.
Dall'altra, si possono portare "fuori dalle farmacie" altri prodotti, oltre ai medicinali di automedicazione, esattamente come i farmacisti hanno - giustamente - portato "in farmacia" prodotti nuovi e non strettamente attinenti al loro business. I primi candidati sono i farmaci di fascia C, quelli non rimborsati dal servizio sanitario nazionale, anche se su ricetta.
Liberalizzandone la vendita, si consentirebbero risparmi sulla quota di prezzo incassata dal distributore ultimo, a vantaggio dei consumatori che li pagano di tasca propria. La sicurezza verrebbe sempre garantita dal farmacista laureato (ma non proprietario) presente nell'esercizio di vicinato. Le farmacie propriamente dette resterebbero limitate nel numero, ma questa limitazione guadagnerebbe in legittimità, perché esse effettivamente diventerebbero (come il ministro Turco le ha più volte definite) un "presidio"dell'SSN.
A presentare una proposta in tal senso è stato il deputato radicale Sergio D'Elia. Il 10 luglio a Roma ci sarà una manifestazione di sostegno a D'Elia ed al suo emendamento. Qui potete firmare una interessante, e giusta, petizione.

venerdì 6 luglio 2007

Ortis: Liberalizzazione, ancora tante le criticità

Nella relazione annuale dell'Autorità per l'energia, il presidente Alessandro Ortis ha denunciato i ritardi, sia europei sia nazionali, nella liberalizzazione dei mercati dell'energia in Europa. Si è soffermato, a questo proposito, su due punti. Il primo riguarda il "fiato corto" della Commissione: il progetto di creare un mercato interno dell'energia oggi, per usare un eufemismo, marca il passo. Molti Stati membri hanno dato una lettura parziale delle direttive - o addirittura hanno trovato il modo, nei fatti, di non applicarle - e la retorica e la pratica dei campioni nazionali ha avuto la meglio sui diritti di imprenditori e consumatori (e investitori). Le congestioni transfrontaliere e la scarsità di dorsali cross border dimostrano come l'energia sia ancora concepita come una questione nazionale, e quindi - sia per l'assetto del mercato, sia per la regolazione vigente - non si siano formati gli incentivi a sviluppare collegamenti più robusti.

Sul piano nazionale, invece, Ortis ha evidenziato come, pur avendo introdotto formalmente la liberalizzazione del mercato del gas nel 2003, in Italia il mercato sia ancora di fatto ostaggio dell'ex monopolista, e ciò principalmente a causa della perdurante integrazione verticale dell'Eni nella distribuzione del gas e negli stoccaggi. La separazione proprietaria non è un provvedimento taumaturgico, e certo non è sufficiente, ma è senza dubbio necessaria a introdurre elementi di vera competizione in un mercato che, se come molti pensano è strategico per la competitività del paese, a maggior ragione deve poter godere di una cornice normativa e regolatoria orientata al mercato.

PS Ho commentato altri aspetti della relazione di Ortis su Realismo Energetico.

giovedì 5 luglio 2007

Liberalizzazioni: a metà del guado

L'Indice delle liberalizzazioni realizzato dall'IBL dipinge - utilizzando anche una metodologia di carattere quantitativo - un Paese a metà del guado: che non assomiglia più all'Italia integralmente statizzata nei servizi pubblici e in larga parte della vita economica di tre decenni fa, ma che è ancora ben lontana dall'aver sposato una prospettiva integralmente liberale.
Ma siamo a metà del guado anche in un altro, e più importante, senso.
Il consenso crescente sull'esigenza di liberalizzare l'economia italiana (un consenso autentico, diffuso nelle varie categorie, ormai ben percepito anche da ampi settori del mondo politico) continua ad essere viziato dall'idea che liberalizzare sia importante ma soprattutto per "favorire i consumatori".
L'azione dell'Antitrust ma, più in generale, lo stesso senso comune interpretato dai media vedono insomma nelle liberalizzazioni uno strumento che aiuta David contro Golia, e che quindi può anche imporre l'abolizione dei costi di ricarica delle schede telefoniche o impedire contratti di esclusiva tra imprese assicurative e agenti. Si tratta di liberalizzazioni? Per nulla: ma di azioni demagogiche (e sbagliate) che vengono presentate come legittime perché toglierebbero ai forti per dare ai deboli.
Per certi aspetti, in questa rappresentazione delle liberalizzazioni (ben presente anche nei decreti Bersani) è come se le vecchie logiche del conflitto di classe tra operai e imprenditori fossero oggi riscritte lungo l'opposizione tra consumatori e produttori.
Ovviamente si tratta di un'impostazione inaccettabile, e non solo perché il diritto non può mai sposare un gruppo contro un altro, né è moralmente difendibile una visione della società che si basi su una contrapposizione preconcetta tra quanti producono e quanti consumano.
Sarebbe invece importante che si affermasse la convinzione che tutti noi siamo, al tempo stesso, produttori e consumatori, e che un ambiente giuridico più aperto e liberale ci favorisce in entrambe le nostre attività.
Ancor più importante, però, è che si imponga l'idea che liberalizzare è necessario per restituire piena libertà d'azione a chi vuole intraprendere. Dobbiamo tutti iniziare valorizzare l'imprenditore che è in noi, fino ad oggi soffocato dalle burocrazie pubbliche e dalle bardature corporative.
Se va difesa (certamente!) la libertà del consumatore che vuole spedire lettere o acquistare elettricità rivolgendosi a un piccolo produttore privato italiano oppure a una grossa multinazionale inglese (e non già dovendo dipendere dal solito inefficiente monopolista di Stato), ancor più urgente è che si comprenda l'urgenza morale di riforme che ridiano autonomia a quanti vogliono darsi da fare per "servire il popolo".
Non è uno slogan maoista: è la natura del mercato. Che è liberalizzato o non è.

lunedì 2 luglio 2007

Un blog per parlare di liberalizzazioni

In un Paese come l'Italia, in cui la parola "mercato" continua a suscitare paura, le "liberalizzazioni" sono paradossalmente popolari. Questo vecchio sondaggio di "Repubblica" racconta di un tasso di approvazione per le iniziative del ministro Bersani superiore al 60%. Anche Lorenzo Miozzi del Movimento consumatori, in questa dichiarazione, ricorda giustamente come i maghi dei sondaggi siano generalmente d'accordo, sul fatto che le liberalizzazioni abbiano prodotto consenso per l'esecutivo. Eppure, aggiunge Miozzi, le stesse "lenzuolate" non sono uscite indenni dal passaggio parlamentare.
Noi dell'Istituto Bruno Leoni siamo considerati degli "estremisti" del libero mercato. Noi preferiamo pensare di essere persone coerenti. E proprio per questo siamo convinti che, per liberalizzare davvero, sia importante fare chiarezza sul significato di questo verbo. Che cosa sono le "liberalizzazioni"? Tutti i provvedimenti del governo sono incasellabili sotto questa etichetta? Quanto è libero il mercato, in Italia, in diversi settori? Che cosa resta da fare?
Ne parleremo in questo blog, ne parliamo quotidianamente sul nostro sito e coi nostri interventi sulla stampa. Ma riteniamo importante soprattutto produrre analisi sempre meglio fondate, per dare un ancoraggio più saldo alla discussione. Per questo, abbiamo realizzato la prima valutazione del grado di liberalizzazione dell'economia italiana, che presenteremo a Milano il prossimo 12 luglio. E' il nostro "Indice delle liberalizzazioni", cugino primo dell'Index of Economic Freedom. Se ce lo consentiranno le nostre forze (per darci una mano, clicca qui) sarà un appuntamento annuale.
Stay tuned.